È stata la denuncia dell’ex proprietario delle aree Falck e Marelli di Sesto San Giovanni a dare il via, il 20 luglio scorso, all’inchiesta che ha squarciato il velo su un presunto giro di mazzette per realizzare imponenti interventi edilizi sui due terreni industriali da riqualificare. Inchiesta che ha messo nei guai, tra gli altri, Filippo Penati, vicepresidente del Consiglio Regionale della Lombardia in quota al centrosinistra, fino allo scorso novembre capo della segreteria politica del leader del pd Pierluigi Bersani, e prima ancora guida della Provincia di Milano ed ex sindaco del Comune battezzato la Stalingrado d’Italia. Secondo l’ipotesi dell’accusa, sarebbero state corrisposte somme di denaro per agevolare il rilascio di alcune concessioni o per impostare, secondo determinati criteri, il Piano di Governo del Territorio in relazione alle due aree, dove una volta sorgevano la Falck e la Ercole Marelli. Ma con un distinguo, però: nel primo caso le presunte irregolarità riguardano il piano di lottizzazione e la sua approvazione e adozione dal Consiglio comunale, nel secondo oltre al piano di lottizzazione, riguardano anche le concessioni edilizie. Inoltre sono in corso verifiche e accertamenti anche sulla gestione del Servizio Integrato Trasporti Alto Milanese. Penati ha commentato la decisione del GIP con le parole: “oggi si sgretola e va ulteriormente in pezzi la credibilità dei miei accusatori”, ribadendo la “totale estraneità ai fatti che mi sono addebitati”[ ed ha deciso, quasi subito, di autosospendersi dal Partito Democratico e di uscire dal gruppo consiliare regionale, per “scindere nettamente la mia vicenda personale dalle questioni politiche” e “per non creare problemi e imbarazzi al Partito”. Nomen omen dicevano i latini ma, in questo caso, il “cognomen” Penati, che in romagnolo indica un angelo o nume tutelare, con sembra adatto al ruolo che il politico sta ora a vendo in seno al Pd in grande apprensione. Ed anche se per lunedì prossimo è stata convocata la Commissione di Garanzia presieduta da Luigi Berlinguer (quella stessa che nella sua ultima riunione ha ammonito i quattro parlamentari colpevoli di aver criticato un candidato sindaco di Enna fotografato a colloquio con un noto boss mafioso) ed anche se Bersani chiede e Letta esige una rinuncia alla prescrizione, il caso Penati grava sul Pd come una spada di Damocle e consente a Gasparri e a Cicchitto uscite pesanti che ricordano anche il caso Enimont e bruciano le coscienze degli eredi del primato morale di Berlinguer, con la domanda somma e centrale: il Partito sapeva? Certo risulta strano che in un giro di supposte tangenti che insistono da 15 anni ed hanno generato, pare, una “cresta” da 8 milioni di euro, i capi del partito potessero non sapere; ma sono in molti (su Libero, il Giornale il Tempo) a ricordare come, nel ’92-’94, mentre per la DC ed il PSI si applicò un certo tipo di teorema distruttivo io vertici di partito, non fu lo stesso nel caso della sinistra, con Primo Greganti e Mario Chiesa sacrificati come squallidi grassatori. Certo per Bersani sono momenti duri, difficilissimi, anche ora che incassa il successo, in apertura, della resta nazionale del partito, con una folla entusiasta al concerto in piazza del Popola a Pesaro di De Gregori. Oltre allo sciopera della CGL, inviso ad una parte considerevole di dirigenti, a partire da Ciamparino, il “sistema Penati” penalizza di molto un partito che su etica e morale aveva basato molta della sua credibilità, anche se, invero, eravamo in molto a non credere che tutte le somme necessarie per un apparato tanto complesso e capillare venissero fuori da tessere e salsicce alle Feste de l’Unità. Giorgio Oldrini, successore a sindaco di Monza di Penati, ex giornalista di Panorama, oggi sul Corriere si difende chi è accusato di reati, mentre tenta solo di amministrare una città; ma il fatto resta: fino a che punto è lecito spingersi nell’esercizio di queste funzioni e quanto l’arbitrio e l’interesse di gruppi non viene a sostituirsi alla democrazia? Lo scandalo Penati, oltre ad investire la credibilità nazionale del Pd, già crea problemi nella giunta Pisapia, con l’Idv che vuole si rinvii a casa il neo-eletto assessore trentunenne Maran, penatiano a tutti gli effetti. Pisapia fa muro e si dice adirato, ma le ombre lunghe anche sulla sua amministrazione sono cupe e minacciose all’orizzonte. Plutarco scriveva che neppure il sospetto deve sfiorare la moglie di Cesare ed ora con il caso Penati e le carte che ormai sono note, vacilla l’arcione Pisapia e il commissario dell’Italia dei Valori a Milano, Stefano Zamponi, il politico che per primo il sospetto l’ha sollevato, ora può scrivere: ”Caro Pisapia, dove è finita la sua proverbiale gentilezza? Le illazioni sulla nomina ad assessore di Pierfrancesco Maran come pupillo di Penati sono state avanzate non dall’Idv, bensì da un sito di suoi sostenitori ( www.pisapiajabitte.org ). Italia dei Valori, che l’ha sostenuta sin dalle primarie, le ha chiesto di smentire subito tali illazioni”. Quello di Penati rischio di essere uno scandalo destabilizzante dentro un partito già a corto di unità e stabilità, uno psicodramma, scrive Panorama, che farà perdere ancora più elette rota al Pd e molto credibilità alla opposizione. La domanda a cui rispondere e in fretta e se l’ex presidente della Provincia di Milano, l’uomo forte del Pd lombardo, il braccio destro del segretario nazionale, colui al quale Pierluigi Bersani aveva affidato il compito di strappare il Nord al centrodestra, il “modernizzatore” di cui parlano oggi con costernazione i suoi compagni locali di partito, farebbe bene o no a rinunciare alla prescrizione per dimostrare in tribunale la sua innocenza. Una domanda non semplice perché si porta dietro, in caso di processo, la messa in luce di eventuali responsabilità di partito. Per Pierluigi Bersani, si tratta di una scelta personale e dello stesso avviso il sindaco di Milano Giuliano Pisapia il quale, però, a suo tempo rinunciò all’amnistia pur di dimostrare in appello la sua innocenza rispetto all’accusa di furto d’auto ottenendo poi l’assoluzione nel merito. E mentre i vicesegretario Letta si dice certo che il giudizio debba esserci, sibilinno (come quasi sempre) è Luigi Berlinguer che parla della necessità di mettere mano allo Statuto per una più chiara definizione del principio di “correttezza” di un politico “visto che un politico deve essere più corretto di un cittadino comune”, ma non ipotizza come. Severo, invece, il giudizio del sindaco di Firenze Matteo Renzi: lui, garantista dichiarato, non ha dubbi sul da farsi “Penati rinunci alla prescrizione e si dimetta anche da consigliere regionale”. “Mai creduto alla diversità etica – assicura il sindaco Pd in un’intervista – la differenza e’ tra chi scappa davanti ai giudici e chi si difende”. Sul caso si è espressa anche la presidente Rosy Bindi, che ha detto: “Il Pdl vuole delegittimare il ruolo di governo e la credibilità del Partito democratico per distogliere l`attenzione dalle difficoltà della maggioranza di fronte alla pesante e iniqua manovra di ferragosto. Noi invece non abbiamo affatto nascosto la testa sotto la sabbia, né alzato polveroni su complotti, né cercato di intimidire o fermare le indagini della magistratura”.”Sulla vicenda Penati – ha proseguito – abbiamo reagito e stiamo reagendo in nome di una concezione della politica diversa e alternativa a quella che la destra berlusconiana ha praticato in questi anni. Non abbiamo invocato norme ad personam, né pasticciato su indecenti modifiche alla costituzione o ai processi in corso. Al contrario, abbiamo scelto la via del rigore e della trasparenza, abbiamo chiesto chiarezza e a Penati di distinguere tra la sua posizione e quella delle istituzioni e del partito. Non criminalizziamo nessuno e non abbiamo bisogno di capri espiatori, più semplicemente sentiamo il dovere della coerenza con uno dei compiti che il Pd si è dato: restituire fiducia nella politica con un rinnovamento profondo delle istituzioni e dei partiti”.Ha aggiunto la Bindi: “E se c`è da fare un passo in più lo faremo. Ma non ci lasceremo inchiodare al ritornello ossessivo di chi continua a chiedere al Pd di fare i conti con un passato che riguarda un`altra storia”. Il 6 agosto scroso, parlando del caso Penati e delle vicende giudiziarie che hanno avuto come protagonisti importanti esponenti politici di sinistra, Nichi Vendola ha dichiarato: “”Indubbiamente sta emergendo una questione morale nel centrosinistra ed essa è l’indice della debolezza della politica. Quando la politica cede il comando all’economia, al mercato… se tutto è mercato anche la politica diventa un mercato Dal mio punto di vista l’antidoto alla dilagante immoralità pubblica, ad una corruzione che sta diventando persino fisiologica in questo Paese, è ripristinare il primato della politica”. Un mese prima, il 7 luglio, su Il Fatto Quotidiano, Paolo Flores D’Arcais parlava di “morale perduta del Pd” e ricordava, amaramente, che trent’anni fa, nel luglio del 1981, il segretario del Partito comunista italiano, Enrico Berlinguer, lanciava la “questione morale” come decisiva questione politica e ne faceva l’architrave della “diversità” rispetto alla partitocrazia imperante, ma gli eredi di Berlunguer sembra l’abbiano non seguito su questa linea. Per primo non lo seguì il Pci: tre anni dopo Berlinguer morì drammaticamente e nel 2002, allo scoppio di Mani Pulite, l’ormai ex Pci si mosse in direzione opposta a quella indicata dal suo ultimo vero leader ed anziché dare profondità politica alla “rivoluzione della legalità” che l’azione giudiziaria contro Tangentopoli scoperchiava come improcrastinabile, alcuni personaggi ai vertici del partito, tra una “gioiosa macchina da guerra” e un inciucio bicamerale, pensarono bene di inalberare il vessillo del “primato della politica”, guardando con malcelata ostilità alla doverosa azione dei magistrati, e finirono per intralciarla sempre più apertamente, votando infinite leggi bipartisan contro la giustizia, in amorosi sensi col berlusconismo. E si chiedeva ancora nel suo breve, fiammente pezzo, l’intellettuale di sinistra: “Possibile che nel Pd non possa diventare riflesso condizionato il semplicissimo “non rubare”? E automatismo il rompere ogni rapporto con chi, avendo un tenore di vita incompatibile con la dichiarazione dei redditi, non ne sa fornire spiegazione? Possibile che dirigenti navigati e sempre pronti a invocare il “realismo politico” continuino per anni a praticare promiscuità con figuri della P2 e di Tangentopoli? (Per non parlare dell’abrogazione delle province, promessa agli elettori ma subido dopo contraddetta , perché alle greppie opulente non si vuole rinunciare).” La politologa Amy Gutman, tempo fa, ha scritto che: “La responsabilità di un pubblico ufficiale deve essere quella di rendere conto al sistema democratico, il che significa che dovrà innanzi tutto ricevere un’educazione che gli insegni ad esporre le ragioni di ogni atto che compie; in secondo luogo, egli deve garantire ai cittadini un’educazione che permetta loro di capire tutti gli atti da lui compiuti e, soprattutto, dopo aver fornito un’educazione ai cittadini e dopo aver spiegato loro le sue azioni, deve essere in grado di affrontare le conseguenze qualora i cittadini rispondano: Ci dispiace, ma non è questo che volevamo, non ci sembra corretto; non solo, quindi, non lo volevamo, ma non crediamo neanche che sia giusto”. leader politici, dunque, devono essere in grado di capire cose come queste e vanno educati di conseguenza. Devono rassegnarsi a lasciare con serenità le loro posizioni di potere allorché, dopo essersi presi la responsabilità delle proprie azioni, dopo averle spiegate ai cittadini. Ora, dicono gli esperti e ci dicono i fatti attorno a noi, che l’elemento più comune che porta un politico alla corruzione è la convinzione che riuscirà a farla franca, non solo nel senso che non verrà scoperto, ma anche in quello di pensare che i cittadini comuni non riusciranno mai a capire veramente cosa sia la politica. Partendo da questa visione, gli uomini politici, sebbene democraticamente eletti, possono fare praticamente ciò che vogliono e possono farlo in un modo che li soddisfi in pieno. L’educazione democratica è il miglior antidoto che abbiamo contro questa forma di corruzione, che si nutre di due elementi. Il primo è la visione dall‘alto, dalla posizione dei leader politici, da cui il cittadino comune non appare abbastanza intelligente, o interessato alla propria società democratica, da riuscire a esercitare un controllo sui suoi rappresentanti. Il secondo è ciò che io chiamo l’apatia dei cittadini, cioè la sensazione provata da questi ultimi che gli uomini politici siano in ogni caso incontrollabili, che non ci sia nulla che i cittadini possano dire, o fare, per impedire ai politici di fare ciò che vogliono. È proprio questa la ricetta per la corruzione: l’arroganza da una parte e l’apatia dall’altra, indipendentemente da colori o ideologie. E, tanto per concludere in modo proposito, ricordiamo con Sartori, che il migliore, anzi l’unico antidoto all’apatia e all’arroganza, è la comprensione, la conoscenza, lo studio e, pertanto, non il reflusso nell’antipolitica, ma la partecipazione attiva nella guida della cosa pubblica e della Nazione. Ricordiamoci di Enstein che divceva: ““Il mondo è quel disastro che vedete, non tanto per i guai combinati dai malfattori, ma per l’inerzia dei giusti che se ne accorgono e stanno lì a guardare.”
Carlo Di Stanislao
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