Un gruppo di donne e uomini esponenti della società civile dei quattro angoli della Terra, incontra gli attivisti della rivolta tunisina. Una visita promossa ed organizzata dal Consiglio Internazionale del Forum Sociale Mondiale e il Forum Sociale del Maghreb per conoscere gli attori e i contenuti della rivolta tunisina e per portare loro la solidarietà espressa con forza al Forum Sociale Mondiale svoltosi a Dakar lo scorso febbraio.
Prima tappa nella piazza centrale dove c’è un presidio permanente da quando qui è scoppiata la ribellione. Sono giovani uomini e alcune donne che hanno appeso lungo un filo che circonda le tende dove stanno giorno e notte, i loro diplomi, i loro certificati professionali e i loro certificati di disoccupazione.
A Kasserine, nel centro sud della Tunisia, nella sollevazione popolare sono morte 70 persone soprattutto ragazzi, uccisi da cecchini e dall’esercito e dalla polizia. Ma perché Kasserine, questa città lontana dalla capitale e fuori dalla rotta che porta alla costa baciata dal turismo e dai suoi benefici diretti e indiretti. Qui come ci dicono le persone che incontriamo “non c’è niente, non esiste lavoro, non esiste futuro a partire dal presente”. I giovani, che hanno studiato con sacrifici inenarrabili dei genitori, non hanno alcuna prospettiva. Solo disperazione. Stanchi del flusso continuo di risorse nelle tasche dei corrotti a tutti i livelli, della gestione sempre più priva di scrupoli di quella che dovrebbe essere la cosa pubblica, stanchi dell’abuso di piccoli e grandi potenti, stanchi del ricatto o pane o libertà, alla fine hanno trovato il coraggio della disperazione. Un filo rosso attraversa le parole di ogni intervenuto all’incontro con la nostra delegazione. Ed è: dignità. Vogliamo ricostruire la nostra stessa dignità, quella che ci hanno rubato chiedendoci di accettare il pane in cambio della libertà. Noi diciamo che non c’è libertà senza il pane ma anche che non c’è pane senza libertà.
Proprio per questa consapevolezza senza sconti, e perciò più severa verso se stessi dicono è una rivolta che chiede una rivoluzione profonda di tutta la società. Dal livello più basso fino ai vertici del paese e tutto porta dritto a Ben Alì. Ma come ci dice un giovane con quella stessa amara consapevolezza ma “pure di noi che siamo stati complici per troppi anni con il nostri silenzio, con il nostro subire l’umanamente inaccettabile. Si pure noi siamo responsabili e per questo siamo ancora più tenuti a fare fino in fondo questa rivoluzione fino a quando tutti i responsabili non saranno stati chiamati a rispondere delle proprie azioni di fronte a una vera giustizia.”
Tutto questo, questa lezione di dignità e di rivolta verso l’inaccettabilità dell’inaccettabile, stride con le immagini che abbiamo lasciato dietro di noi a casa. Quelle della rivolta del governo e dei cittadini italiani che non vogliono questo peso, questo fastidio. Stride con il senso di respingimento verso questa gente. Cosa vengono a fare qui. Non c’è posto per loro, non è vero che scappano dalla guerra in Tunisia non c’è la guerra.. Ora là è caduto il regime, c’è la libertà, che si diano da fare, che mettano a lavorare per stare a casa propria. A Lampedusa Berlusconi e non solo diceva “via di qui in 48 ore”. Rimpatri. Respingimenti. E’ l’unica litania miope che sanno ripetere.
Quando prende la parola una di noi e porta il saluto e dice che è italiana la sala è attraversata da un brusio, come fosse una nota stonata. Poi l’italiana dice che siamo qui per dimostrare loro solidarietà e appoggio alle loro lotte e a casa siamo per l’accoglienza dei migranti che arrivano dalla Tunisia, si leva un applauso e cercano di guardarci bene negli occhi per vedere se siamo davvero italiani, noi. Per noi è vergogna prima e orgoglio di essere qui e a casa diversi con i gesti di tutti i giorni.
Diversi da coloro che senza esitazione ostentano respingimento. Ma non ci basta questa pur degna consolazione sappiamo che davanti a noi abbiamo un paese, non solo Berlusconi o Maroni e pochi altri. Una società imbruttita che si è persa il cuore lungo la strada e che peggio ancora non sopporta chi esprime un’umanità diversa, cosciente delle proprie responsabilità.
Sulla strada mentre ci avviamo verso la prossima tappa ci ferma una donna. Ci prega di seguirla. Ha una disperazione dentro che non riesce a trattenere. Uno dei suoi figli si è immolato per il fratello. Si è dato fuoco due giorni fa per il fratello che arrestato durante le proteste è stato interrogato per ore, torturato per costringerlo a dare i nomi delle altre persone che erano con lui alla manifestazione. La madre è andata alla caserma per chiedere del figlio e le hanno detto che se non parlerà avrà 20 anni di galera. Tornata a casa disperata lo ha detto al fratello che per disperazione si è dato fuoco.
L’abbiamo seguita fino all’ospedale e abbiamo visitato il ragazzo in gravissime condizioni. Ha 31 anni. Il fratello è più piccolo di lui. Dall’Italia ci giunge la notizia che nelle stesse ore un ragazzo tunisino tentava di darsi fuoco a Manduria. Anche lui per la disperazione. Ai molti italiani che non vogliono sentire andrebbe raccontata la realtà della Tunisia da dove arrivano quei giovani tunisini a Lampedusa, Manduria e Mineo.
E quella disperazione è ancora viva e spinge tanti ragazzi a lasciare dietro di sè famiglie, storie, amicizie, amori e ad avventurarsi per attraversare il braccio di mare per provare a sognare e costruire una speranza di futuro anche per loro. E l’Europa gli restituisce egoismo invece di ripagare il debito che ha verso questo continente. Debito lontano, del colonialismo e vicinissimo del sostegno e degli affari con i regimi dittatoriali che hanno ridotto in povertà questi popoli. Al limite gli offre un intervento militare. Loro qui intanto, i nostri amici della società civile locale, con umanità e dignità soccorrono e accolgono i profughi e gli sfollati che fuggono dalla Libia. Mentre gli italiani gridano all’invasione di 15000 persone arrivate sulle nostre coste, qui ne hanno già dato rifugio a 140.000 e non si lamentano.
L’umanità che abbiamo perso, è quella che a loro ha dato la forza di rivoltarsi e chiedere dignità. A quando da noi, lo stesso?
Raffaella Chiodo Karpinsky-Peacelink
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