Credo che non sia inutile comprendere a fondo il patto di stabilità, croce e delizia degli europei, specie dei paesi Piigs (dalle iniziali di Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia Spagna ), a tal fine facciamo un breve cenno sulle sue origini. Sul sito di Astrid* troviamo che “il rapporto presentato nel 1989 dal Comitato Delors, (composto dai governatori delle banche centrali nazionali e dallo stesso Jacques Delors, Presidente della Commissione europea) prevedeva tre fasi per raggiungere l’unione economica e monetaria. La prima fase con gli obiettivi di completare il mercato interno, assicurare l’ indipendenza delle banche centrali e sospendere il finanziamento monetario dei disavanzi pubblici culminò con la stipula del trattato di Maastricht (1992). La seconda fase, quella della “convergenza economica”, consentì di realizzare quelle condizioni macroeconomiche (deficit non superiore al 3% del PIL, debito pubblico non superiore al 60% del PIL) ed istituzionali necessarie per l’ avvento della moneta unica. La terza fase iniziò, appunto, con l’introduzione dell’Euro, prevista per il 1° gennaio 1999, ma poi effettivamente realizzata dal 1° gennaio 2002. In prossimità del decollo di questa ultima fase, nel giugno del 1997, con risoluzione del Consiglio europeo di Amsterdam fu adottato il patto di stabilità e crescita volto a garantire l’equilibrio delle finanze pubbliche attraverso l’obiettivo del saldo di bilancio prossimo al pareggio o positivo. Le motivazioni alla base della risoluzione vanno ricercate nella volontà di proteggere la moneta unica da situazioni di instabilità economica che caratterizzavano alcuni stati membri che si apprestavano ad entrare nell’area euro* Il patto di stabilità ha avuto, fra l’altro, l’effetto (forse che negativo ? ) di avviare la riduzione dell’ingente debito pubblico accumulato dall’Italia e introdurre misure atte a tenerlo sotto controllo.
Si imputa al patto di stabilità la mancata crescita dimenticando il fatto che il patto di stabilità contiene solo misure meccanicistiche di contenimento del deficit degli stati nazionali, e che per proporre e portare avanti politiche di sviluppo e lotta alla disoccupazione ci vuole un governo, che a livello europeo ancora non c’è.
Ci sono al momento quindi 2 opzioni: o le politiche vengono fatte a livello nazionale, dai governi dei singoli stati, trovando risorse con appropriate misure fiscali e di lotta all’evasione, e i Piigs momento è difficile che le facciano, oppure si chiede che vengano portate avanti dall’Europa, ma non dalla BCE e nemmeno dal Fondo Salva Stati (EFSF), bensì’ da un Governo Europeo democraticamente eletto, responsabile davanti al Parlamento Europeo. Un governo federale europeo.
Qualcuno ha accusato la Germania di voler aumentare la propria competitività a scapito degli altri paesi UE, in particolare portando avanti una politica al ribasso dei salari in Germania. Per sfatare queste voci trasmettiamo i seguenti dati Eurostat. In Italia, secondo l’Eurostat**, un addetto nell’industria dell’auto viene pagato in media 49.500 euro lordi all’anno. In Germania, 62.900 euro. Nella Repubblica Ceca 16.200 euro e in Romania 7mila euro. Secondo l’Ocse, rispetto all’Italia gli stipendi in Ungheria sono più bassi del 70% e in Corea del 30 per cento. Per cui il fenomeno della delocalizzazione delle aziende tende perciò a interessare non tanto la Germania, come qualcuno va dicendo, ma maggiormente i paesi di recente ingresso nell’Unione Europea, e cioè i paesi ex comunisti, perchè più poveri e aventi manodopera poco sindacalizzata.
Cristina Ronzitti(Peacelink)
Lascia un commento