Ad aprire la serie di morti dimenticate in questo agosto perso dietro alle divisioni sulla manovra, le borse a precipizio e la guerra libica, divenuta una specie caccia all’uomo in una Tripoli in cui si combatte casa per casa, quella, il 30 luglio, di “Peppe” D’Avanzo, la penna che più odiava il Cavaliere, una delle più taglienti penne di Repubblica, un giornalista che, molto spesso, si è avventura in quei territori, politici e malavitosi, che gli americani chiamano “i luoghi dove non vedi i fucili, ma i fucili vedono te”. Nel suo ricordo dell’amico e collega, Su La Repubblica, il giorno dopo la morte, Roberto Saviano ha scritto che la differenza abissale fra D’Avanzo e certo sensazionalismo recente, sta nel fatto che egli “detestava la superficialità che porta spesso a creare processi mediatici, che poi si sgonfiano senza nulla di fatto, lasciando dietro di sé solo vittime del cattivo giornalismo, per le quali una smentita non potrà mai cancellare l’onta della notizia. Lui aveva bisogno di fatti, di prove, di capire lui stesso prima di scrivere e far capire agli altri”. Come, sempre su La Repubblica, ha scritto l’altro amico e collega Colaprico, i più lo ricorderanno per i fatti più recenti delle sue “Dieci domande” sulla relazione tra il premier e la minorenne napoletana Noemi Letizia, che hanno fatto il giro del mondo, riprodotte da migliaia di media. E poi per le sue “Dieci bugie”, scaturite dalle indagini, anche in strada, sui rapporti tra Berlusconi, Ruby Rubacuori e le altre ragazze che frequentavano le feste di Arcore. Ma D’Avanzo era uno che, come si dice, “non guardava in faccia nessuno” e dagli anni Ottanta, tra scoop da prima pagina e inchieste, ha modificato – e sul serio – uno stile giornalistico. Era l’unico a potere e sapere mescolare la cronaca, costruita e impreziosita da notizie esclusive, con i suoi commenti, le analisi, le “visioni”. Era una quercia di giornalista, serio ed esigente a partire da se stesso, morto a soli 57 anni e di cui La Repubblica pubblica, postuma, l’opera “Indagini sul potere”, con le sue inchieste su Falcone e la mafia, lo scandalo internazionale Abu Omar e il Nigergate o quello delle tangenti Telekom Serbia, quando al governo c’era la sinistra, e poi smontato nella gigantesca calunnia successiva, quando la destra organizzò una campagna diffamatoria e falsa contro Prodi, Dini e Fassino. Il libro, curato da Attilio Bolzoni e Leopoldo Fabiani, è in vendita con Repubblica da stamattina, un libro in cui si dipana quello che dovrebbe essere il vero giornalismo d’inchiesta, quello che, per dirla con Eugenio Scalfari, Secondo Eugenio Scalfari, affronta con verità e coraggio “ i temi che costituiscono l’ossatura nascosta del Paese, spesso segreta e addirittura criminale”. I lettori vi troveranno no la coscienza d’un giornalista che ha onorato la sua professione, cercando, per quanto poteva, di migliorare uno sgangherato Paese. Sempre grande firma ma stavolta del Corriere, è morto, il 22 agosto, Giorgio De Rienzo, grande letterato e stimato critico letterario, sempre attente al testo e mai sconfinate nell’intervento di carattere impressionistico, autore di due agili, preziosissimi volumetti, che allo scrivente hanno insegnato molto: “Guida alla scrittura” e Guida alla lettura . “Come leggere un classico” (Bompiani 1998-1999). L’altra passione di De Rienzo era la scuola, a cui dedicava spesso i suoi articoli sul Corriere. Nel 2008, alla vigilia delle elezioni politiche, firmò, insieme ad altri quindici intellettuali e editorialisti, l’appello rivolto ai partiti e ai candidati per “Un partito trasversale del merito e della responsabilità nella scuola”. Anche De Rienzo era giovane, avendo solo 69 anni, ma era anche molto ammalato e da tempo lottava strenuamente contro un morbo che non da scampo. Il suo ultimo libro uscito nel 2011 per Kowalski Editore è stato S.O.S. Lingua. Manuale di pronto soccorso per l’uso corretto dell’italiano, libro nato dalla omonima rubrica settimanale di “Vanity Fair”. In questa opera ci lascia il suo insegnamento più portante e centrale: l’Italiano è un idioma ricco e capriccioso, che non permette mai di abbassare la guardia. Per il Corriere, a maggio 2010, per lo morte di Sanguineti aveva scritto “era persona affabile, colta e indimenticabile”, credo che questi tre aggettivi si confanno perfettamente per un suo epitaffio. Di altra età e attitudine il terzo morto eccellente di questa Estate piena di calura ed angosce: Ermanno Curti, 81 anni, fondatore della Cineproduzioni Daunia 70, del Centro produzioni cinematografiche Citta’ di Milano e presidente onorario della Minerva Pictures/RaroVideo; colui a cui si debbono fiolm di culto popolare e cinefilico come Padroni della citta’, Avere vent’anni, La seduzione, Brucia ragazzo brucia, Colpo in canna, tutti per la regia di F. Di Leo e ancora Liberi, armati e pericolosi di Romolo Guerrieri e Uomini si nasce poliziotti si muore di Ruggero Deodato. Fu co-produttore e distributore di Yuppi Du di Adriano Celentano e di Niente di grave suo marito e’ incinto, di Jacques Demy, con Marcello Mastroianni e Catherine Deneuve. Marito dell’attrice Eleonora Ruffo, morta a Roma il 28 maggio 2007 all’eta’ di 71 anni, aveva lavorato con molti altri attori famosi: da Ursula Andress a Lisa Gastoni, Rosanna Schiaffino, Eleonora Ruffo, Sylva Koscina, Charlotte Rampling, Barbara Bouchet, Jack Palance, Gastone Moschin, Philippe Leroy, Klaus Kinsky, Adriano Celentano, Albano, Adolfo Celi, Lino Banfi. Pochi giorni prima, il 18 agosto, era morto il maestro cileno dei sogni al cinema: Raoul Ruiz, a 70 anni, per una grave infezione polmonare, in un ospedale di Pargi, città dove da anni ormai risiedeva stabilmente. Regista di grande umanità e raro umorismo, autore di un cinema colto, visionario, marcato dal quel surrealismo un po’ folle e un po’ onirico tipico di scrittori come Marquez e Borges, nel 1968 Ruiz si fa notare alla ribalta internazionale con Tre tigri tristi , dall’ omonimo romanzo di Cabrera Infante, con cui vince il Pardo d’ oro al Festival di Locarno. Tra gli altri suoi titoli, Le tre corone del marinaio e La ville des pirates , ispirato a Peter Pan. Nel 1996 firma la regia di Tre vite e una sola morte , con Marcello Mastroianni, nel 1997 vince l’ Orso d’ argento a Berlino per Genealogia di un crimine , con Catherine Deneuve e Michel Piccoli. Nel 1998 Autopsia di un sogno (Shattered Image) con Anne Parillaud e William Baldwin, è presentato alla Mostra di Venezia. Nel 1999 dirige Il tempo ritrovato da Proust, con Catherine Deneuve e John Malkovich, attore con cui girerà anche Klimt , sulla vita del pittore. Il suo ultimo film, I misteri di Lisbona , l’ ha fatto vincere l’ anno scorso come miglior regista a San Sebastian. Il cinema di Ruiz, ad ogni inquadratura, ad ogni stacco e movimento di macchina, incanta ed incatena, non solo per il rovesciamento della narrazione, per la capacità che ha l’immagine di nascere a partire dalla fantasia di un soggetto, di un personaggio, più o meno visibile, ma per l’inesplicabile capacità di usare il fraseggio, il lessico e la rappresentazione, in modo pieno e particolare. Ha scritto la sempre acuta Irene Bignardi che un verso inglese ci dice che “I pazzi procedono dove gli angeli hanno paura di camminare” e Ruiz ha avuto questa incoscienza o questo coraggio, in tutto intero il suo cinema. Nel 1999, nel suo film mulimiliardiario su “La Recherche”, intitolato “Il tempo ritrovato”, Ruiz ci insegna ad andare avanti ed indietro nel tempo, a dominare il tempo e quindi, anche, a vincere la nostra atavica paura dello smemoramento e della morte. Al suo cinema il Festival del Cinema di Roma dedicherà una retrospettiva, con anteprima assoluta dei primi due episodi della versione televisiva de ”I misteri di Lisbona”, che andra’ in onda a ottobre su ARTE France. In chiusura voglio spiegare la mia scelta di apertura iconica al pezzo: “Il trionfo della morte” di Pieter Bruegel, dove si narra, con stile visionario, di una morte cieca che giunge per uccidere ricchi e poveri, uomini e donne, re ed ecclesiastici; una morte tremenda ed imparziale che squassa la scena attraverso le terrificanti legioni di scheletri e dove, l’unica differenza, la fa il ricordo o l’oblio.
Carlo Di Stanislao
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