Supplici di ieri e di oggi

E’ approdato ieri a Lampedusa, dopo la tragedia dei 25 disperati morti nel barcone eritreo fra domenica e lunedì, sofficati dai gas dei motori e, forse, uccisi dalle bastonate di chi voleva rintuzzarne il tentativo di uscire all’aperto e contemporaneamente all’avvistamento di un’altra “carretta”stracolma di disperati lo spettacolo teatrale “Supplici a Portopalo” , di Monica […]

E’ approdato ieri a Lampedusa, dopo la tragedia dei 25 disperati morti nel barcone eritreo fra domenica e lunedì, sofficati dai gas dei motori e, forse, uccisi dalle bastonate di chi voleva rintuzzarne il tentativo di uscire all’aperto e contemporaneamente all’avvistamento di un’altra “carretta”stracolma di disperati lo spettacolo teatrale “Supplici a Portopalo” , di Monica Centanni, Gabriele Vacis e Vincenzo Pirrotta, basato sulle” Supplici di Eschilo”,  ove si racconta di un gruppo di profughi  che chiedono asilo. Il testo, costruito intessendo il filo principale della trama delle “Supplici” con altri frammenti di tragedie eschilee e con racconti tratti dalle testimonianze dei migranti di oggi,  è di quelli che non si dimenticano e si intarsiano con una realtà tragica ed agghiacciante. La tragedia esclidea, probabilmente rappresentata nel 463 a.C.,  faceva parte di una trilogia a comprendente anche Gli egizi e Le Danaidi, più il dramma satiresco Amimone, ma le altre opere del ciclo sono andate perdute. Essa prende avvio dalle Danaidi, che appena sbarcate in terra greca, vengono esortate da Danao a raggiungere il recinto sacro, dove i supplici hanno per antica consuetudine un diritto di asilo inviolabile. Esse raccontano la loro storia a Pelasgo, re di Argo, ma quest’ultimo è restio ad aiutarle, per il timore di una guerra contro l’Egitto. Infine il re promette di portare la questione di fronte all’assemblea cittadina; dal canto loro, le Danaidi affermano che, se non verranno accolte, si impiccheranno nel recinto sacro. Come in tutte le tragedie più antiche, anche qui è il coro delle Danaidi ad essere maggiormente in evidenza, mentre gli altri personaggi non sono che comprimari, cui manca l’energia e la decisione che invece caratterizza le ragazze. Ancora oggi gli esperti si chiedono come mai le Danaidi rifiutano con tanta ostinazione il matrimonio ed una possibile spiegazione sarebbe offerta dalla continuazione della storia, che veniva narrata nelle tragedie perdute. Gli egizi grazie alla guerra riuscivano a ottenere il matrimonio con le ragazze, ma queste ultime, durante la prima notte di nozze, ammazzavano tutti i loro mariti. Quelle che all’inizio del dramma erano creature spaventate e perseguitate, si trasformavano in spietate carnefici. Le Danaidi insomma nelle tragedie successive venivano probabilmente sempre più descritte come donne che, semplicemente, rifiutavano a priori di sottostare alle consuetudini tipiche del loro tempo: il matrimonio, l’amore e i figli. Segno evidente che nulla è cambiato dopo 25 secoli e che ancora si guarda con sospetto ai migranti che supplicano per avere un riparo. “Supplici” e anche il titolo di una tragedia del 423-421 a.C. di Euripide, in cui però si narra di un gruppo di donne di Argo, che si riunisce presso l’altare di Demetra ad Eleusi sono le madri dei guerrieri argivi morti nel fallito assalto a Tebe (quello raccontato da Eschilo nei Sette contro Tebe), per supplicare gli ateniesi di aiutarle a dare degna sepoltura ai figli. I tebani, infatti, negano la restituzione dei cadaveri. Il re Teseo decide di aiutarle, sicché si rivolge all’araldo tebano, ingaggiando con lui un intenso dialogo nel quale il re difende i valori di democrazia, libertà, uguaglianza di Atene, contrapposti alla tirannide di Tebe, metafora sulla necessità di autentica democrazia, fatta di benevolenza ed altruismo, per indicare la crescita della civiltà ed assieme della umanità più vera ed autentica. Leggendo dello spettacolo di Lampedusa, reso più tragico ed emozionante dalla cornice e dal luogo, mi è venuto in mente la storia emblematica di “Zorba il Greco”, romanzo e  film immortali su un eroe forgiato nello stesso metallo degli Achab, dei Gulliver, dei Cyrano, dei Jean Valjan, di un uomo che si apre al diverso, al’imprevisto e alla vita e fa di tutti gli altri, tremanti di fronte ad eventi inattesi come l’arrivo di migranti da terre straniere, odiosi ectoplasmi che, come nell’Odissea Ulisse,  si aggirano attorno all’umanità  con ciotole di sangue sacrificale di cui sono golosi. Da poco è uscita una nuova edizione del romanzo di Kazantzakis, curata da Nicola Crocetti,  contenente un “prologo” escluso dalla versione inglese del 1952 e da quella italiana di Olga Ceretti Borsini, l’unica finora disponibile, nella nostra lingua. In quel prologo l’Autore ci dice che Zorba può essere per ciascuno di noi, l’autentica barca di salvataggio, capace di spendersi e di mettersi in gioco, di accogliere gli altri e capace di ballare il ballo selvatico dei valorosi, che va danzato scalzi, sulla spiaggia deserta, per sentire le pulsazioni della terra. Allora cessa il travisamento della ragione, quella che induce diffidenza e respingimenti.  Zorba parla con il corpo, e il suo volo mitologico ricuce suolo e cielo. Sarà questo personaggio, soprattutto l’Anthony Quinn cinematografico del film di Michael Cacoyannis, un uomo “più grande della vita”, al centro del prossimo spettacolo teatrale (previsto per questo inverno) di Moni Ovadia, che anche ieri, dal palco di Piazza Maggiore a Bologna, rievocando la strage del 2 agosto, con letture di Ungaretti e Pasolini, ha aperto il suo spettacolo con l’Inno di Mameli, per ricordarci che oggi, dopo essere stati dei “supplici” in passato, dovremmo accogliere senza diffidenza chi è costretto a supplicare.

Carlo Di Stanislao

 

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