In una scuola alcuni ragazzi hanno messo sotto un coetaneo, lo hanno costretto a diventare un quadrupede, a mangiare sale, a leccare polvere, a strisciare sulle ginocchia, fino a rasentare il nulla, senza più neppure il senso di una dignità presa a gomitate.
In una scuola dove parlare di violenza e di bullismo diviene stranamente difficile, forse perchè discuterne e farne strumento di prevenzione, sviscerarne i rischi e gli interventi più urgenti da apportare, sottende il pericolo di rimanerne additati, invischiati come parte ingombrante di una in cultura. Invece si dovrebbe parlarne di questo disagio relazionale, stili di vita aggressivi, riti e totem, trasgressione e devianza, una violenza che non è più un atteggiamento conflittuale accettabile.
Non sono più sufficienti le pubblicistiche d’accatto, i sermoni svolti da cattedre impolverate, non è più aria di prediche precostituite, di costruzioni piramidali che non hanno un senso compiuto, forse occorre non limitarsi alla lezione spocchiosa, alla punteggiatura bucolica, che caricano oltremisura la creatività e intuizione del valore della gioventù.
Affrontare il disagio relazionale senza interrogarsi sugli effetti che produce, sulle collateralità che favoriscono ulteriori decadimenti, significa parlarne per una sorta di costrizione contingente, quasi a volere rimanere fuori da una diatriba apparentemente innocua.
Come la stessa richiesta di abbandonare la regina delle bugie, la droga, tutte le droghe, perché non esiste una sostanza buona e l’altra cattiva, sono tutte da evitare, oppure sull’uso smodato e malcelatamente autorizzato dell’alcol.
Bulli e droga, stili educativi assenti e comportamenti aggressivi, sempre meno addomesticati, tutto e subito, mentre per la fatica e per l’impegno c’è tempo domani, sempre che domani abbia libero accesso nel cuore degli adulti, obbligandoli a piegare lo sguardo sulla realtà, a guardare i volti e gli occhi dei propri figli, non per generosità salvatempo, ma per coscienza di paternità.
In quelle classi svuotate di regole, in quelle strade denudate di luci di emergenza, in quelle case ridotte a comodi rifugi, non ci sono delinquenti né criminali, ne ho incontrati tanti di giovanissimi in armi, di ragazzotti con le gambe larghe e le mani in tasca, non si tratta ancora di devianza, e come ha detto qualcuno più lungimirante di me “ fanno il male, ma sognano il bene “.
Proprio da questa contraddizione ogni formatore, educatore, genitore, dovrà ripartire con energie sufficienti per ribadire che non esiste giustizia senza amore, infatti amore non è un gesto generico, ma consistenza di umanità da mantenere e custodire.
Giustizia tra i banchi di scuola, alla fermata di un autobus, sulla pista di una discoteca, giustizia che non è una semplicistica destinazione esteriore, ma una dimensione costitutiva affinché indifferenza e distrazione non consentano il degenerare della fragilità delle persone più esposte, più deboli, dei più giovani.
In quella classe, al mondo adulto, potrebbe essere di aiuto ripensare alle responsabilità che ci accomunano, che ci fanno diventare uomini, e per riuscire in questa impresa, forse bisogna condividere quella famosa “ partita mai terminata della fiducia e dell’amicizia, uniche manette e uniche sbarre che possono trattenere i ragazzi”.
Vincenzo Andraous
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