Due anni. Abbiamo smesso di contare i giorni, le settimane, i mesi ed ora siamo agli anni. Inizia il terzo.
Il 6 aprile sarà triste, sarà sommesso, sarà doloroso. 309 vittime.
A raccontare l’anno appena trascorso si fa presto, basta leggere uno degli ultimi report della Struttura per la Gestione dell’ Emergenza: quasi 38000 persone non abitano la propria casa. Oppure si può venire a L’Aquila o in qualsiasi altro centro del cratere sismico, di notte: lì dove c’era la vita, è ancora tutto buio.
Chi l’avrebbe mai detto! Due anni! Son pochi o tanti?
Sono giusti, in realtà, per sapere qualcosa del nostro destino, un cronoprogramma, un’idea di città,… Certezze o, almeno, speranze.
Vaghiamo, invece, e resistiamo, incapaci ad andar via.
Descrivere come stiamo è difficile, perché viviamo in una cornice tutta nostra, che esportare è solo illusorio. Insomma, siamo un insieme di persone del tutto peculiare, al punto che sarebbe interessante farne uno studio sociologico.
Questo insieme di persone convive con transenne e militari, da due anni. Al punto che non ci si fa più caso. Una città diroccata, la nostra città; zona rossa, invalicabile, tanto che ai varchi ci sono i militari. Da due anni. A guardia del nulla. E le zone permesse vengono chiuse. All’una di notte, per riaprire l’indomani.
All’interno di questo insieme ci sono svariati sottoinsiemi, ciascuno sottoposto a vessazioni irraccontabili. Gli abitanti dei progetti C.A.S.E. , per esempio (tralasciando il fatto che ancora non sono noti i criteri con i quali si è avuto accesso alle nuove abitazioni), non sono liberi di assentarsi (insieme o anche singolarmente) dall’alloggio per più di tre mesi, pena la revoca dell’alloggio. E se la famiglia cambia, anche per un lutto improvviso, immediatamente si viene trasferiti. La libera interpretazione delle ordinanze commissariali ha fatto sì che un altro sottoinsieme si è visto revocare il piccolo contributo mensile di autonoma sistemazione perché si è osato cambiare residenza, all’interno del cratere sismico, badate bene! O c’è chi, dopo aver abitato in una piccola parte della propria casa inagibile (classificazione E) con l’ottenimento della parziale agibilità, ora, dovendo sgomberare l’appartamento per poter finalmente iniziare i lavori di ripristino, non sa dove andare. E che dire degli eredi di case inagibili? Avranno il contributo per la ristrutturazione solo se il proprio caro è venuto a mancare entro una certa data, altrimenti nulla. E l’assurdo accanimento nei confronti di chi sta ancora in albergo fuori città? E vogliamo anche metterci chi ha casa agibile all’interno delle zone rosse? O gli orfani del terremoto, senza più famiglia, figli senza più niente per ripartire.
Ma i decisori che siedono ai tavoli per la ricostruzione sono tutti commissari o simil-commissari, nessuno è aquilano, tutti ignari delle difficoltà delle persone e sottolineo persone. Questa, però, è la prima fila dei tavoli della ricostruzione! In seconda fila i sindaci, uditori (o quasi), in terza fila i cittadini a gridare “basta commissari!”, tra i cittadini e i sindaci e tra i decisori e i sindaci le lobbies, suggeritrici, sul loggione la città morente che non ha neanche il fiato per parlare, da lontano si ode solo il fischio del vento che spazza i vicoli e entra nei portoni.
E poi c’è la nostra vita, quella di tutti: cambiata, rovesciata, rimescolata. Vaghiamo, sempre, in cerca di ricucire pezzi perduti: la quotidianità di una passeggiata, di una vetrina, di uno scambio di battute, di un cinema o di un teatro, di un concerto, degli incontri casuali, dei bar alla sera e anche di notte. E, ancora, ci sono le nostre case, alcune riabitate, altre in attesa di noi. Quelle che sono rimaste su e, quindi, sono accessibili, hanno tutte lo stesso odore, la stessa polvere. Ci trovi segni di quella notte, persino i letti disfatti: non una sciatteria, ma un desiderio di poter ricominciare daccapo, con la voglia di riaddormentarsi, in quel letto, alle 3e32 di un giorno qualsiasi. E quelle diroccate in centro, dove ancora puoi sbirciare la vita. E quelle riparate di colori sgargianti. Oppure le nuove, provvisorie, piene di oggetti sui balconi.
Siamo ancora all’Inferno: in alto il buco nero, la nostra città. A guardia tre fiere: una lince, un leone, una lupa. Brama, superbia e avidità.
Riaprire la città dicevamo e diciamo. Riaprirla vuol dire capire non solo il danno, ma anche cosa si è fatto durante questi mesi nei quali le transenne, seppur spesso abbattute, hanno continuato a dividerci dalla città, dai suoi problemi e anche tra di noi. Riaprirla vuol dire lavorare, verificando la sicurezza, smaltendo infine le macerie. E sì, perché a due anni dal sisma e ad un anno dalla rivolta delle carriole che differenziavano coppi, pietre monumentali, ferro ecc., le macerie sono ancora a terra a testimoniare tutte assieme le tre belve di cui sopra.
Entriamo così nel terzo anno dopo terremoto con una sola buona notizia: siamo ancora qui.
Cittadini senza città.
Giusi Pitari
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