Si chiede il visitatore medio, cosa avrà voluto dire la curatrice della Biennale 2011 (tolta a Sgarbi fra mille strepiti), la svizzera Bice Curiger, inserendo nel Padiglione centrale le tre grandi tele di Canaletto concesse in prestito dalla soprintendenza per il Polo Museale Veneziano. Soprattutto si chiede cosa c’entrano con il contemporaneo, non tenendo conto che lui, Giovanni Antonio Canal, meglio conosciuto come il Canaletto, era uno che osava e lo faceva già più di quattro secoli or sono. I curatori di questa 54° edizione hanno scritto che quest’anno, alla Biennale, nessun artista e minore o marginale e grande è l’orgoglio, di noi aquilani, nel sapere che fra quelli che espongono vi è il nostro grande Marcello Mariani, segnalato da personalità di spicco come Italo Zannier, Giorgio Albertazzi, Corrado Augias, Tonino Guerra, Sergio Zavoli, Ennio Morricone, Louis Godart, Miriam Mafai, Ermanno Olmi, Massimo Cacciari, Alberto Arbasino, Tahar Ben Jelloun, Bernard Henry-Levy, Umberto Eco, Furio Colombo, Roberto Saviano, Paolo Mieli, Giorgio Pressburger; tanto che il prof. Emmanuele Emanuele, presidente del “Comitato” preposto alla nomina degli artisti che meglio rappresenteranno il Paese alla 54^ Esposizione Internazionale d’Arte, ha potuto ufficialmente invitarlo ad esporre nella storica sede delle Corderie dell’Arsenale di Venezia. Con i suoi 28 padiglioni, l’edizione di quest’anno si preannuncia fra le migliori di sempre, con un ricco calendario di laboratori, arte e musica, balletto e via dicendo. 89 i Paesi partecipanti, contro i 77 dell’edizione 2010 ed una durata “storica”, sino al 27 novembre. L’opera prescelta da Mariani, è ben capace di rappresentarne i contenuti artistici nell’ambito di una inesausta ricerca astratto-informale, con caldi cromatismi e suggestioni poetiche che traspaiono matericamente dai vivi colori. Un’opera che si libera della forma, con i cromatismi vibranti rifondati sulla tela e la libertà apparentemente caotica del loro riapparire nudi, con una visione espressiva che comunque non si sottrae alla dimensione contenutistica, la quale, del resto, è sempre tutt’uno con lo strumento espressivo. Dice bene Gabriele Simongini: non si può capire la pittura di Mariani senza tenere a mente le radici abruzzesi dell’artista, il nitore cristallino dell’aria e dei cieli aquilani, i verdi e i rossi infuocati, autunnali, delle campagne, gli scabri ed ascetici profili montuosi, gli equilibri geometrici di antiche architetture attaccate dall’inflessibile aggressività del tempo. E tutto ciò affiora in immagini distillate non per un fragile residuo naturalistico, ma per l‘insopprimibile e spontanea esigenza sentita da Mariani di dipingere prima di tutto il calore vitale, la traccia immanente di una presenza sacrale. La sua è una aquilanità che collega assieme i riti ed il moderno, coniugandoli ad una dimensione universale, che non può definirsi, nel suo esprimersi, semplicemente “informale”, ma che invece, nel segno, lascia affiorare potenti e archetipe ombre figurali, giunte chissà da dove. Nel quadro della Biennale, Mariani mostra la sua totale diffidenza sulle certezze razionali e circa la possibilità di ridurre il mistero dell’universo e della vita umana a un insieme di formule matematiche, chimiche e biologiche. E proprio per questo il suo pensiero sulla pittura sembra molto vicino a una celebre dichiarazione di Willem De Kooning: “Questo famoso spazio fisico – lo spazio degli scienziati -ora ha finito proprio con l’annoiarmi. Hanno lenti così spesse, questi scienziati, che lo spazio visto attraverso di esse diviene sempre più malinconico. Sembra proprio che non vi siano limiti allo squallore dello spazio fisico: non contiene altro che miliardi e miliardi di frammenti di materia, calda e fredda, che vagano nel buio, secondo un sistema grandioso, senza scopo. Il fatto è che le stelle che interessano me, se potessi volare, le raggiungerei alla buona, in un paio di giornate. Le stelle degli scienziati, invece, le uso come bottoni che abbottonano sipari di vuoto. Se stendo le braccia intorno e mi domando dove sono le mie dita, ecco, ho tracciato lo spazio che basta a un pittore”. L’opera di Mariani è quella di un profeta visionario, da cui emerge, costantemente, il dramma in atto di una separazione, di una mancanza e in particolare della frattura inconciliabile fra il modo di vivere odierno e la dimensione del sacro, a cui è invece costantemente rivolta l’attenzione del nostro artista, creatore di nuovi spazi per la contemplazione. Dicevamo dell’apparente ossimoro Canaletto, in verità viatico fondativo e lettura per una Biennale che vuole ricreare il “vedutismo”, secondo stili e contributi del tutto innovativi. Quelli stessi che Mariani porta avanti con tenacia e passione da quasi sessant’anni, cioè dalla prima personale, in cui già supera i maestri Scordia e Spinosa e che risale al lontano 1954.
Carlo Di Stanislao
Lascia un commento