Pur riconoscendone il talento non ho mai amato il cinema di Lars von Trier, regista danese famoso per “Le onde del destino”, “Dancer in the Dark”, “Dogville”, protagonista ieri del momento più shock di questa edizione del Festival di Cannes, con le sue dichiarazioni filonaziste e radicalmente antisioniste. “Hitler lo capisco. Ovviamente ha fatto molte cose sbagliate, assolutamente, ma riesco a immaginarmelo mentre sedeva nel suo bunker quando tutto era finito. Sto solo dicendo che capisco l’uomo. Certo, non è proprio quello che definiresti un bravo ragazzo ma, sì, ho capito molto di lui e mi fa un po’ di simpatia”; ha detto von Tier ed ha continuato: “Mi sento vicino agli ebrei. Ma non troppo, perché Israele è un dito nel culo“. Poi, capendo forse di aver esagerato (come fa anche, per me spesso, sullo schermo), ha fatto pervenire un comunicato di scuse: “Mi sono lasciato trascinare in una provocazione. Presento le mie scuse“. Ma ciò non ha comunque impedito a diverse associazioni di reagire con sdegno alla conferenza stampa di Von Trier.
Il presidente del congresso ebraico europeo, Moshe Kantor, ha dichiarato: “Abbiamo visto troppi esempi di ‘rispettabile antisemitismo’ in Europa nel corso dell’ultimo anno e lo sfogo di Lars Von Trier è soltanto l’ennesimo caso. Ci dovrebbero essere conseguenze per questi tipi di invettive razziste se non vogliamo che situazioni come queste si ripetano. All’appuntamento francese il cineasta ha portato il lungometraggio ‘Melancholia‘, un film che parla di catastrofi interiori, di “uno stato mentale, la depressione, che è quello della mia vita adesso“, come lui stesso ha dichiarato. Seppur accolto da molti consensi da parte dei solito snob, il film mostra ancora una volta tutti i limiti del cinema di Von Trier, basato sull’effettismo, sullo shock, più che su reali, autentici approfondimenti. Un cinema sgradevole, eccessivo, privo di equilibrio e di vera progressione. Tutto accompagnato dalla musica di Wagner del Tristano e Isotta, ‘Melancholia‘, porta sullo schermo uno scenario apocalittico, privo di speranza e di autentica ispirazione. Regista a dir poco eccentrico, Lars von Trier per anni ha teorizzato un nuovo tipo di cinema, espresso nel manifesto Dogma, di cui è stato il maggior promotore nel 1995,; ma poi se n’è progressivamente allontanato, cercando scampo in un tipo di film sempre più astratto e violento. Dopo “Antichrist” (Anticristo, 2009) con “Melancholia” (“Malinconia”), un film pieno di musica reboante, effetti speciali e scene melodrammatiche, Von Trier continua ad entrare in collisione antinomica con quanto teorizzato sedici anni or sono. Nel film, un pianeta misterioso, celato dietro il sole, che muta orbita ed entra in collisione con la terra, distruggendola. Il tutto è visto da due sorelle, una delle quali fresca sposa e veggente, che vivono in un lussuoso castello circondato da un grande campo da golf. Sono due storie nettamente separate, la prima ruota attorno alla festa di nozze, con la sposa sempre più in crisi che finisce col separarsi dal marito poche ore dopo averlo sposato, quando le celebrazioni non sono ancora concluse. La seconda, ambientata qualche tempo, dopo ha al centro la sorella, moglie del proprietario del maniero. I due accolgono la fresca sposa piombata in una crisi depressiva profonda e scoprono che il malessere di cui è afflitta deriva dal sapere, contrariamente a quanto assicurato da astronomi e studiosi, che la fine del mondo avverrà da lì a poche ore. La presentazione del dramma è fatta con molte immagini elaborate al computer, raffinate e inquietanti, mentre quelle del pianeta in arrivo sono tratte, con tutta probabilità, da materiale di repertorio. In definitiva, come per quasi tutto il cinema del danese, il film è presuntuoso, ottimamente interpretato ma banale nell’assunto e, soprattutto, pesante nella narrazione. Già il 3 maggio 1984, in occasione dell’uscita de L’elemento del crimine, von Trier pubblica il suo primo manifesto, una dichiarazione d’intenti in cui focalizza l’identità attiva e non passiva del regista (il regista “maschio” contrapposto al film “femmina”). Il 17 maggio 1987, poi, per l’uscita di Epidemic, pubblica un altro manifesto inneggiante alla “bazzecola”: è nelle opere minori che si trovano i capolavori. Il 29 dicembre 1990 esce il suo terzo manifesto per Europa in cui si autodefinisce “masturbatore dello schermo”. E a questi manifesti reazionari, machistio e masturbatori è rimasto fedele nei secoli e nello scorrere delle pellicole, non già al “voto di castità” che firma insieme ad altri registi: il Dogma 95, fare 5 film secondo regole che, invece, ha continuamente disatteso, tradendo, oltre agli 83 autori che avevano firmato il manifesto, anche e soprattutto se stesso. In fondo la melanconia espressa dal dandy von Tier non assomiglia affatto allo spleen, al’ennui di Baudelaire, Huysmans e o la misteriosa malattia “dei diavoli blu” di Alfred de Vigny, bensì assume la dimensione di una sua caricaturale enfatizzazione. Vorremmo che von Tier leggesse “Vita di Dandy” di Lanuzz o Jaques Rigaud, in moda da comprendere il vero senso di un sentimento che lui trasforma in effetto da baraccone per allocchi statunitensi. La melanconia, infatti, è quella che sorge “nel punto più remoto e freddo tra le sere celesti”, con “Saturno, nume della solitudine”, che “ora sio esalta nella creatività, e ora si ripiega su una aristocratica afflizione che è contemptus mundi, disprezzo del mondo” giungendo, come Fassbinder, o Antonioni o Winders, alla comprensione di essere ” felice d’essere infelice”. La sua “melanconia” patinata ed effettistica, ricorda quella di Leni Riefenstahl, con contenuti perfettamente nazzisti. E di questo che, soprattutto, il danese dovrebbe scusarsi. Da italiani e conoscitori di Leopardi, possiamo ancora raccomandare a von Tier, di lavorare sulla lettura dello spleen e di comprendere, se vi riuscirà, di accedere al senso vero del tedium vitae (con la “noia” di Moravia e la “nausea” di Sartre), capace di produrre riflessività sulla condizione umana e di esprimersi, a livello artistico, con la descrizione degli effetti opprimenti e terribili dell’angoscia esistenziale. Nel 2009, Amedeo Vigorelli, professore di Filosofia Morale all’Università degli studi di Milano, ha scritto un libro intitolato: Il disgusto del tempo. La noia come tonalità affettiva, in cui la noia, definita come una “tonalità affettiva fondamentale”, viene posta al centro di un ripensamento etico dei problemi dell’antropologia filosofica. Ne regaleremo una copia a von Tier, affinchè comprenda che il suo film non sfiora neanche il vero nucleo dello spleen, che è la noia e che questa, durante l’Illuminismo, viene considerata un sentimento vitale fondamentale, strettamente legato alla concezione che crede nella superiorità del lavoro sull’ozio e della civiltà sulla naturalità. Anzi, filosofi come Pietro Verri e Immanuel Kant vedevano in essa uno stimolo alla laboriosità e un rimedio contro l’ozio, cogliendo poi il fatto, a lui sfuggito, che l’altra caratteristica significativa della noia è che solo l’uomo, a causa della sua particolare modalità di interazione con l’ambiente e della sua maggiore consapevolezza del tempo e dello spazio, ha la facoltà di annoiarsi. Tanto che si potrebbe arrivare a definire l’uomo come l’animale che si annoia. Tutto questo traspare da Autori (Freud, Marx, Nietzsche), che von Tier dice di avere letto, ma, se lo ha fatto, distrattamente, tanto da creare un cinema sgradevolmente noioso. Ed anche, come medici, eccepiamo, nei confronti del “collega”, l’equivalenza melanconia-depressione, non vera e non sempre autentica, tanto da richiamare Rhazes, medico arabo del X secolo, che già faceva, con garbo, differenze e che, pare, ispirò, sette secoli dopo, Ippolito Pindemonte, nei versi: “Melanconia/ninfa gentile /la vita mia/consegno a te.//I tuoi piaceri/chi tiene a vile/ai piacer veri/nato non è”.
Carlo Di Stanislao
Lascia un commento