La decisione è stata resa oggi dal consiglio di amministrazione della Biennale di Venezia presieduto da Paolo Baratta, su proposta del direttore della Mostra Marco Mueller. Il prossimo Leone D’Oro alla Carriera, nel corso della 68° edizione del Festival di Venezia, che si terrà dal 31 agosto al 10 settembre 2011, sarà assegnato a Marco Bellocchio, con cerimonia nella Sala Grande del Palazzo del Cinema, cui seguirà la presentazione della nuova versione di Nel nome del padre (1971): non opera restaurata, ma sorta di Director’s Cut, una versione nuova realizzata a partire dai materiali del film stesso, che risulterà più corta dell’originale, con i suoi 90′ contro i 105′ della vecchia. Bellocchio – la cui prima partecipazione al festival veneziano risale al 1967, col secondo lungometraggio La Cina è vicina (che vinse il premio speciale della giuria) – non è mai riuscito ad aggiudicarsi il Leone d’Oro. I pugni in tasca, l’anno prima, venne rifiutato dall’allora direttore Luigi Chiarini: ma andò a Locarno conquistando fama di capolavoro. Bellocchio, con Bertolucci, Faenza e Samperi alla base del nuovo cinema italiano degli anni sessanta-settanta, è uno tra i maggiori autori del cinema contemporaneo. In carriera ha diretto più di 20 film, tra cui Sbatti il mostro in prima pagina, L’ora di religione e Vincere. Ha detto che questo “Leone d’Oro a 71 anni è un onore ed un vanto per un artista”, ma noi crediamo sia stato un semplice dovere verso un Autore che riesce a creare ancora buoni film per raccontare l’urgenza di saperi, individuali e collettivi, che altrimenti svanirebbero. E’ lui che, nel 2003, ha raccontato in “Buongiono notte”, gli “Anni di Piombo”, attraverso la vicenda di Chiara, brigatista coinvolta nel rapimento di Aldo Moro, con l’ideologia che si intreccia con la sua esistenza quotidiana e l’utopia che non riesce a compensare la ferocia della lotta. La parabola artistica di Bellocchio è un immenso viaggio, in cui ogni tappa è qualcosa di nuovo rispetto alla precedente. Nel 2006 riscopre il suo passato a Bobbio (paese Natale dove torna ogni estate e gira piccoli “corti” con i suoi allievi), con “Sorelle”, che sviluppa come tema nel successivo (uscito quest’anno”), “Sorelle mai”, in cui c’è il racconto familiare e c’è ancora e sempre il melodramma verdiano, che muove le deflagrazioni interiori dei personaggi, di cui Bellocchio rivela fin l’ultima piega emotiva. Ovunque, e soprattutto nel cuore, c’è Bobbio, la provincia da fuggire e insieme il luogo da abitare. Nell’epilogo, che si lascia trascinare in acqua dall’iperbole della fantasia, c’è Gianni Schicchi, complice affettuoso cucito nel frac di Modugno. Coi pugni in tasca e un cilindro per cappello interpreta l’ “addio al mondo e ai ricordi del passato”. Tanti anni fa c’era una certa rivalità tra Bellocchio e Bertolucci, i due giovani di maggior talento emersi nei primi anni Sessanta, dopo la “leva” Olmi, De Seta, Pasolini, Taviani, Petri, ecc. E in verità i loro due film, “I pugni in tasca” e “Prima della rivoluzione”, tra loro diversissimi, più duro e aggressivo il primo, più sentimentale (nel senso buono, addirittura stendhaliano) ed elegante il secondo, fecero giustamente “epoca”, furono la speranza di un ulteriore avanzamento del cinema italiano nella sua grande ripresa degli anni del boom. Questa speranza non ebbe conferme. Molto presto, dopo la “congiuntura”, il cinema italiano cominciò ad annaspare, a farsi metafisico e metaforico, a non cogliere più il senso di ciò che accadeva al paese e alla sua cultura. Ora, dopo sei lustri, i due ricevono due premi prestigiosi alla carriera: Bellocchio a Venezia e l’altro a Cannes. Come ha scritto il sempre eccellente Goffredo Fofi, i due sono diversi ma hanno una comune chiave di lettura: la psicoanalisi, con un’altra asserzione totalizzante che è Marx, entrambi assunti a mèntori per parlare del disagio e della possibile fine della civiltà. E adesso, con i due premi annunciati e presto consegnati, ci viene in mente, come in un montaggio alterno, di mettere Sorelle di Marco Bellocchio a confronto con Historie d’Eau di Bernardo Bertolucci, in modo da generare un risultato perfetto per un’(im)possibile equazione tra cinema e mestiere. Ma anche di mettere in luce le diversificazioni di due cinematografie equidistanti. Bellocchio sembra essere appeso ad un vissuto che difficilmente si staccherà dalle sue radici; mentre Bertolucci sembra rifarsi ad un presente (ma anche di futuro) legato alla spiritualità. Sorelle, è il compendio di tre episodi di una stessa storia, girati in tre anni diversi (1999, 2004 e 2005). Raccontano di una bambina Elena nella sua crescita, di sua madre Sara che vorrebbe fare l’attrice, e di suo fratello Giorgio, un uomo sempre alla ricerca di un suo centro. Negli anni si incontrano sporadicamente a Bobbio, nel piacentino, in casa delle vecchie zie. Ognuno vorrebbe scappare dal quel sicuro ventre familiare, ma nessuno trova il coraggio di farlo. Un giorno però accade qualcosa che imporrà in Sara e Giorgio una scelta definitiva. Bellocchio incide molto sul dilemma tra l’andare od il restare, mentre al contrario Bertolucci è certo che il restare è fonte di una innegabile saggezza. Historie d’Eau, nel breve arco di dieci minuti, mette sotto il microscopio la vita (passata, presente e futura) di un giovane clandestino indiano, che mandato a cercare dell’acqua da un vecchio suonatore di flauto, si ritrova prima amante, poi sposo, poi padre di famiglia, prima di tornare dal vecchio, che dopo vent’anni lo sta ancora aspettando. Il senso è chiaro: solo chi resta può concedersi di modificare il tempo e gli eventi. L’andare ed il restare. Certamente una maggiore ispirazione e capacità di coinvolgimento del precedente Dreamers, in cui Bertolucci prende, senza citarlo, Les enfants terribles di Cocteau, che già rendeva un po’ accattivante Radiguet ma era pur sempre “un racconto crudele della giovinezza” come sono stati “Jules e Jim” e i primi Godard, i film di Oshima e di Skolimowski e anche, e molto, in modi diversi, “I pugni in tasca” e “Prima della rivoluzione”, dell’amico-rivale Belocchio. Lo ha preso e lo ha illustrato spostandolo con il gusto di oggi a un’epoca, il ’68, vista solo in due aspetti. A) Quella di una certa “liberazione sessuale”, reale assai, ma che c’entra “Les enfants terribles” se non per il triangolo pensato molti anni prima (quaranta!) ben più amaro crudele disperato? Qui di crudeltà e di disperazione c’è niente, c’è solo un gioco di ricchi. B) Quello di una certa cinefilia. Anche qui falsificandola nonostante i “documenti” su Langlois, ma come se il ’68 fosse principalmente quello, la rivolta dei cinéphiles contro Malraux e non degli studenti contro De Gaulle e anzi tutto un sistema, “il” sistema. Ma, in fondo, non meno critico è il nostro giudizio su Vincere di Bellocchio, un film troppo lungo e pesante, con una grandiosità troppo evidente o in primo piano, che alla fine induce una certa stanchezza per questa storia d’Italia, storia d’amore, storia di famiglia spezzata dall’interno. Un film dalle profonde ambivalenze, tanto incisivo ed efficace nella sua forma, quanto a volte opinabile per quanto riguarda il contenuto e le sue più dirette modalità di rappresentazione. Ed anche la scelta di utilizzare con frequenza un commento sonoro pesante e possente, seppur opinabile, aiuta a rendere le atmosfere dure e oppressive del film e le ossessive psicologie dei due protagonisti. Meno riuscite sono le parti più scritte e ricostruite: nella prima parte, dove Mussolini e da Dalser sono ancora insieme, la necessità di essere opprimenti spinge Bellocchio verso alcune esagerazioni nella descrizione ostentata del sesso o nella caratterizzazione quasi grottesca del Mussolini di Timi; nella seconda, invece, quando è Giovanna Mezzogiorno vera ed unica protagonista e Timi esce praticamente di scena, sono gli eccessi urlati e melodrammatici a convincere di meno, penalizzando proprio la drammaturgia. Ciò che stupisce nei due è la capacità, ancora, di progettare. Bertolucci è al lavoro su un nuovo progetto tratto dal libro di Niccolò Ammanniti ‘Io e te’, film che sarà girato in 3D ed ambientato quasi interamente in una cantina, dove un quattordicenne si rinchiude durante la settimana bianca con cibo e un forte senso di insicurezza. Bellocchio ha già annunciato che inizierà a girare a settembre “La monaca di Bobbio”, storia, basata su un fatto accaduto realmente nel XVII° secolo, che ha per protagonista una nobildonna costretta dal padre a farsi monaca. Le sue numerose relazioni sessuali e la sua condotta sregolata la condurranno all’omicidio e al carcere. Toccherà a un giovane e inesperto prete decidere se lasciare la religiosa in carcere o permettere che torni libera. La storia sarà ambientata ancora nella natale Bobbio e vedrà protagonista quasi sicuramente la bella Maya Sansa, che ha già collaborato con Bellocchio in Buongiorno, notte, con una coproduzione italo-francese, tra la Bim di Valerio De Paolis, la Madeleine di Carlo Macchitella e la Babe Films di Fabio Conversi. “Le cose si fanno davvero complicate. Più mi sforzo di guardare avanti, per esempio con un nuovo film in preparazione, più mi costringono a girarmi indietro…Ho partecipato al Festival di Cannes 4 o 5 volte e ora arriva questa Palma d’oro a sorpresa che mi riporta necessariamente al passato. In segreto io la assegno a Novecento, che fu proiettato per la prima volta a Cannes, ma fuori concorso…Spero che la mia Palma d’oro, la notte dell’inaugurazione del Festival, sia di buon augurio per i film italiani in concorso”. Questo ha detto Bertolucci dopo aver saputo della Palma D’Oro e qualcosa di molto simile dirà Bellocchio sulla Laguna fra qualche mese, poiché sono artigiano pieni di fervore e talento, che si sentono ancora in piena attività e non certo cariatidi da conservare in un museo.
Carlo Di Stanislao
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