Le parole sono importanti. E’ il senso, se mai ci può essere un senso nell’annegamento di 150 persone disperate, che dovremmo dare al massacro dell’isola di Kerkennah, al largo della Tunisia. Le parole che i vertici politici occidentali continuano a riversare, vuote e dolorose, sulle rivolte arabe.
Il presidente Usa Obama parla di un nuovo piano Marshall per Egitto e Tunisia, il segretario di Stato Usa Hillary Clinton avvisa il presidente siriano Assad che non sarà tollerato in eterno il pugno di ferro, il segretario della Nato Rasmussen avvisa che la guerra lampo in Libia è prorogata di tre mesi. Tutto, ma proprio tutto, per i civili. Per proteggerli, per sostenere e tutelare la loro legittima richiesta di pace e diritti. Il pane e le rose, insomma. Ma allora, se le parole sono importanti, cosa avevano di meno i 150 morti di Kerkennah? In quale misura le loro legittime ambizioni di pace e diritti, la loro aspirazione a una vita migliore, lontana dal dramma della transizione che indebolisce paesi fragili, non va sostenuta.
In attesa di certezze, perché le vittime potrebbero essere molte di più. Ieri l’agenzia di stampa tunisina Tap aveva riferito che 570 persone erano state tratte in salvo e altre 200-270 risultavano disperse. Arrivato a una ventina di chilometri dall’isola di Kerkennah, il barcone si era trovato in difficoltà a causa di un guasto e del mare mosso. I profughi avevano cercato di raggiungere alcuni piccoli pescherecci e si erano accalcati. La ressa ha fatto rovesciare le imbarcazioni e la guardia costiera tunisina era riuscita a salvare soltanto una parte dei naufraghi. Tuttu questo perché a queste persone non è permesso di muoversi senza richiare la vita. Un’indifferenza omicida, non più solo criminale.
Nessuno può dire di non sapere: l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Acnur) fornisce le cifre di quella che è una vera e propria strage: sono oltre 1.500 in poco più di due mesi le persone partite dai porti libici e mai approdate sull’altra sponda del Mediterraneo. Queste stime si basano su testimonianze di sopravvissuti, parenti delle vittime e chiamate ricevute dalle imbarcazioni impegnate nella traversate. Siamo di fronte – come testimonia il miglior sito in materia, Fortresse Europe – a un’apocalisse. Per capirci: le vittime del 2010 nello stesso periodo del 2011 erano venti.
Le parole sono importanti, come le promesse. Ogni volta che, guardando al mondo arabo, si sostiene a parole la legittima aspirazione libertaria di queste società, bisognerebbe dare un senso a queste parole. Per non farle annegare in un abisso di ipocrisia nei centri di detenzione temporanea, nei non-luoghi dove sono stati parcheggiati i rifugiati dalla Libia stessa e tra i flutti del Mediterraneo.
Christian Elia-PeaceReporter
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