La popolazione invecchia e quest’anno saranno 35 milioni i malati di Alzheimer nel mondo. Una cifra di molto superiore alle previsioni, tanto da far parlare Lancet Neurology di “sfida globale del XXI secolo”. La malattia di Alzheimer è la causa più frequente di demenza (perdita progressiva delle capacità intellettive come memoria, linguaggio e giudizio). È determinata da una lenta perdita di cellule nervose (neurodegenerazione) in tutte le aree della corteccia cerebrale. Al centro del processo patologico si trovano precipitazioni di proteine all’interno (proteina tau, v. figura a sinistra) e all’esterno delle cellule nervose (proteina beta-amiloide). La malattia prende il nome da Alois Alzheimer, neurologo tedesco che per la prima volta nel 1907 ne descrisse i sintomi e gli aspetti neuropatologici. All’esame autoptico, il medico notò segni particolari nel tessuto cerebrale di una donna che era morta in seguito a una insolita malattia mentale. Il decorso della malattia è lento e in media i pazienti possono vivere fino a 8-10 anni dopo la diagnosi della malattia. La demenza di Alzheimer si manifesta con lievi problemi di memoria, fino a concludersi con grossi danni ai tessuti cerebrali, ma la rapidità con cui i sintomi si acutizzano varia da persona a persona. Nel corso della malattia i deficit cognitivi si acuiscono e possono portare il paziente a gravi perdite di memoria, a porre più volte le stesse domande, a perdersi in luoghi familiari, all’incapacità di seguire delle indicazioni precise, ad avere disorientamenti sul tempo, sulle persone e sui luoghi, ma anche a trascurare la propria sicurezza personale, l’igiene e la nutrizione. I disturbi cognitivi possono, tuttavia, essere presenti anche anni prima che venga formulata una diagnosi di demenza di Alzheimer. Oggi purtroppo non esistono farmaci in grado di fermare e far regredire la malattia e tutti i trattamenti disponibili puntano a contenerne i sintomi. Per alcuni pazienti, in cui la malattia è in uno stadio lieve o moderato, farmaci come tacrina, donepezil, rivastigmina e galantamina possono aiutare a limitare l’aggravarsi dei sintomi per alcuni mesi. Questi principi attivi funzionano come inibitori dell’acetilcolinesterasi, un enzima che distrugge l’acetilcolina, il neurotrasmettitore carente nel cervello dei malati di Alzheimer. Perciò inibendo questo enzima, si spera di mantenere intatta nei malati la concentrazione di acetilcolina e quindi di migliorare la memoria. Altri farmaci, inoltre, possono aiutare a contenere i problemi di insonnia, di ansietà e di depressione. Nonostante sia in corso da 20 anni con ingenti finanziamenti pubblici e privati una ricerca intensissima con l’obiettivo di interferire con la produzione di beta-amiloide tramite inibizione degli enzimi che controllano la sua produzione (beta-secretasi, gamma-secretasi) o con i fattori che possono influire sul suo accumulo nella corteccia, fino ad oggi questo non si è tramutato in alcuna terapia disponibile, soprattutto per i considerevoli effetti collaterali dei farmaci in via di sviluppo. Anche gli approcci immunologici (‘vaccino’) inizialmente molto promettenti in modelli animali sono stati abbandonati dopo la manifestazione di serie complicanze (meningo-encefaliti) in alcuni pazienti trattati. La messa a punto di nuovi farmaci per la demenza di Alzheimer è oggi un campo in grande sviluppo, nei laboratori di ricerca si sta lavorando a principi attivi che aiutino a prevenire, a rallentare la malattia e a ridurne i sintomi. Altra via di ricerca attiva è quella che punta sullo sviluppo di una risposta immunologica contro la malattia cercando di sviluppare un vaccino in grado di contenere la produzione di b-amiloide (il peptide che si aggrega a formare le placche). Fra le varie terapie non farmacologiche proposte per il trattamento della demenza di Alzheimer, la terapia di orientamento alla realtà (ROT) è quella per la quale esistono maggiori evidenze di efficacia (seppure modesta). Questa terapia è finalizzata ad orientare il paziente rispetto alla propria vita personale, all’ambiente e allo spazio che lo circonda tramite stimoli continui di tipo verbale, visivo, scritto e musicale. Proprio perché una cura non esiste, la diagnosi precoce è molto importante sia perché offre la possibilità di trattare alcuni sintomi della malattia, sia perché permette al paziente di pianificare il suo futuro, quando ancora è in grado di prendere decisioni. Oggi, dopo 27 anni, sono state aggiornate le linee guida americane sul morbo di Alzheimer. Le indicazioni analizzano le prime fasi della malattia, in modo da tener conto delle nuove conoscenze scientifiche. Volute dal National Institute on Aging e dall’Alzheimer’s Association, le linee guida sono pubblicate online oggi su ‘Alzheimer Dementia: The journal of the Alzheimer’s Association’ e sono il frutto del lavoro di alcuni panel di esperti provenienti dai maggiori centri di ricerca e cura statunitensi specializzati in malattie neurologiche. Rispetto ai criteri del 1984, le nuove indicazioni puntano i riflettori sulle prime fasi della malattia e sugli stadi preclinici della demenza. Esaminando anche l’impiego di biomarker e strumenti diagnostici per identificare i cambiamenti nel cervello legati all’Alzheimer. A riscriverle le linee guida sono stati l’Istituto Nazionale Americano sull’Invecchiamento e l’associazione dell’Alzheimer. Le novità più importanti sono l’emergere di impatti devastanti sul cervello anni prima dei sintomi della demenza senile. Le nuove linee guida divideranno la malattia in tre fasi: una fase iniziale in cui si sviluppa , una fase intermedia in cui i problemi lievi emergono ma le funzioni quotidiani sono ancora mantenute e la fase scoperta di recente in cui nessun sintomo è evidente ma la progressione della malattia si concentra nel cervello. Phelps Creighton direttore del National Institute on Aging di Alzheimer’s Disease Center Program è ottimista, grazie alle nuove linee guida sarà possibile identificarlo molto prima rispetto al passato. Molto si dovrà ai “biomarcatori”, indicatori fisiologici che segnalano la predisposizione alla demenza, e ai nuovi metodi di studio del cervello come speciali analisi radiografiche e quelle del liquido del midollo spinale. Valori elevati di proteine amiloidi e tau e riduzioni di certe aree cerebrali sono allo studio nelle sperimentazioni cliniche. Livelli di apolipoproteina E (apoE) nel liquido cerebrospinale sarebbero altamente correlati con i livelli di proteine associate allo sviluppo dell’Alzheimer, quali la proteina precursore dell’amiloide (APP) e la proteina tau. E’ stato anche presentato un disegno di legge al Congresso che specifica nuovi codici di ricerca e i costi per la diagnosi di Alzheimer, e lo sviluppo di future discussioni tra paziente, medico e operatori sanitari, che porterà a una migliore pianificazione e cura. La diagnosi precoce è la chiave per questa malattia, ha spiegato Edward J. Markey, democratico del Massachusetts, sponsor della proposta di legge. I familiari spesso notano i sintomi nei loro cari, ma è solo anni dopo, che ottengono una diagnosi o capiscono quali risorse sono disponibili. Le linee guida inoltre sollecitano cautela, perché attualmente non esiste un farmaco noto per fermare o ritardare in modo significativo l’insorgenza dei sintomi, e la gente deve sapere che allo stato attuale non c’è nessun farmaco efficace da poter prendere. Le linee guida inoltre faranno chiarezza sui criteri di diagnosi per le persone con sintomi di demenza, distinguendo il morbo di Alzheimer da altre demenze, tra cui quelle vascolari, quelle fronto-temporali e di Lewy. Il primo sintomo della demenza di Alzheimer non è sempre la perdita di memoria, ma potrebbero essere i cambiamenti di umore o di problemi di linguaggio, percezione spaziale o di ragionamento. Il Dr. Pierre Tariot, direttore del Alzheimer’s Institute Banner di Phoenix, che pure non è stato coinvolto nella stesura della linee guida, li ha definiti “un passo nella giusta direzione”.
Carlo Di Stanislao
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