Un mare di petrolio

Ancora una “macchia nera”, stavolta nel Mar del Nord, un anno e mezzo dopo alla catastrofe del Golfo del Messico, ultimo di una serie di eventi che hanno sconvolto l’ecosistema marino. Secondo Glen Cayley, direttore tecnico del settore esplorazione della Shell, proprietaria della piattaforma di trivellazione Gannet Alopha, che si trova a 180 chilometri da […]

Ancora una “macchia nera”, stavolta nel Mar del Nord, un anno e mezzo dopo alla catastrofe del Golfo del Messico, ultimo di una serie di eventi che hanno sconvolto l’ecosistema marino. Secondo Glen Cayley, direttore tecnico del settore esplorazione della Shell, proprietaria della piattaforma di trivellazione Gannet Alopha, che si trova a 180 chilometri da Aberdeen, sulla costa orientale della Scozia,  si tratta di una “fuoriuscita significativa”, pari a circa 215 tonnellate di petrolio, l’equivalente di 1.300 barili, con un tasso di dispersione che di circa 5 barili al giorno. L’incidente, occorso mercoledì scorso,  è considerato il peggiore di questo tipo nel mare del Nord dal 2000. Ieri il gruppo aveva detto che la fuoriuscita era “sotto controllo”, ma dalla piattaforma continua a uscire petrolio, anche perché, secondo la Bbc, questa mattina nella piattaforma sarebbe stata individuata una seconda falla, che ancora non è stata localizzata con precisione. In Scozia ci sono state molte critiche all’operato della Shell e non solo da parte di gruppi ambientalisti. Infatti il gigante petrolifero anglo-olandese ha aspettato ben due giorni prima di avvertire le autorità dell’incidente. Ma la compagnia respinge le accuse affermando che la perdita si trovava in una zona difficile da identificare e solo dopo che se n’è avuta la conferma è stata comunicata la notizia e da venerdì sono stati emessi bollettini giornalieri sull’andamento delle operazioni. Per la Shell, poi, la macchia “sarà naturalmente cancellata dall’effetto delle onde e non raggiungerà le coste”. Lo scorso 9 agosto si era avuta notizia di  un denso strato di olio combustibile e che da tre giorni fuoriusciva indisturbato dalla nave Mv Rak, inabissatasi al largo di Mumbai con a bordo 60mila tonnellate di carbone e 340 tonnellate di carburanti e lubrificanti. Le autorità indiane avevano minimizzato la portata dell’incidente, parlando di una perdita di ridotte proporzioni; un giudizio non condiviso dalle associazioni verdi, preoccupate non solo per la chiazza che si è rapidamente allargata sulla superficie delle acque, ma anche per i danni che il carbone contenuto nella stiva del cargo, sarebbe capace di al fondale marino. Quattro giorni prima, il 5 agosto, dopo oltre due mesi dall’incidente, nuove macchie di petrolio e chiazze di fanghi per trivellazione sono state scoperte sulla superficie del mare nella Baia di Bohai, in Cina. A rivelarlo è stata la ConocoPhillips China, azienda statunitense responsabile insieme alla China National Offshore Oil Corporation (Cnooc) del giacimento di Penglai 19-3, da cui ha avuto origine lo sversamento di greggio che ha colpito la zona a giugno scorso. Nel darne l’azienda Usa ha sottolineato che le perdite individuate potrebbero rallentare ulteriormente le operazioni di pulizia e messa in sicurezza dell’area, già oggetto di pesanti critiche da parte delle autorità nazionali e dei gruppi ambientalisti a causa delle tempistiche eccessivamente lunghe e della scarsità di mezzi e personale impiegati. Intanto va avanti l’azione legale intrapresa da undici tra organizzazioni non governative e gruppi ambientalisti cinesi contro la Conoco Phillips China per ottenere il risarcimento dei danni causati all’ecosistema locale. Le sanzioni stabilite dall’Amministrazione per gli oceani in caso di fughe di petrolio variano a seconda dell’estensione delle perdite. I funzionari provinciali dello Shandong, al largo delle cui coste si estende la macchia nera, hanno già promesso risarcimenti milionari: si è parlato di 20 milioni di euro ogni 10 chilometri quadrati. Tuttavia non sono pochi gli esperti di diritto cinesi che hanno sottolineato come la mancanza di una giurisprudenza adeguata sull’argomento rappresenti un serio ostacolo alla soluzione del problema. Secondo quanto ricostruito da greenMe.it, la serie dei peggiori disastri petroliferi in mare degli ultimi anni, si apre Il 3 giugno 1979, con  la piattaforma petrolifera messicana Ixtoc I, impegnata in alcune operazioni di esplorazione nel Golfo del Messico, a 600 miglia dalla costa del Texas, che per un errore nelle manovre, prende fuoco e comincia a disperdere petrolio in mare: la perdita, che va avanti per ben 9 mesi, fino al 23 marzo del 1980, sversa nell’Oceano tra le 454.000 e le 480.000 tonnellate di greggio. Lo stesso anno, il 19 luglio, nel corso di una tempesta tropicale, la nave cisterna greca Atlantic Empress si scontra con la Aegean Captain al largo di Trinidad e Tobago. Entrambe le imbarcazioni riportano danni gravissimi, rilasciando in mare ben 287.000 tonnellate di petrolio. In tempi più recenti, Il 21 gennaio del 1991, nel corso della prima Guerra del Golfo, si verifica una gravissima fuoriuscita di petrolio nel Golfo Persico: ben presto si scoprirà che l’esercito iracheno aveva aperto deliberatamente le valvole delle condutture di petrolio in Kuwait, allo scopo di impedire o, quantomeno, di ostacolare lo sbarco dei soldati americani. La marea nera colpì le coste di Kuwait, Arabia Saudita e Iran, causando danni pesantissimi agli ecosistemi di quelle regioni. Stando alle stime di analisti e ricercatori, la quantità di petrolio disperso nell’ambiente in quella occasione si aggirerebbe attorno al 1.500.000 tonnellate. Alla fuoriuscita di greggio si accompagnò anche un secondo disastro ecologico: l’incendio di 732 pozzi petroliferi, sempre ad opera dell’esercito iracheno, per far sì che il fumo rendesse più difficili le operazioni aeree delle forze militari della Coalizione. L’ultimo disastro del secolo è toccato alla Turchia. Il 29 dicembre 1999 nello stretto di Marmora si spezzò in due la petroliera russa “Volgoneft 248”, con  4.365 le tonnellate di grezzo che si riversano sulla costa Turca e sul porto di Costantinopoli. Pochi giorni prima, il 12 dicembre era toccato invece alla Francia: al largo delle coste bretoni si era spezzata in due la petroliera “Erika” e 10.000 tonnellate di grezzo si riversano in mare e sulla costa atlantica, in una delle aree naturali protette, tra le più belle ed importanti di Francia, con 20.000 uccelli morti e ritenuta a rischio gran parte della flora litoranea e, in particolare, la “euphoria peplis” già scomparsa in tutta la rimanente costa atlantica. Per la Francia il disastro ecologico fu il sesto dal 1967. Infine, nell’aprile 2010, l’affondamento della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon nel Golfo del Messico, il peggior disastro ambientale del mondo, con la British Petrolium che oltre tutto, come denunciato da Greenpaece, cercò anche di depistare le indagini, avviate per capirne le precise responsabilità. A questo si aggiungano, come segnalato da www.comitatonaturaverde.it., le perdite di petrolio dalle petroliere,  che sono purtroppo frequenti, anche se di solito i si occupa poco di loro. Tutte le perdite, anche se minime, creano danni, siano esse involontarie o volute come quando un capitano ordina di pulire e di scaricare in mare le vasche di raccolta del petrolio. Si stima che le perdite intenzionali e illegali di questo tipo negli oceani ammontino a circa 3 milioni di tonnellate all’anno. Il petrolio e gli altri combustibili riversati in mare, formano sulla superficie dell’acqua pellicole oleose che, impedendo l’assorbimento dell’ossigeno atmosferico, provocano morie di organismi marini. Nel petrolio, inoltre, sono presenti anche sostanze che possono costituire un grave pericolo per la salute dell’uomo, al quale giungono attraverso la catena alimentare marina. La fonte dell’inquinamento è data dai riversamenti di gran quantità di greggio dalle petroliere coinvolte in incidenti, dal rilascio di piccole quantità di derivati dal petrolio da navi di vario tipo e dalle perdite di petrolio che si verificano nel corso delle operazioni di trivellazione, presso le piattaforme petrolifere marine. Gli incidenti che si verificano alle petroliere, a causa di collisioni, incendi a bordo, usura delle strutture e altro, contribuiscono all’inquinamento petrolifero annuo con una percentuale di solo il 12% e tuttavia provocano i danni maggiori. Al 12% dovuto agli incidenti nel trasporto marittimo, si aggiunge il 33% per operazioni sulle navi relative a carico e scarico, bunkeraggio, lavaggio, scarichi di acque di sentina o perdite sistematiche, che porta al 45% l’apporto complessivo di inquinamento dovuto a perdita dalle navi. Un consistente apporto di inquinamento da petrolio, stimato al 37%, quello che proviene da scarichi urbani e industriali, sistematici o accidentali, e perdite da raffinerie, oleodotti, depositi. Inoltre le ricadute atmosferiche di idrocarburi evaporati o parzialmente incombusti danno un apporto del 9%, sorgenti sottomarine rilasciano per trasudamento naturale un apporto del 7% e le attivi di perforazione e produzione di petrolio dal fondo marino contribuiscono per il 2%. A differenza degli altri idrocarburi, tutti gli idrocarburi aromatici sono tossici. In particolare gli IPA sono gli idrocarburi del petrolio più pericolosi per la vita, a causa della loro azione cancerogena. Altri fattori molto importanti sono le condizioni dell’ambiente, come la salinità, la temperatura dell’acqua e il tipo di costa. Questi fattori influiscono sugli effetti sull’habitat, ma anche sulle procedure di clean-up.

 

Carlo Di Stanislao

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