In un clima di guerra diffusa che spazia, solo per nominare alcuni degli orizzonti più caldi e vicini, dalla Libia al Sudan, si celebra oggi la Giornata del peacekeeping, letteralmente il tentativo di “mantenimento della pace” messo in atto con il consenso delle parti in causa e condotto prevalentemente sotto l’egida delle Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU). In molte zone “calde” del mondo cresce sempre più l’esigenza di arrivare ad una tregua e affiancare a caschi blu e forze militari, personale civile preparato in grado di far fronte ad operazioni di di pace o umanitarie come i peacekeepers.
Ad attualizzare una figura ancora molto importante e ricercato nello scenario della geopolitica mondiale è stata la scorsa settimana la Russia, nel tentativo di arrivare ad una soluzione della guerra in Libia. “Pensiamo – ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri Alexander Lukashevich – che sia importante mettere in campo ogni sforzo politico e diplomatico per risolvere la crisi con l’aiuto del potenziale di peacekeeping dell’ONU e dell’Unione Africana”.
La Russia, astenutasi sulla risoluzione del Consiglio di sicurezza Onu di marzo che autorizzava l’azione militare per creare una no-fly zone e proteggere i civili in Libia, ha duramente criticato i bombardamenti contro le forze del leader libico Muammar Gheddafi, alimentando i timori che potrebbe usare il suo potere di veto per bloccare in futuro l’appoggio ad un ulteriore intervento militare in Libia o magari in Sud Sudan dove i peacekeeper della United Nations Mission in Sudan (UNMIS) sono in azione da mesi.
Anche qui, come in Libia, la situazione sembra precipitare, soprattutto dopo l’occupazione della regione di Abyei da parte delle forze del governo sudanese e dove “Elementi armati simpatizzanti del Nord Sudan da giorni effettuano razzie e incendi senza alcun intervento dell’esercito” ha spiegato il portavoce di Umnis Kouider Zerrouk. Ora Centinaia di migliaia di persone sono in fuga nonostante gli inviti di Ban Ki-moon “a cessare immediatamente tutte le operazioni militari”. A rischio è la stessa missione di pace.
Infatti, come riportato dal Sudan Tribune lo scorso 10 maggio, quattro dei peacekeeper della United Nations Mission in Sudan che avevano permesso le corrette operazioni di voto al referendum che ha sancito la divisione del Sudan lo scorso 9 gennaio, sono stati uccisi a colpi d’arma da fuoco ad Abyei, mentre una manifestazione spontanea composta da attivisti civili e studenti sud-sudanesi ha invaso pacificamente le strade di Juba, la capitale del Sud, invocando un immediato referendum ad Abyei con il sostegno dell’Onu come disposto dal trattato di pace del 2005, il Comprehensive Peace Agreement (CPA).
L’inserimento nella bozza di costituzione del Sud Sudan della regione contestata dell’Abyei, ricca di petrolio e fulcro non solo geografico delle tensioni sudanesi, suggella un periodo di crisi crescente dal referendum di gennaio 2011 ad oggi. Da allora, infatti, la regione dell’Abyei aspetta ancora di esprimere tramite un proprio referendum la scelta se aggregarsi al nord del Sudan o al nuovo stato del Sud Sudan. Tale impasse è determinata dalle dispute sulla definizione di chi ha diritto di voto: se la tribù araba nomade dei Misseriya, che entra periodicamente in Abyei con le greggi, o piuttosto la tribù stanziale dei Dinka Ngok. Il risultato è stato rendere estremamente complicate le operazioni di peacekeeping che nell’area hanno impegnato l’UNMIS nelle funzioni e nei settori più svariati: dal monitoraggio elettorale agli aiuti d’emergenza, dai trasporti alla logistica, dalla gestione di risorse umane agli affari legali e politici, dall’assistenza umanitaria alla difesa dei diritti umani.
Vista la gravità crescente della situazione, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha rilasciato una dichiarazione dove dalle parole del presidente francese Gérard Araud si apprende la preoccupazione delle Nazioni Unite, che condanna l’uccisione dei quattro peacekeeper e ribadisce l’adesione alle direttive del trattato di pace del 2005 per poter portare a termine la missione di pace.
Ma il Sudan non è il solo luogo dove il peacekipping è “a rischio”. Solo mercoledì scorso gli allievi della Scuola Superiore S.Anna di Pisa, una delle più importanti nel formare queste figure professionali sono stati contestati dal Coordinamento No Hub pisano durante la conferenza “Italia e Afghanistan: dieci anni di impegno politico e militare 2001-2011”.
Il Coordinamento No Hub ha, infatti, presentato sul tema della conferenza una visione contrapposta attraverso un dépliant intitolato “Italia e Afghanistan: dieci anni di guerra e occupazione 2001-2011”. “Contestiamo non solo l’impostazione della conferenza, ma il ruolo stesso del Sant’Anna nella martellante campagna propagandistica per presentare le guerre – dalla prima guerra del Golfo nel 1991 a quelle contro la Jugoslavia nel 1999, l’Afghanistan nel 2001, l’Iraq nel 2003, la Libia nel 2011- come operazioni umanitarie e di peacekeeping, paravento dell’aggressione e dell’occupazione militare” ha dichiarato il Coordinamento.
Il futuro della pace, di questa professione e di questa giornata passa anche da qui, cioè dalla capacità delle politiche di peacekeeping di confronti “simmetrici” con avversari autoctoni armati di argomenti difficilmente riducibili alle logiche della “realpolitik neo-imperialista”.
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