Anche se se ne parla poco, l’Iraq vive ancora una stagione di conflitti e di stragi e, dopo otto anni di dominio americano, appare tutt’altro che avviato verso la normalizzazione. In quello che è stato definito il “giorno di sangue più grave di sempre”, ieri, mentre il mondo occidentale si godeva il ponte dell’Assunta, una serie di attentati in 17 città dell’Iraq ha causato 66 morti ed un numero imprecisato di feriti. L’attentato più grave è avvenuto a Kut, a circa 160 km a sud-est della capitale, Baghdad, dove due ordigni hanno causato la morte di 40 persone e il ferimento di almeno 70. Il portavoce della Casa Bianca ha dichiarato che alla luce di una così tragica giornata, gli Stati Uniti sono pronti a prendere in esame ogni richiesta da parte delle autorità irachene di prolungare la presenza delle truppe americane nel Paese oltre il 2011 e cioè oltre il termine del ritiro già in programma da tempo. Un annuncio che certamente serve ad un presidente immerso nelle critiche, che oggi inizia, anche se non ufficialmente, la sua campagna elettorale, partendo per Saint Paul, capitale del Minnesota, per cominciare un giro in autobus che lo porterà anche in Iowa e Illinois, prima di ripartire per Washington e di là per le vacanze,. Nell’agenda ci sono visite a fabbriche e incontri pubblici per parlare di cosa intende fare la Casa Bianca per la ripresa economica. Che l’offensiva sia pensata per la campagna elettorale del 2012 lo prova anche l’intervista a Wolf Blitzer della Cnn che andrà in onda domani sera, alle 18 ora della costa est americana, dallo Iowa. Tra i temi che saranno discussi, anticipa Cnn, proprio l’economia, compreso il recente taglio del rating del debito Usa da parte di Standard & Poor’s. Mentre il presidente democratico ha i suoi problemi e rimane travolto dai guai dell’economia americana che non tende a prendere una piega promettente)specialmente nel settore cruciale della disoccupazione, e dalla politica estera con teatri di guerra attivi (Afganistan e Libia) e paesi tutt’altro che democratizzati (Iraq si cominciano a registrare nel campo opposto episodi come il ritiro di Tim Pawlenty che fanno ipotizzare, a chi osserva dall’esterno, l’esistenza di una sorta di Darwinismo politico secondo il quale la selezione naturale, alla fine, dovrebbe avvantaggiare o il più adatto, e ciò sarebbe la cosa certamente più auspicabile, o il più forte. Intanto, Mitt Romney, il favorito nella corsa alla nomination repubblicana per le presidenziali 2012, sta facendo il suo bagno di folla nella grande sagra dell’ America delle praterie, nel cuore del MidWest. Ieri ha a pronunciato un breve discorso, in piedi sopra alcune balle di fieno. Interrotto più volte da un gruppo di contestatori di “Iowa Citizens for Community Improvement”, una formazione della sinistra radicale che lo accusa di diffondere bugie sul bilancio e di voler far pagare la crisi ai poveri anziché alle grandi corporation. Ma Romney schiva bene la trappola, dichiara che i soldi delle corporation, in un modo o in un altro, tornano alla gente, sicchè l’ovazione che accoglie le sue parole soffoca i contestatori. Oltre che Mitt Romney, 64 anni, mormone, 5 figli, ex governatore del Massachusetts, battuto da John McCain nel 2008, forte del suo passato nell’ imprenditoria; altro possibile avversario per un Obama in forte declino di consensi, nalle elezioni presidenziali del novembre del 2012, è Michele Bachmann, 55 anni, paladina dei Tea Party, avvocato, madre di 5 figli naturali e 23 adottivi, ringhiosa paladina dei principi di coloro che affermano di avere “una schiena al titanio”, alla sua prima legislatura, vista in patria vista come un peso leggero della politica per via della limitata esperienza, ma con grande influenza sulla base più oltranzista e intransigente della destra americana, tanto da averle fruttato il 28,6% dei consensi nello straw poll di sabato, tanto da farla dichiarare vincitrice e rilanciare poi la sua immagine in una bordata di interviste nei programmi televisivi di domenica scorsa. La Bachmann si trova adesso ad affrontare la parte più difficile del percorso, che secondo molti osservatori le sarà impossibile: spostarsi verso il centro a caccia del voto degli elettori più moderati, e divenire così un candidato credibile agli occhi del comitato nazionale del suo partito per l’investitura delle primarie. Un’impresa ardua per chi come lei professa un’avversione irriducibile contro i gay, e la cui agenda è segnata in modo così pesante dall’appartenenza alla chiesa luterana. A ben vedere quindi lo straw poll di Ames nasconde un secondo paradosso, secondo il quale i veri trionfatori sono i due candidati che si sono meno esposti e hanno raccolto meno voti. Mitt Romney, che è il beniamino del partito e che è in testa nei sondaggi nazionali, non poteva entrare in lizza ad Ames rischiando di finire alle spalle della Bachmann. Ha scelto di non spendere un dollaro per la consultazione, e ha incassato solo 567 voti (settimo posto), ma almeno può dire che i veri confronti sono ancora lontani. C’è poi ’astro nascente Rick Perry, che tecnicamente non era in lizza in quanto impegnato la stessa giornata di sabato ad annunciare la sua discesa in campo con un’adunata oceanica in uno stadio della Carolina del Sud. Il suo nome non era in lista ad Ames e i 718 cittadini che lo hanno votato l’hanno aggiunto a penna sulla scheda, per mostrare il loro entusiasmo. Perry è entrato in lizza strizzando l’occhio agli evangelisti del Sud ma anche al Tea Party: “Se eletto, lotterò perché Washington perda sempre più potere sulla vostra vita”, ha promesso alla sua platea. Il suo ingresso è un ulteriore ostacolo per un retromarcia della Bachmann verso il centro, e una sfida aperta al centrismo di Romney. Ma, lasciando i repubblicani ai loro problemi di scelta e Obama al suo viaggio tutto il salita, torniamo ai fatti internazionali di questa “feria d’agosto”. Partendo dalla inattesa dichiarazione di stop alla Sira, con il ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu che ha dichiarato che le operazioni militari del regime siriano contro i civili devono finire immediatamente e incondizionatamente, rivolgendo un monito al presidente siriano Bashar el Assad: ”Queste – ha detto – sono le ultime parole che rivolgiamo alle autorita’ siriane”. Ma la cosa più importante è quanto ha dichiarato il presidente Erdogan, che ha affermato che, finito il Ramadan, si riaffronterà il problema Curdo e non si esclude di usare “il pugno di ferro”. Per molti analisti la “vittoria” del premier Erdogan è un ulteriore passo della Turchia verso la democrazia piena; salvo derive autoritarie e il pericolo di una maggiore islamizzazione della società da parte dell’AKP. RecepTayyipErdogan. Il cinquantasettenne ex sindaco di Istanbul, dal 2003 premier della Repubblica di Turchia, è emerso negli ultimi anni come una brillante stella politica da diverse generazioni a questa parte. Figura di rilievo della politica turca fin dagli anni Settanta, durante il suo cursur honorum ha confermato il suo temperamento e carisma in numerose occasioni. Il 29 Luglio 2011 è stato per la Turchia un giorno memorabile per tutta la nazione. La dimissione in blocco del Capo di Stato maggiore delle forze armate e quelli di Esercito, Aereonautica e Marina a seguito dell’arresto di più di 250 militari accusati di cospirare contro il governo, sono riusciti a scioccare un intero paese che da decenni ha considerato l’esercito come unico e inamovibile punto di riferimento dello Stato. Ma, dal 14 luglio, la questione curda – nella sua dimensione militare – è violentemente tornata al centro del dibattito politico turco e della scena mediatica, dopo uno scontro a fuoco tra l’esercito e i guerriglieri del Pkk, che ha fatto 13 morti tra i soldati e 5 (o 2, secondo altre fonti) tra gli assalitori. Da quel momento il paese, in cerca di stabilità e sicurezza, è stato travolto da un’ondata di eccitata commozione: a farne le spese, la cantante turca di origini curde Aynur Doğan che è stata sonoramente fischiata, al festival jazz di Istanbul, per aver cantato nella sua lingua: al punto da dover interrompere il concerto sotto il lancio di cuscini e bottigliette di plastica. Mentre nel quartiere periferico di Zeytinburnu, sempre nella capitale imperiale, ultranazionalisti appartenenti ai lupi grigi e appoggiati da immigrati afgani, albanesi e tatari si sono affrontati per alcune notti di seguito – prima della retata conclusiva della polizia – con gruppi di curdi apparentemente vicini, o accusati comunque di esserlo, al Pkk. Anche se gli esperti credono che Erdoğan continui a considerare l’opzione politica come l’unica realmente risolutiva, anche a costo di scendere a patti con Öcalan, egli sa che prima vanno normalizzati i rapporti col Bdp, il partito curdo, che dovrebbe porre termine al suo “boicottaggio del giuramento”, per la mancata scarcerazione di alcuni neodeputati, alla ripresa delle attività parlamentari il 1° ottobre. E forse per questo, dalla tranqulllità del Ramadan, fa presagire misure forti. Trovare un punto d’incontro sarà difficile, ma per la Turchia, se vuole diventare compiutamente democratica e credibile, è indispensabile. Come indispensabile è per il governo “ribelle” a Gheddafi, manifestare ora le sue intenzioni una volta vinta la guerra in quel territorio, poiché sono in molti, nella comunità internazionale, che, una volta conquistata la nazione, si lasceranno andare ad azioni di rappresaglia. I ribelli libici hanno comunicato di aver conquistato una città strategica vicino Tripoli nelle ultime 24 ore, completando l’accerchiamento della capitale con l’avanzata più decisa da quando sono scoppiate le rivolte contro Muammar Gheddafi, sei mesi fa. Intanto continuano senza sosta i combattimenti nel Paese: nell’ovest della Libia, le forze di Gheddafi hanno bombardato il centro di Zawiyah alcune ore dopo che i ribelli avevano proclamato una vittoria significativa nel porto strategico. Le forze di Gheddafi hanno sparato sei missili Grad a Zawiyah, innescando un pesante scontro a fuoco che ha causato diverse vittime. Come scrive Repubblica on-line, nonostante l’avanzata degli insorti, sostenuti dai bombardamenti della Nato, il regime non sembra intenzionato ad arrendersi e dopo il discorso di ieri del colonnello – con minacce ai “topi ribelli” e “ai colonizzatori”, le forze lealiste hanno per la prima volta sparato un missile Scud contro le postazioni nemiche, partito da una postazione a 80 chilometri da Sirte e diretto contro il terminal petrolifero di Brega, ma caduto in pieno deserto senza fare feriti. Continuano intanto i faticosi negoziati con secondo alcune fonti, i ribelli e i rappresentanti del regime di Gheddafi che si sono incontrati a Djerba per cercare un accordo; accordo che però continua a essere bloccato perché la precondizione per i ribelli è l’addio di Gheddafi e dei suoi figli, condizioni queste definite, ancora una volta, inaccettabili da Tripoli. Quanto al’Egitto, che sembra sull’orlo di una carestia e di una crisi anche politica, si è appreso che, quando il 19 prossimo si riaprirà al Cairo il processo a Hosni Mubarak, nella scuola di polizia che portava il suo nome, sia che l’ex presidente riappaia o no in barella in tribunale, tutto avverrà senza documentazione televisiva. Mubarak certamente gode di pochi simpatizzanti tra la gente comune e un buon numero di egiziani lo vedrebbe con piacere salire sul patibolo. Allo stesso tempo da qualche giorno si nota un atteggiamento più comprensivo nei confronti dell’ex presidente da parte di alcuni mezzi d’informazione e di certi ambienti della politica vicini anche se non compromessi con il passato regime. Si dice che a favorirlo siano i generali del Consiglio supremo delle Forze Armate (Csfa) – che dallo scorso febbraio gestiscono la difficile transizione dell’Egitto verso la democrazia – i quali dopo aver mantenuto la promessa di far processare Mubarak, adesso preferirebbero evitare la sua condanna al massimo della pena. E sembra che la luna di miele fra militari e Alleanza dei Fratelli Mussulmani sia già finita e questi ultimi si oppongono ad una riscrittura della costituzione su principi militari. A gennaio erano stati colti di sorpresa dalla rivoluzione. Oggi il loro partito, Libertà e giustizia, è uno dei più accreditati a raggiungere la maggioranza relativa in Egitto. Per i Fratelli musulmani è il momento della strategia politica. Per il resto dei movimenti giovanili, liberali e democratici, che la rivoluzione di piazza Tahrir l’hanno accesa, sembra invece aprirsi una fase delicata.
Erano stati loro a tornare in piazza, lo scorso 8 luglio, per protestare contro la debolezza dell’esecutivo di Essam Sharaf e per chiedere una nuova Costituente. Questa volta, però, l’unione trasversale di tutte le componenti politiche, religiose e culturali, si è incrinata. E l’assenza dei Fratelli musulmani è subito parsa un segnale politico importante. Poi, lo scorso 29 luglio, rieccoli affacciarsi in piazza per il “venerdì dell’unione”. Appena due giorni prima che l’esercito la sgomberasse violentemente, per l’inizio del Ramadan.
Il tutto mentre sul banco degli imputati, all’accademia di polizia del Cairo, sfila la corte dei miracoli del vecchio regime, con in testa Hosny Mubarak. E ora i Fratelli Mussulmani puntano il dito contro i militari, a gennaio salutati come i paladini della rivoluzione e che oggi vengono visti con malcelata indifferenza, quando non con irritazione. I generali dell’esercito e soprattutto quelli del Consiglio supremo delle Forze armate hanno ormai raggiunto il minimo storico dell’appeal sull’opinione pubblica liberal-democratica.
A metà luglio il generale Mosher al Fangary, portavoce dello Scaf, aveva pronunciato un discorso alla televisione nazionale, che era suonato come una sorta di minaccia per il popolo di piazza Tahrir: “Non lasceremo che il caos e la delinquenza comune si impossessino del paese”, aveva tuonato il generale. Infine La Palestina, che il 20 settembre chiederà di entrare nell’ONU come Paese indipendente e con Abu Mazen che ha incontrato il console generale americano a Gerusalemme per chiedere agli Usa di non bloccare la manovra sin dal primo momento e soprattutto si è già garantito il sostegno di molti paesi dell’Unione europea. Come i palestinesi, molti governi europei condannano il governo Netanyahu per la lunga pausa di “riflessione” se non il tentativo di insabbiamento dei negoziati che il governo di Gerusalemme si è preso negli ultimi mesi. I palestinesi hanno deciso la data del 20 settembre, durante la sessione dell’Assemblea Generale Onu, perché in quel periodo il Libano avrà la presidenza di turno del Consiglio di sicurezza e potrà offrire all’Anp tutti gli strumenti di manovra diplomatica che sono disponibili da quella postazione. Già prima dell’estate molti, per esempio alla Farnesina, avevano capito che questa volta sarà molto, molto difficile tenere unita la Ue. Le primavere arabe, la crisi del governo Netanyahu, le tensioni nel rapporto Usa-Israele, la stessa crisi di leadership americana sono tutti fattori che contribuisco a creare uno scenario nuovo, incerto, meno prevedibile. Sarà interessante capire nei prossimi giorni come si divideranno gli europei e a quale carro sceglierà di agganciarsi la diplomazia italiana. Domande a cui è difficile rispondere, soprattutto solo il solo instupidente di agosto.
Carlo Di Stanislao
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