Il 10 luglio aveva compiuto 90 anni, dei quali la più parte passati come deputato e senatore, a partire dalla II legislatura, nominato Sottosegretario di Stato al Ministero delle Poste e Telecomunicazioni con il governo Tambroni, nel 1960, carica che riuscirà a mantenere anche nel successivo Governo Fanfani III. Da allora è stato un susseguirsi di incarichi ministeriali, nei governi Rumor da I a III, Andreotti, Craxi, De Mita, ecc. In Abruzzo lo si chiamava “zio Remo” e si sosteneva che aveva “impiegato alle poste più di metà dei corregionali”. Tra i suoi tanti soprannomi si ricordano anche quelli di “Duca degli Abruzzi”, “San Remo” e “don Rè”, tutti a causa dell’immenso potere accumulato. Certamente, come ha dichiarato di recente il presidente della Provincia di Chieti Enrico Di Giuseppantonio, aprendo, dieci giorni fa, i lavori della tavola rotonda sul tema “L’Abruzzo: dal sottosviluppo alla crescita economica”, con lui l’Abruzzo marciava davvero spedito verso traguardi importanti e ambiziosi, con indicatori economici che raggiungevano livelli record ed una economia finalmente sganciata dalle endemiche difficoltà del Mezzogiorno. Membro della corrente “Alleanza Popolare” (Grande centro “doroteo”) presieduta da Arnaldo Forlani, Antonio Gava e Vincenzo Scotti, nel 1987 Remo Gaspari fu Ministro della Difesa nel Governo Fanfani VI e nello stesso anno venne nominato Ministro senza portafoglio del Coordinamento della Protezione Civile del Governo Goria, in sostituzione di Giuseppe Zamberletti, in seguito alla distribuzione di incarichi bilanciata fra le correnti politiche del nuovo governo, mentre era in corso l’emergenza della Alluvione della Valtellina provocando non poche critiche. L’anno seguente ricoprì la carica di Ministro senza portafoglio degli interventi straordinari nel Mezzogiorno nel Governo De Mita e, infine, concluse la sua carriera ministeriale nei governi Andreotti VI e VII, nei quali tornò a ad essere Ministro della Funzione Pubblica. Uscito di scena a livello nazionale, ha continuato per diversi anni a fare da “consulente” esterno nella caotica politica abruzzese, ma sempre più spaesato, davanti a dinamiche e personaggi che stentava a comprendere e con i quali non aveva più niente a che fare. Ritiratosi dalla politica attiva, non ha mai smesso di far sentire, a più riprese, la sua voce. Proprio il giorno del suo novantesimo compleanno, aveva detto: “Ho nel cuore la speranza di veder risorgere l’Abruzzo, prima che io me ne parta da questo mondo. Oggi diminuisce il lavoro e si torna ad emigrare, come ai miei tempi: una piaga che ho sempre combattuto tant’è che il mio vanto è quello di aver portato il lavoro in Abruzzo, ma vedo che giorno per giorno va finendo. Quando finirà questa frana che rischia di non finire più?”. Ad ascoltarlo, in quella occasione, c’erano tanti ex democristiani, uomini della politica di ieri, ma anche di oggi, uomini a cui “zio Remo” ha ricordato ancora una volta come la politica sia al servizio dei cittadini e non di sé stessa. Lo “Zio Remo”, come lo chiamavano anche dagli avversari politici, ha sempre rivendicato a sè e alla Dc il merito di aver portato l’Abruzzo fuori dall’arretratezza del Sud, collegandolo a Roma con le autostrade e assicurando alla regione l’arrivo delle industrie e di una messe continua di finanziamenti, anche se non sempre spesi bene. Le polemiche, del resto, nella sua lunghissima carriera non sono mancate: da quando gli si contestavano le infornate di postini abruzzesi alle critiche sulla gestione dell’emergenza per l’alluvione in Valtellina da ministro della protezione civile, fino a quella sull’utilizzo privato dell’elicottero dei vigili del fuoco per andare a vedere la Roma che giocava a Pescara. Tutte cose, scrive oggi su La Repubblica Salvatore Mannironi, che Remo Gaspari affrontava scrollando le spalle, certo di essere sempre dalla parte del giusto. Tangentopoli e Mani pulite, alla fine, furono decisive anche per lui. Non perché fosse stato sfiorato da sospetti o inchieste, ma perché corruzione ed arresti travolsero in Abruzzo la nuova generazione dei giovani amministratori democristiani che lui aveva selezionato ed allevato, come una chioccia, certo di perpetuare in tal modo la sua idea di governo e con lei, forse, se stesso. Era forse l’ultimo vero simbolo di quella I Repubblica mitizzata o smitizzata, che degenerò e prima di Tangentopili e non per caso, nel mattatoio delle Brigate rosse, di Prima linea, delle organizzazioni nere e rosse variamente intrecciate e, forse, eterodirette. Una prima Repubblica, come scrive (e per una volta sono d’accordo), Paolo Guzzanti su Il Giornale, spazzata via dall’arrivo del “nuovo”: una borghesia confusa, disorganizzata e agonizzante, che cercava di non soffocare di nuovo sotto il peso di una maledizione ideologica da cui cercava di liberarsi. In fondo fu quella la ragione storica, profonda, dell’appeal che esercitò il berlusconismo dei primi anni Novanta, quando si profilava la vittoria della gioiosa macchina da guerra di Achille – Akela – Occhetto e l’insipienza ormai palese della sfasciata Democrazia Cristiana. Una situazione che di colpo spazzò via, con una serie di processi sommari, un sistema che comunque aveva fatto rinascere l’Italia dalle macerie e l’aveva proiettata nel miracolo economico, mentre Vittorio De Sica girava il neorealista Miracolo a Milano (con Paolo Stoppa e Emma Gramatica). Una situazione per cui, con molti limiti, avere nostalgia, purgata, naturalmente, dalla tara truccata e pelosa degli inciuci e degli imbrogli che, poi, la fecero precipitare.
Carlo Di Stanislao
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