Ras Jdir, decine di migliaia di disperati in fuga dalla guerra

La strada che da Ben Guerdane porta a Ras Jdir è una striscia di asfalto che taglia un deserto di pietre e polvere. Appena fuori dalla città è affollata di bancarelle che vendono benzina, acqua, sigarette. Poi non c’è più niente, fino al confine che divide Tunisia e Libia. Secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale dei […]

La strada che da Ben Guerdane porta a Ras Jdir è una striscia di asfalto che taglia un deserto di pietre e polvere. Appena fuori dalla città è affollata di bancarelle che vendono benzina, acqua, sigarette. Poi non c’è più niente, fino al confine che divide Tunisia e Libia.

Secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale dei Migranti (Iom), da febbraio ad oggi 710.438 persone sono scappate dalla guerra civile in Libia. Di queste, 339.223 sono entrate in Tunisia attraverso Ras Jdir e Deheba, ottanta chilometri più a sud.

Ad affrontare l’emergenza, qui a Ras Jdir, c’è un ospedale da campo inviato dal Marocco, il Transit Camp degli Emirati Arabi Uniti, l’Unhcr e la Trc-Ifrc (la federazione che riunisce Croce Rossa e Mezzaluna Rossa), che gestisce i campi di Shousha e Al Hayet. L’esercito tunisino controlla, l’Europa è assente.

Aloulou si fa chiamare Ale, è uno dei 140 volontari tunisini che lavorano qui. “La situazione ad Al Hayet è migliorata nelle ultime settimane – spiega – delle 4.100 persone che sono transitate dal 6 aprile ne sono rimaste 730. Il problema è Shousha. Prepariamo settemila pasti al giorno, ma non bastano. Dalla frontiera continuano ad arrivare rifugiati.”

Nel campo, che il 30 aprile è stato quasi distrutto da una tempesta di sabbia, ci sono oggi 3.271 persone. La maggior parte sono originari della Somalia (1.351) seguiti da Eritrea (969), Niger (624), Sudan (524) e Chad (353). Il campo è diviso in zone contrassegnate dalle bandiere dei rispettivi paesi.

C’è una chiesa cristiana, una moschea, alcuni negozi improvvisati che vendono sigarette, acqua, caramelle, latte. Musica reggae e afrofunk esce da tende trasformate in luoghi di incontro dove la gente parla, gioca a carte, guarda la televisione quando c’è. C’è ordine, dignità, qualche sorriso. Servizi igienici di base, acqua pulita, assistenza medica, sapone, coperte e un secchio di plastica per tutti. Una convivenza pacifica tra persone provenienti da 27 paesi diversi.

Ci sono stati problemi? “Nessuno – risponde Ale – i nigeriani dicono che un soldato tunisino ha sparato a uno di loro, ma non è vero. E’ arrivato già ferito. L’esercito quando interviene per mantenere l’ordine spara in aria”.

Tutti vogliono parlare con il sahafi, giornalista in arabo. Shusha è una babele di storie e opinioni. I somali vengono tutti da uno stesso quartiere di Tripoli. Lavoravano come muratori e operai, e non hanno niente contro Gheddafi, che anzi per loro è un grande leader. Si lamentano dei cittadini libici, che li trattavano come schiavi.

Sono scappati lasciando tutto, e ora si ritrovano nella colonna segnata in blu nelle statistiche dell’Unhcr: “Evacuazione al momento non possibile.” Ringraziano la Tunisia, ma spaventano quando guardano il deserto e dicono: “Non possiamo stare qui. Tra un mese il caldo ci ucciderà.”

Nella zona degli Eritrei, invece, si sentono storie di maltrattamenti continui da parte della polizia libica. Mohammed lavorava come meccanico, ma raramente veniva pagato e viveva nella paura continua degli uomini di Gheddafi. Grazie ai soldi che è riuscito a nascondere durante la fuga ha trasformato la sua tenda in un piccolo negozio, e sembra più contento di vivere di questa microeconomia della sopravvivenza (l’Unhcr permette ad alcuni rifugiati di andare a Ben Guerdane per comprare generi di prima necessità da rivendere) che di immaginare un futuro fuori da Shousha.

Emmanuelle, 35 anni, nigeriano, è accampato con la moglie in una tenda nella zona somala e conosce bene i trucchi della politica libica: “Sono arrivato nel 1999, quando Gheddafi ha aperto le frontiere e ha fatto entrare nel paese migliaia di africani senza visto. Aveva bisogno di manodopera a basso costo. Poi ha usato l’immigrazione come scusa per i problemi della Libia e ci ha aizzato i cittadini contro. Non è mai stato un tipo affidabile.”

Monta finestre in alluminio, è scappato prima da un conflitto etnico in Nigeria ed ora da una nuova guerra: “Ho perso dieci anni in Libia, ora vorrei vivere e lavorare in un paese in pace. Qui stiamo bene, ma non è un bel posto per un essere umano”.

Il Transit Camp degli Emirati Arabi Uniti è ordinato e molto controllato. Ospita principalmente famiglie. Un’insegna dice: “Campo di supporto al popolo libico.” In realtà ci sono 322 sudanesi, 267 egiziani, 191 eritrei, 22 palestinesi, 12 ciaddiani, 186 irakeni, 15 etiopi, 3 liberiani, 2 congolesi e un pachistano. E i libici? “Sono nelle case di Ben Guerdane – dicono gli operatori del campo – oppure nelle loro ville a Djerba”, aggiungono con un sorriso ironico.

Da marzo, nel Transit Camp sono entrate 12.570 persone e ne sono uscite 11.669. Oggi vengono rimpatriati 200 egiziani. Alla frontiera, gli operatori dell’Unhcr aspettano altri rifugiati. Moshem Mahdi, volontario tunisino, è qui da due mesi: “La media è di 250 al giorno, ma ieri ne sono arrivati 700. Noi li registriamo, trasmettiamo i dati alle ambasciate e poi aspettiamo che venga organizzato il rimpatrio”.

Il problema sono i milioni di africani che hanno lavorato per anni per i libici, e ora sono costretti a fuggire da una guerra di cui sono le prime vittime: “Se non c’è assistenza da parte delle ambasciate, o non è possibile applicare lo status di rifugiati di guerra, i tempi si allungano. E senza permesso non possono restare in Tunisia.”

Un ragazzo palestinese lo segue come un’ombra. E’ arrivato a Shousha a marzo con diciassette membri della sua famiglia. Indossa una maglietta del Real Madrid, simbolo stridente di un altro mondo irraggiungibile. Moshem ascolta la sua storia per l’ennesima volta e scuote la testa: “Abbiamo fatto tutto secondo le procedure, ma non abbiamo ancora avuto una risposta. E non possiamo fare niente”.

E’ una frontiera da cui transita un intero continente in fuga: somali, sudanesi, etiopi, ivoriani seduti intorno alle loro vite racchiuse in enormi valigie, in attesa di un pullman che forse arriverà.
Non c’è confusione, nè rabbia. Sembrano tutti rassegnati ad essere pedine di un gioco molto più grande di loro.

Un egiziano impreca: “Dove sono gli Stati Uniti? Dov’è l’Europa? In Yemen e in Somalia scorre il sangue, in Libia il petrolio”. Alcuni cittadini di Ben Guerdane vengono a portare acqua e cibo, mettono a disposizione i loro pick up per trasportare i rifugiati. Altri agitano mazzette di soldi. Il tasso del cambio nero è lo stesso delle banche: un euro vale 1,970 dinari.

Solo un poliziotto mantiene l’arroganza dei tempi del regime di Ben Alì: “Fammi vedere la tessera
da giornalista. La foto non è tua, questo è tuo fratello”.

Tra le tante storie c’è anche quella di Borhan Uddim, uno dei 75mila immigrati dal Bangladesh in Libia. La maggior parte lavora nelle imprese di costruzione cinesi ed europee, per un salario medio di 150 dollari al mese. Borhan è arrivato a Tripoli nel 1997. Ha frequentato il liceo e l’università, ed è un tecnico informatico. Si considera libico, ma come tutti gli immigrati non ha mai ottenuto la cittadinanza, e ora è qui insieme a sette membri della sua famiglia, tra cui quattro donne. Una di loro passa un telefonino: “E’ mio fratello, vive a Roma“. Una voce gentile chiede, in italiano: “Buongiorno. Mi può dire come stanno?”

A Tripoli, dice Borhan, i prezzi dei generi alimentari sono triplicati e non c’è più benzina: “Ci hanno detto che aspetteremo due settimane prima di tornare in Bangladesh. Il nostro governo dovrebbe darci il biglietto aereo e dei soldi (il 26 aprile la Banca Mondiale ha concesso al Bangladesh un prestito di 40 milioni di dollari per aiutare gli oltre 40 mila rimpatriati dalla Libia). Ma appena la guerra sarà finita torneremo a Tripoli.”

A fine giornata, nel grande piazzale di Ras Jdir rimangono solo dieci uomini provenienti dal Niger. Salutano e augurano buona fortuna. Il loro pullman non è ancora arrivato.

Michele Primi-PeaceReporter

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