Daniele Segre è uno dei registi più appartati e seri che ci siano nel nostro Paese. Sin dal 1976 lega il suo nome a lavori dedicati all’universo giovanile, alle trasformazioni nel mondo del lavoro, all’emarginazione. Ha fondato nel 1981 la società di produzione “I Cammelli” e, nel 1989, l’omonima “Scuola video di documentazione sociale”, che negli anni successivi, anche col sostegno di Unione Europea e Ministero del Lavoro, ha avviato decine di giovani alla delicata e difficile attività di autore ( o altro professionista) audiovisivo nel sociale. Nel 1983 Segre ha realizzato il lungometraggio “Testadura”, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, finzione sulla realtà di un microcosmo giovanile fatto di scelte ostinate, di quotidianità faticose e di complicati rapporti interpersonali. Nel suo secondo lungometraggio, “Manila Paloma Blanca”, 1992, ha indagato l’universo esistenziale di un attore emarginato, utilizzando anche inserti video da “Tempo di riposo” – interpretato, come il film, dall’attore Carlo Colnaghi, recentemente scomparso. Quel film già conteneva per intero la poetica di Segre, il costante scivolamento dalla realtà alla finzione, senza le gabbie delle definizioni e dei generi e senza distanza fra l’uso del cinema e quello del video. Una felice ambiguità fra realtà e rappresentazione, che fa sì che l’etichetta di “documentarista” vada stretta a questo autore, che nel 1995 ha anche debuttato nella regia teatrale. Del resto, opere come “Non ti scordar di me” (1995) e “Paréven furmìghi” (1997) sono incentrate sul fascino del set e dell’immaginario cinematografico, sulla costruzione (reale) di un cinema e la ricostruzione della realtà che il cinema consente. Il prossimo 29 aprile il regista, uno dei più importanti autori italiani di “cinema della realtà”, sarà ospite dell’Istituto Cinematografica La Lanterna Magica e presenzierà alla proiezione, presso l’audiriumm Sericchi della Carispaq, con inzio alle 10, del suo film (del 2008) “Morire di lavoro”: un film documentario sul settore delle costruzioni, con protagonisti i lavoratori e familiari di lavoratori morti sul lavoro e trama narrativa che si sviluppa attraverso i racconti/testimonianze dei protagonisti in primo piano che guardano in macchina. La trama del racconto è supportata anche da voci di attori che interpretano il ruolo di lavoratori morti in cantiere. Nel film si parla di incidenti mortali nei cantieri edili, dell’orgoglio del lavoro, di come si è appreso a lavorare, della sicurezza e della sua mancanza, di lavoro nero, di caporalato e di tutte le questioni che riguardano la condizione di lavoro e di esistenza dei lavoratori. Lo stesso anno Segre ha diretto e prodotto “Dimmi la verità”: un mondo di sentimenti tutt’altro che pacato e incolore, ma restituito con toni netti e piccole idiosincrasie, in cui i protagonisti, allievi-attori-autori dei testi che interpretano in forma di monologo, si confrontano con la durezza e la freddezza della vita, a volte con rabbia, a volte con ironia. “Dimmi la Verità” è una narrazione corale che prosegue in modo speculare il discorso sull’emozionalità giovanile intrapreso da Daniele Segre con “L’Amorosa Visione” (2007) e che, sulla stessa base tematica, fonda un racconto sui ragazzi di oggi non più nella realtà delle loro personali e spontanee risposte davanti alla macchina da presa, ma nella finzione reale dei monologhi da loro stessi interpretati come attori e ispirati dalle proprie esperienze. Gli ultimi tre film (regia e sceneggiatura), sono tutti del 2010: “Luciano Lischi, Editore”; “Lisetta Carmi, Un’Anima in Cammino” e, infine, “Je m’appelle Morando, alfabeto Morandini”, in realtà girato fra il 2004 ed il 2010, un gioco intellettuale tra due amici che condividono la passione per il cinema e ne hanno fatto un lavoro per la vita. E questo è un film, come “Morti di lavoro”, a noi molto caro, in cui Daniele Segre ritrae Morando Morandini nei luoghi a lui più familiari, nel silenzio dello studio di Milano e del giardino di Levanto – immerso nella carta e nei libri – e tra le strade della cittadina ligure, dove il critico scambia battute e opinioni con l’amico regista. A fare da contrappunto al racconto filmico, il suono della sua vecchia macchina da scrivere, inseparabile strumento del suo lavoro di fronte a cui si “isola” dal resto del mondo per concentrarsi esclusivamente sul proprio pensiero e quindi scrivere con una passione, una precisione e una scrupolosità da un artigiano orefice… (continua). Il tutto sempre in nome di una scrittura densa e sintetica in cui ogni parola ha un peso specifico e un ruolo cruciale. Le lettere dell’alfabeto aprono varchi attraverso cui Morandini racconta la sua storia di critico e giornalista cinematografico, le amicizie, i suoi punti di vista sul cinema e la politica e più di tutto l’amore della sua vita, la moglie Laura. Il critico gioca anche con i decenni cinematografici, scegliendo per ciascuno un solo film, quasi come se stesse sfogliando le pagine de “ilMorandini”, il suo Dizionario dei Film edito da Zanichelli. Tra i titoli scelti non può assolutamente mancare Les Enfants du paradis (1945) di Marcel Carnè, la cui celebre battuta della protagonista “Je m’appelle Garance” diventa motivo per giocare nuovamente con le parole e identificarsi subito in un’idea di cinema autoriale, romantica e rigorosa. Segre è anche docente ed il suo corso “Cinema e realtà” è, dal 1996, parte integrante delle attività che il Centro Sperimentale di Cinematografia dedica all’insegnamento di regia e coinvolge, nel primo trimestre di frequenza, gli studenti del primo anno di regia, sceneggiatura, produzione, suono e montaggio. Il corso si basa su un’idea di cinema come momento di incontro e stimolo culturale e come strumento di conoscenza dei linguaggi di rappresentazione del reale. Segre si è anche dedicato alla regia teatrale, firmando, nel 2003, la direzione di “Vecchie. Vancanze al mare”, con Maria Grazia Grassini e Barbara Valmorin, storia di due donne ne che sono state vicine nelle avventure giovanili, ma che lo sono ancora di più nel passaggio ad un’epoca della vita dove i desideri superano la forza di volontà e dove è spesso facile cadere nella noia, con un allestimento che fa della luce una vera e propria protagonista, capace di enfatizzare il profilo delle due donne, rendendole icone della loro condizione, con un colore bianco della scenografia minimalista e delle vestaie indossate, che contribuisce all’atmosfera metafisica e simbolica, che si incontra e scontra con la concretezza e la schiettezza del linguaggio. Sarà quindi una rara occasione, per gli studenti delle scuole medie aquilane ed i cinefili, l’incontro col regista e la sua opera, incontro soprattutto curato da Giovanni Chilante, assieme a tutto il gruppo dell’attivissimo istituto cinematografico cittadino (vedi: http://www.cinemamassimo.it/centro_immagine/ica.php). Ricordiamo che il film “Morire di lavoro”, terminato nel 2007, è stato girato, montato e prodotto unicamente da Segre in collaborazione con il sindacato delle costruzione Cgil e proiettato, in anteprima, per la festa dei lavoratori del 2008, nella Sala del Cenacolo di Montecitorio, grazie all’impegno dell’allora presidente della Camera Fausto Bertinotti. L’omaggio di Segre a L’Aquila arriva otto mesi dopo quello di un altro grande documentarista italiano: Paolo Pisanelli, ideatore da sette anni, della “Festa del Cinema del Reale” e che, soprattutto, a settembre 2010, ha filmato la manifestazione degli aquilani terremotati a Roma, affermato che “sembrava davvero di stare in un cinema dell’irreale”, con una manifestazione “ vietata da subito”, in cui si è assistito “ ad una situazione in cui dei terremotati sfollati, tra i quali moltissimi sono senza casa, abbandonati a sé stessi in una città in ginocchio dal punto di vista commerciale, vengono anche privati del loro diritto ad essere ricordati e subiscono pure le manganellate dlla polizia, mi dava l’impressione di stare dentro un set di un film horror. Ecco l’irreale, perché la realtà ha superato l’irrealtà, l’inimmaginabile”. Lo stesso autore ha per questo intitolato l’edizione scorso del suo Festival Cuori/pietre /trasformazioni”, tre termini che hanno costituito il filo rosso che ha legato fra loro e a L’Aquila, le opere presentata, fra cui ha spiccato “Le quattro volte”, docu-fiction di Michelangelo Frammartino, girato con attori non professionisti ed interpreti veri, come Laura Halilovic, Pietro Marcello, Costanza Quatriglio, Rossella Piccinno, Stefano Savona, Carlo Schirinzi, Chiara Idrusa Scrimieri, Emanuele Svezia e Daniele Vicari.
Carlo Di Stanislao
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