Non bastano la carestia apocalittica del Corno D’Africa, gli eccidi della Siria e del Darfur, gli attentati in Iraq, Pakistan ed India, la guerra infinita in Afganistan e quella che si avvia ad esserlo in Libia; ora anche il Medio-Oriente torna ad essere una polveriera esplosiva dopo la fiammata di Eliat ed i bombardamenti ritorsivi su Gaza. Nel deserto del Negev, nell’estremo Sud di Israele, un bus con militari a bordo, è stato fatto oggetto di un assalto con colpi di kalashinov e lancio di granate di mortaio. Subito dopo, un altro autobus della linea Egged, in viaggio sulla statale 12, che costeggia il confine egiziano, verso la località turistica di Eilat, sul Mar Rosso, è stato raggiunto, mentre si trovava nei pressi di Netafim, da una serie di colpi di armi automatiche. L’autista, ed alcuni testimoni hanno parlato di tre uomini armati di AK-47, travestiti da soldati egiziani (qualcuno ha parlato invece di poliziotti). Anche in questo caso nessuna vittima, ma 5 persone sarebbero rimaste ferite. A bordo anche alcuni militari israeliani in licenza che da Be’er Sheva si stavano recando ad Eilat. Sempre sulla stessa statale, nelle stesse ore, un’auto, con a bordo alcuni civili in gita, è riuscita a sfuggire ad un attacco simile, sferrato, presumibilmente, degli stessi attentatori. Il terzo ed ultimo attacco, avvenuto circa mezz’ora dopo, è stato il più devastante. Un autobus, questa volta sulla statale 90, che corre lungo il confine giordano, ma diretto anch’esso dal Nord del Paese verso il Mar Rosso, è stato preso di mira da un commando che ha colpito il mezzo con armi automatiche ed un razzo RPG (un arma usata per sfondare le corazze dei carri armati), mentre si trovava vicino alla località di Be’er Ora. Immediato lo scontro con una unità delle forze speciali israeliane, accorse sul posto. L’azione ha portato alla morte di sette terroristi e sette israeliani ed al ferimento di 35 persone, di cui 5 in gravissime condizioni. L’identità dei terroristi non è stata ancora accertata, così come a quale organizzazione fossero affiliati. Non si è neppure riusciti a stabilire se gli attentati siano opera di un’unica cellula o di più cellule organizzate. Ed anche l’origine degli attentatori non è chiara. Qualcuno tra gli analisti militari sostiene che potrebbero trattarsi di egiziani appartenenti ad una qualche organizzazione fondamentalista. Infatti il Sinai, dopo la caduta del regime di Hosni Mubarak, ha raggiunto un notevole livello di instabilità a causa di un deciso affievolimento delle misure di sicurezza. L’intelligence egiziana ha segnalato di aver bloccato e catturato, martedì, quattro uomini, estremisti islamici, che stavano organizzando un attacco dinamitardo ad un gasdotto, in territorio egiziano, a pochi chilometri dalla zona degli attentati del Negev. Immediata la reazione di Israele, con una prima ondata di raid aerei condotta ieri pomeriggio sulla Striscia di Gaza, con il il ministro della difesa israeliano, Ehud Barak, che ha dichiarato che la matrice degli attentati è certamente palestinese e che Israele agirà “con tutta la sua forza contro di loro”. I raid israeliani sono proseguiti nella notte, mentre gli abitanti dei villaggi del Negev meridionale hanno ricevuto l’ordine di rimanere confinati nei propri insediamenti fino a che la situazione non si sarà normalizzata. A Gaza, Hamas ha iniziato lo sgombero dei propri accampamenti militari, in vista di un probabile allargamento dell’offensiva israeliana, mentre i responsabili militari, che si troverebbero già all’interno dei bunker. Ed oggi, si legge nelle agenzie di stampa, nelle prime ore della giornata, almeno 12 missili sono stati lanciati contro obiettivi nel sud d’Israele, il primo esploso alle 08.10 (ora locale) nel cortile di una scuola di studi religiosi (yeshiva) ad Ashdod, causando il ferimento di sei persone, una delle quale in modo grave. Lo scenario che si va delineando è del tutto simile a quello ancora in atto in Iraq e in Afghanistan, dove attentati e attacchi diretti seminano la morte tra i soldati delle forze occidentali e tra i civili indifesi, nonostante il nostro ministro della difesa, Ignazio La Russa continui a dire che potremmo venircene via abbastanza presto perché la missione di pacificazione è compiuta. Secondo molti, contrariamente a quanto afferma il governo di Tel Aviv, l’attacco è venuto dall’Egitto, dal Sinai, dove è in corso una rivolta contro il governo del Cairo e dove gruppi armati dichiaratamente anti-israeliani stanno facendo saltare a ripetizione il gasdotto che rifornisce Israele e la Giordania. E’ abbastanza chiaro che le frange anti-israeliane della rivoluzione egiziana e la disperazione palestinese che tracima dalla gigantesca prigione a cielo aperto di Gaza, si stanno saldando in un nuovo panarabismo probabilmente meno “socialista” di quello nasseriano, visto anche il fallimento dei regimi nazional-socialisti di Iraq e Siria, dove l’esercito baathista di Assad, non a caso, a Latakia ha bombardato proprio le miserevoli case dove si ammucchia la diaspora palestinese. Lo sfacelo del medio-oriente, scrive Maria Annunziata su La Stampa, è la prova del fallimento colpevole dell’occidente, che fra una pausa e l’altra delle gravissime scosse all’economia, si è dimenticato dei guasti che ha contribuito a creare in questo tormentato angolo di mondo. In Medioriente si vive in queste settimane una grande incertezza. Una sorta di fiato sospeso sulle molte strade che i vari Paesi possono prendere. In Egitto dietro il processo a Mubarak si confrontano forze molto diverse – musulmani, cattolici copti, liberal occidentalizzanti, spuntano nuovi partiti, si divide l’esercito – e non è chiaro come giocheranno fra loro. Nei Paesi del Golfo, l’Arabia Saudita sta guidando la difesa delle famiglie reali sunnite sotto attacco ovunque, in Bahrein, come in Kuwait. In Libano Hezbollah ha rialzato la testa, nel tentativo di intercettare e capitalizzare le varie rivolte nazionali, la maggior parte delle quali animate da popolazioni sciite. Ugualmente sta tentando di fare Hamas a Gaza. La Turchia che negli ultimi anni si è imposta come punto di riferimento regionale grazie alla sua stabilità politica e all’incredibile sviluppo economico che ha proiettato dentro tutti gli ex Paesi a dominio ottomano, è essa stessa oggi minacciata dal rapido evolversi delle varie situazioni ai suoi confini. E fuori da questo intreccio stanno a guardare due Paesi decisivi: l’Iran e Israele, che in modi diversi hanno scelto un basso profilo nei mesi scorsi in attesa di valutare gli sviluppi. L’attuale situazione di stallo in cui si trova la comunità internazionale nei confronti della Siria, l’aperto sostegno militare iraniano al regime siriano, e le disastrose conseguenze che potrebbero verificarsi in caso di destabilizzazione del paese, pongono numerosi interrogativi su come possa risolversi la crisi siriana. La recente dichiarazione di Davutoglu, autore del libro Profondità Strategica e della famosa teoria Zero Problemi con i vicini, può rivelare un cambiamento di rotta nella gestione della politica estera da parte dell’Akp e di Erdogan, indicando una volontà, mai nascosta della Turchia, di elevarsi a modello politico islamico regionale che difende i diritti fondamentali delle masse arabe e ne tutela le libertà umane. Ed ora che Israele si riarma con volontà vendicative, la situazione è resa ancora più caotica, incerta e grave. A nord di Eilat proseguono le ricerche di membri del commando terroristico che potrebbero essere ancora appostati sul terreno in attesa di tornare in azione. Sulle arterie si notano numerosi posti di blocco e una rafforzata presenza militare. La polizia israeliana è inoltre schierata in forze a Gerusalemme est per far fronte a eventuali manifestazioni che potrebbero essere organizzate dai fedeli islamici al termine delle preghiere del venerdì e del Ramadan nella Spianata delle Moschee. Ieri notte il presidente Benjamin Netanyahu, ha detto che “chi colpisce Israele paga un duro prezzo” e pertanto quelli che “colpiscono cittadini israeliani devono attendersi una nostra reazione energica. Coloro i quali hanno impartito gli ordini di colpire i nostri i cittadini e poi si sono nascosti a Gaza ora non sono più in vita”. Come scrive su “Greenreport” Umberto Mazzantini, l’Occidente in crisi economica e politica non può permettersi che il Medio Oriente esploda, non può permettersi una nuova crisi petrolifera causata dall’estremismo del governo israeliano e dalla disperazione di qualche regime arabo che potrebbe cercare con un colpo di coda di uscire dalle sue difficoltà infiammando il panarabismo anti-ebraico. Anche se distratto da crisi interne di vario genere, Europa ed USA dovranno per prima cosa dissinescare il più vecchio e pericolosi edegli ordini medio-orientali: quello del popolo palestinese, che ha diritto ad una terra e ad una patria che non siano galere e bantustan islamici circondate da muri ormai inutili e aggirabili, come dimostra l’assalto di Eliat, a meno che il premier israeliano Benjamin Netanyahu, non voglia davvero costruirne un altro, come annunciato nell’ottobre 2010, al confine con il Sinai egiziano, così da fare di Israele il carceriere che si è costruito l’ennesima galera. Ciò che va detto è che nonostante la forte repressione: una guerra civile, cinque guerre “guerreggiate”, centinaia di incursioni e di episodi bellici di varia natura, i palestinesi, in questi ultimi 40 anni, non hanno affatto perduto la loro identità, non si sono dispersi fra le altre popolazioni arabe dei paesi limitrofi. Essi continuano a porre all’ordine del giorno delle organizzazioni mondiali per la pace la questione del rispetto dei loro diritti e della loro sovranità. E c’è ora, più presente che mai, un altro spettro che nasce dalle dichiarazioni, a metà luglio, dell’ex funzionario della Cia Robert Baer, secondo cui Israele avrebbe già deciso con di attaccare l’Iran a settembre, prima del voto Onu sul riconoscimento dello stato palestinese sollecitato dall’Anp con un ricorso, sferrando un primo attacco contro l’impianto nucleare di Natanz, nella regione di Isfahan e colpendo simultaneamente a Bassora e Baghdad. E se questo accadesse non si tratterebbe certamente di una guerra regionale. Nel maggio 1947, alla tribuna della commissione speciale dell’Assemblea generale dell’ONU per la Palestina, il capo della delegazione sovietica, A. Gromiko, affermò che in Palestina arabi ed ebrei avrebbero potuto convivere in pace a condizione di costituire uno Stato democratico binazionale, unitario e indipendente, che riconosca pari diritti alle due popolazioni, oppure, in alternativa a questa soluzione giudicata impraticabile dalle stesse popolazioni, a condizione di suddividere la Palestina in due Stati distinti e indipendenti, uniti però sul piano economico. Da allora la posizione sovietica è rimasta sostanzialmente immutata, ma tutto l’Occidente o ha cambiato idea molte volte o fatto orecchie da mercante.
Carlo Di Stanislao
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