Sarà dedicata a Gabriele Perilli, deceduto a maggio scorso, la rassegna di tre film sul tema del perdono, che saranno proiettati a Piazza S. Bernardino, con inizio alle 21,30, dal 24 al 26 agosto, in occasione della 717^ edizione della Perdonanza Celestiniana, il cui programma è on-line su: http://www.6aprile.it/featured/2011/08/06/laquila-perdonanza-celestiniana-2011-il-programma.html. Il primo film sarà “Rocco e suoi fratelli”, capolavoro di Luchino Visconti del 1960, premio speciale della giuria a Venezia e 3 Nastri d’argento: regia, sceneggiatura (Visconti, S. Cecchi D’Amico, P. Festa Campanile, M. Franciosa, E. Medioli) e fotografia di Giuseppe Rotunno, tartassato da gravose vicende giudiziarie, osteggiato dai politici e bersagliato dalla censura, che sarà presentato in versione integrale senza i tagli apportati nelle edizioni andate in tv nel 1968 e nel 1979. Sarà poi la volta di “Darrat. La stagione del perdono”, un film sul Ciad che può venire esteso a tutta l’Africa, anche in considerazione del fatto che ha rappresentato questo continente nel Concorso della 63ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nel 2006. Un film che descrive una realtà che si ritrova in vari paesi, come il Marocco, l’Algeria, il Congo e il Burundi, in cui sono in corso processi di amnistia, dopo sanguinose guerre civili.
Il film, eccellente anche sotto il profilo stilistico e narrativo, è stato diretto da Mahamat-Saleh Haroun, nato a N’Djamena nel 1961, diplomato al Conservatorio del Cinema Francese e che nel 1986 ha iniziato a lavorare come per debuttare, nel 1994, al cinema, con il cortometraggio Maral Tanie, premiato in molti Festival. Il suo primo lungometraggio, realizzato cinque anni dopo, è stato Bye Bye Africa, con il quale ha conquista due premi al Festival di Venezia. Nel 2002 è stata la volta di Abouna, presentato al Festival di Cannes e, poi, di questo “Darrat. La stagione del perdono”, un film che basa tutto (o quasi) sulle dinamiche emotive sia dello spettatore che degli stessi protagonisti.
Un film che, con una regia priva di fronzoli, ci dice che vivere nell’odio e nel ricordo non è sano, ma dimenticare non è facile. Succede quindi che sotto la luce abbagliante della stagione secca, tra paesaggi rurali e grossi centri urbani, prende forma il dramma psicologico di Atim, il protagonista, che deve decidere le sorti di colui che un tempo fu l’assassino di suo padre e che ora, inconsapevolmente, gli propone di prenderlo sotto la sua protezione. L’intero film si concentra sul travaglio interiore del giovane vendicatore, ottimamente interpretato dal bravo Ali Bacha Barkai, espresso a suon di sguardi e silenzi che non lasciano scampo e ad ogni fotogramma ribadiscono “a gran voce” quanto sia difficile, duro ed eroico prendere in considerazione l’ipotesi di un perdono (o, quanto meno, di una vendetta non consumata) che, una volta tanto, potrebbe interrompere la catena della violenza. Ultimo film della rassegna, il poco noto (e bellissimo), “Pitch Blak”, film di fantascienza del 2.000, firmato da David Twohy, dove il più grande dei peccatori viene salvato e perdonato da una delle eroine più pure (e belle) della storia del cinema, che, nonostante sia emancipata, non rinuncia alla propria indole dolcissimamente femminile. Superlativa laprova dell’australiana Radha Mitchell, chiamata così dai genitori che non hanno mai nascosto la passione per le tradizioni indù, che debutta sul grande schermo in Amore e altre catastrofi (1996) di Emma Kate Croghan e sviluppa la sua performance più nota in Melinda e Melinda (del 2004) di Woody Allen, dove interpreta lo stesso personaggio in due storie parallele. Bravissima nel genere fantascientifico, ha interpretato, nel 2009, accanto a Bruce Willis, Il mondo dei replicanti di Jonathan Mostow.
Eccellenti e molto accurate le scelte della’Istituto Cinematografico Lanterna Magica che, come da missione, ha inteso previlegiare due cinematografie, l’africana e l’australiana, fuori dai grandi circuiti commerciali e, pertanto, davvero poco conosciute. Quello africano è certamente il cinema che fa più fatica a venir fuori. Oltre all’ovvia minor produzione (certo non hanno Hollywood nè tanto meno Bollywood…) è più che altro la mancanza di distribuzione al di fuori dei propri confini a far sì che alla fine rimanga un cinema da festival, da rassegne. Quanto alla cinematografia australiana, vive da sempre grandi difficoltà, con produttori e attori che continuano a spostarsi regolarmente al’ l’estero per lavorare. Le difficoltà di finanziamento e di commercializzazione non sono certo una novità per l’industria cinematografica australiana: esse sono andate di pari passo con i suoi successi fin dai primi anni della rinascita. I film sulla storia coloniale del paese furono i primi ad imporsi.
Il pubblico e la critica internazionale accolsero favorevolmente The Chant of Jimmie Blacksmith (1978), La mia brillante carriera (1979), Breaker Morant (1980) e Gallipoli (1981), tutti film che avevano affrontato temi universali e li avevano ambientati in uno scenario di nuova frontiera – un paesaggio illuminato da un chiarore dorato dove la bellezza delle immagini già costituiva un elemento di pregio. Ci è voluto un po’ più di tempo, invece, perché le storie sull’Australia moderna catturassero l’immaginazione del pubblico. Vi sono stati alcuni successi isolati come il giallo Mad Max (1979) girato in economia da Gorge Miller, che affascinò gli appassionati dei film d’azione con l’energia viscerale del suo stile, oltre a lanciare una nuova star internazionale, Mel Gibson. Paul Hogan ambientò le avventure dell’eroe dell’ ‘outback’ nell’ultimo scorcio del XX secolo nella commedia popolare Crocodile Dundee (1986), mentre le raffinate pellicole contemporanee del regista di Melbourne, Paul Cox, si affermavano nel circuito mondiale dei festival cinematografici. è stato soltanto con l’avvento della cosiddetta commedia ‘quirky’ (bizzarra) all’inizio degli anni ’90 che si è avuta la vera svolta. Ballroom, gara di ballo (1993), Priscilla, regina del deserto (1994) e Le nozze di Muriel (1995) hanno dimostrato il nuovo vigore – e umorismo – del cinema australiano. Più recentemente hanno avuto successo alcuni film fuori dai soliti schemi come Lantana (2001) di Ray Lawrence, raffinato ritratto di gruppo che è andato molto bene a livello internazionale, e Japanese Story (2003), con Toni Collette nei panni di una geologa australiana che ha una storia con un uomo d’affari giapponese durante un viaggio nell’ ‘outback’. C’è stata anche un’intensa produzione di lungometraggi dedicati a temi e personaggi indigeni.
Fra i più riusciti si può citare: La Generazione Rubata (2002) di Phillip Noyce, un adattamento del libro di Doris Pilkington Garimara sulle esperienze di sua madre come appartenente alla ‘generazione rubata’ – bambini aborigeni strappati alla famiglia per essere assimilati nella società ‘bianca’ durante il XX secolo. Oggi, in Australia, è un fiorire poco noto di nuovi talenti fra i cineasti sotto i quarant’anni – molti dei quali usciti dalla Scuola australiana di cinema, radio e televisione – che hanno prodotto lungometraggi d’intrattenimento e opere prime a costi notevolmente bassi. Anche tecnicamente l’industria cinematografica australiana ha fatto notevoli progressi con la realizzazione di studi cinematografici in grado di ospitare produzioni delle dimensioni e complessità di Matrix (1999), Mission Impossibile II (2000), Moulin Rouge (2001) e L’Attacco dei Cloni (2002), il più recente episodio della serie Guerre Stellari di George Lucas, girato in parte negli Studi Fox di Sydney. In un’industria dominata da Hollywood l’esistenza di qualsiasi cinematografia nazionale è precaria. Ma la tenacia e la creatività del cinema australiano dimostrano che è ancora capace di affrontare il futuro con fiducia.
Carlo Di Stanislao
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