Dove eri l’11 settembre?

Ormai è diventato quasi un rito dire che ci ricordiamo tutti, noi abitanti della parte occidentale del pianeta, dove eravamo e cosa facevamo l’11 settembre 2001. Come se fosse indispensabile essere a nostra volta protagonisti per dare il peso giusto ad un evento. Un peso che diventa ancora più importante per noi proprio perché assume […]

Ormai è diventato quasi un rito dire che ci ricordiamo tutti, noi abitanti della parte occidentale del pianeta, dove eravamo e cosa facevamo l’11 settembre 2001. Come se fosse indispensabile essere a nostra volta protagonisti per dare il peso giusto ad un evento. Un peso che diventa ancora più importante per noi proprio perché assume un valore personale. Sì, personale, molto più che globale. Dopo dieci anni dal crollo delle Torri Gemelle vale la pena per qualche minuto guardarsi un po’ dentro e riflettere sulle ripercussioni dell’attentato nella nostra vita.

L’11 settembre visto in televisione  è stato qualcosa di molto diverso rispetto a quell’altro evento mediatico ricordato spesso dai manuali di comunicazione, la diretta dei bombardamenti “intelligenti” in Iraq. Ero a Napoli allora, li ho visti da uno schermo nel corso di una manifestazione pacifista. Facevano impressione, sì, ma sembravano anche così lontani, quasi finti. C’erano i missili ma non le persone colpite. Poi c’era la guerra ed io, per fortuna, vivevo in un paese in pace. No, con il senno di poi,  possiamo dire che con l’attentato alle Torri Gemelle l’occidente ha per la prima volta visto in diretta qualcosa di diverso: esseri umani colpiti nella vita di tutti i giorni in una città che viveva anche lei in pace, che si lanciano nel vuoto per fuggire alle fiamme.

All’11 settembre possono essere associate molte parole: terrorismo, guerra, morte, paura. Io ne associo soprattutto due che hanno cambiato percezioni importanti nel mondo occidentale: insicurezza e personalizzazione. Insicurezza. Iniziata in quei giorni, non ha fatto che aumentare fino ad oggi, straripando. Dall’insicurezza dovuta al timore di attentati terroristici a quella economica. Personalizzazione. Dopo l’11 settembre la morte si vede, si vive, ed è fatta di persone, frantumata in storie. Ed ha una sua epica, in diretta TV. Si sono viste “persone vere” cadere dalle torri. Le si  è conosciute, seguite una per una attraverso le immagini che i loro parenti e amici diffondevano  da ogni angolo della città.

Abbiamo subito cominciato a respirare una paura personale, nostra, negli sguardi diffidenti della gente per le strade, in metropolitana, nelle scuole, negli aeroporti. Allarme rosso, giallo, e poi il diffondersi di terrore globale tra Europa e Stati Uniti. Tutti abbiamo cominciato ad interrogarci sul filo rosso che lega la nostra incolumità e la tranquillità della nostra vita quotidiana alle decisioni dei potenti del mondo e dei loro nemici.

Io sono una quasi-testimone, una persona che è stata  fisicamente sfiorata dall’11 settembre. Sarebbero bastati cinque minuti di ritardo e mi sarei trovata lì, proprio in quei momenti, sotto quelle torri. A quel punto,  la storia con la S maiuscola non mi avrebbe solo sfiorata, ma toccata. Catturata, per così dire.  Nel 2001 infatti abitavo davanti al World Trade Center e per motivi di lavoro, era proprio nel centro commerciale delle Torri Gemelle che prendevo il PATH , il treno che mi portava sulla sponda opposta dell’Hudson, nel New Jersey.

Un’abitudine scandita da un rituale che ripetevo ogni giorno. Le scale e nei corridoi affollatissimi che mi portavano al treno. Camminavo contro corrente, perché la maggior parte dei pendolari ovviamente faceva il percorso inverso, dal New Jersey a New York, nel tradizionale commuting mattutino. Un fiume di persone veniva sempre incontro a me, uomini, donne che spesso indossavano  tailleur e scarpe da ginnastica, bambini, giovani, di ogni razza, etnia, religione. Tutti di corsa, ma con occhi pieni di vita, illuminati dalla luce di una città che sa dare tanto a chi sa chiedere.

Piano piano avevo imparato ad assecondare la corrente contraria: li sfioravo con dolcezza. Negli spazi che attraversavo c’erano diversi chioschi per lo più gestiti da orientali e ricordo in particolare un fioraio. Pensavo sempre che avrei comprato i suoi bellissimi bouquet  al ritorno, ma non lo facevo mai. E non l’ho fatto  neanche l’11 settembre. Con il mio caffè bollente comprato da un indiano, camminavo in fretta e mi lasciavo dietro le spalle tutto questo: anche Borders, allora la mia libreria preferita, che oggi chiude i battenti in tutta la città. Tutte le mattine mi facevo svegliare dalla consuetudine nell’incontro di volti, fisionomie, sagome sconosciute ma familiari, ripetuta giorno dopo giorno. Riconoscevo a volte anche gli indumenti che questi estranei indossavano, o dei dettagli negli accessori. Scendevo le scale mobili per sedermi in quel trenino, cordone ombelicale tra le due sponde dell’Hudson. Il campanello suonava, le porte si chiudevano e partivo.

Di quel 9/11 al WTC ricordo il sole che filtrava, in un settembre primaverile. Poi come sempre, quello scendere nel buio innaturale del treno PATH, che attraversa la galleria subacquea per poi riemergere in New Jersey. Sono ancora impresse nella mia mente le facce di quella gente, tanti di etnia ispanica, e soprattutto i loro occhi spesso chiusi, le teste che dondolano e non di rado cadono sulla spalla del vicino per rialzarsi fra mille scuse. Gesti spesso ripetuti, uguali a se stessi. Quel giorno feci appena in tempo a superare quel buio, farmi abbagliare dalla luce di nuovo e scendere da quel treno a Newark per salire in un grattacielo al ventiseiesimo  piano. Lì, in alto, con i miei occhi, insieme ad altre persone sbalordite, ho visto in diretta cosa stava accadendo alle Torri Gemelle. La radio confermava. Gli Stati Uniti erano sotto attacco.

Da quel momento i miei ricordi, lo confesso, si affastellano confusi. Sono stata in preda ad una forma di ubriacatura da realtà, peggiore di ogni peggiore incubo, e atterrita dalla paura per chi avevo lasciato vicino a quelle torri. Tutto bene per quanto riguarda la mia famiglia, per fortuna, ma non per molti altri che conoscevo e per moltissimi che non conoscevo. Non bastano dieci anni, per metabolizzare. Bloccata per 24 ore nel New Jersey sono rientrata a Manhattan, ma non a casa, inaccessibile per quasi un mese. Anche al ritorno, per mesi intorno al mio palazzo è rimasto un odore di morte e disinfettante dappertutto.

E la morte non era solo una morte di altri. Era del vicinato. Mia. Era la morte di tutti, vicini e lontani. Una sensazione che forse mi aveva raccontato mia nonna quando ero bambina, e parlava dei bombardamenti durante la Seconda Guerra Mondiale. A Manhattan le foto dei dispersi, i manifesti disegnati dai familiari, raccontavano la vita privata di quelle persone. Storie loro e di tutti. Un quotidiano che si prendeva la sua crudele rivincita. Impietoso nel suo mostrarsi. Un vero reality show, non quelli costruiti a tavolino che avremmo visto pochi anni dopo. Il messaggio era chiaro: “la morte arriva ovunque. Non siamo in un videogioco!”

Il coinvolgimento di tutti ha riempito il cuore di New York che, in quei giorni, oltre a soffrire in prima persona ha mandato al mondo intero il suo messaggio di insicurezza, cambiando il sentire della nostra storia. Si metteva la parola fine a quel facile ottimismo di cui si riempivano la bocca in molti da dopo il crollo del Muro di Berlino. Si è parlato di fine dell’inviolabilità degli Stati Uniti, ma con il senno di poi, dopo dieci anni di altrettante incertezze, possiamo vedere qualcosa di più: una sorta di sveglia al mondo. Colpiti le famiglie, gli amici delle vittime, ma attaccata anche l’umanità intera nella sua assurda presunzione di invulnerabilità.

New York in quei giorni ha saputo far parlare la gente, far unire la gente, anche se regnava la paura. Questo è successo anche perché i newyorkesi, abbracciati dal mondo occidentale intero, sono diventati persone e si sono guardati negli occhi. Non erano solo i soliti protagonisti di famose serie televisive. Vi ricordate “Sex and the city”? La New York di Carrie e le sue amiche che aveva fatto il giro del mondo? Quella era l’immagine che molti avevano di Manhattan in quel periodo.

Dopo dieci anni da quei tragici giorni, cercando anche di guardare con un po’ di distacco a tutto quello che è successo dopo, dalle guerre fino ai cambiamenti non solo sociali ma economici, finanziari, molti si continuano a chiedere quale sia effettivamente stato l’impatto del crollo di quelle Torri. Sono tante le tesi. Io voglio solo tornare su cosa ha significato realizzare in quei giorni che siamo persone e non solo spettatori. L’11 settembre forse è stato veramente la prima volta  in cui un evento ha inciso nelle vite private della gente in diversi paesi occidentali contemporaneamente. Le ha segnate intimamente.

“Ti ricordi cosa facevi l’11 settembre?” Credo che questa sia molto di più di una domanda. E’ vero, si dice anche “Ti ricordi cosa facevi quando fu ucciso John F. Kennedy?”, ma la  morte del presidente tutto sommato rimaneva distante, anche se cambiava il corso della storia, non solo americana, ma del mondo. Quell’evento, inoltre, in quanto tragica separazione di un amatissimo leader politico dalla sua gente, ha contribuito ad alimentare un vero e proprio alone mitologico, rendendo JFK un’icona, e come tale una figura eroica, distante.

Quell’11 settembre, invece, in qualche modo appartiene un po’ a tutti. Lo abbiamo vissuto, personalizzato. Purtroppo è vero che bisogna immedesimarsi per capire la sofferenza. Se così non fosse, faremmo più nostre tante scene di fame o di guerra a cui siamo diventati quasi indifferenti, in un mondo globalizzato e vasto, che tutto sommato diventa sempre più piccolo.

Letizia Airos

direttore del network  italy .org

www.i-Italy.org

 

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