Di fronte all’uomo primitivo la vita, la natura e la storia appaiono come un vortice di immagini senza senso; il mito diventa per lui lo strumento centrale che gli consente di ordinare e di conoscere la propria realtà. L’uomo primitivo non conosce le leggi che governano la natura, le cause della vita e della morte e davanti a questo universo di immagini sconnesse che la natura e la vita gli propongono quotidianamente, rischia di perdersi, di cadere preda dell’ansia, della paura, della depressione. Attraverso il mito egli ritrova il senso della realtà, costruisce l’ordine di quelle immagini, altrimenti impenetrabili. I miti cominciano a svelare all’uomo l’ordine profondo che regola la vita e la morte, i successi e i fallimenti, le catastrofi e le glorie, insomma ogni cosa che accade. Tutto questo ieri, ma oggi? Il mito è stato solo un ingenuo espediente di cui si sono serviti i nostri antenati, un rimedio in grado di sorreggere l’uomo primitivo per spiegare gli accadimenti di ieri, oppure è uno strumento valido ancor oggi per interpretare la complessità del reale, per superare e risolvere le contraddizioni, l’imprevedibilità della natura, le crisi occupazionali, l’incomunicabilità? D’altronde, senza far ricorso alle immagini archetipiche junghiane, a cosa dobbiamo attribuire – se non all’accettazione passiva di miti – la persistenza di riti e credenze nella nostra comunità aquilana, del modo di vedere il mondo ancora inibito da atti formali e di fede che non consentono di ordinare e dare senso al disordine di cui oggi si è vittime, in cui non si riesce a distinguere ciò che – nel materiale e nell’immateriale – va conservato e ciò che va rimosso? Il centro storico, il territorio, la città policentrica – qualunque sia lo sguardo con cui si vuole osservare e interpretare il nostro habitat – al pari della memoria, sono ricoperti di strati di frantumi di immagini, come un deposito di spazzatura dove è sempre più difficile che una figura tra le tante riesca ad acquisire rilievo. Parafrasando Calvino, lo spazio e il tempo che ci sono dati di vivere, che formiamo stando insieme è l’inferno; e due sono i modi per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accoglierlo come un prezioso passato da tenere sotto vetro; il secondo, più difficile, esige attenzione, storicizzazione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere che e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio. I miti appartengono alla tradizione di un popolo e nell’antichità venivano raccontati presso gruppi umani che non conoscevano la scrittura e solo in seguito raccolti e trascritti. Gli eventi di immagini incomposte, riproposti dalla natura e dalla vita si ripetono e si susseguono ancor oggi e come bambini ci poniamo domande la cui risposta supera la nostra capacità di comprensione. Per comunicare messaggi di estrema necessità ma di difficile comprensione razionale, abbiamo ancora bisogno di servirci dei racconti, il cui fine ultimo è quello di permettere all’ascoltatore di giungere al mondo immaginale, al significato profondo della cosa in forma inconscia. I miti, come le parabole e le “vision” racchiudono dei concetti, delle modalità per raccontare e dirigere la nostra realtà in modo ordinato. Ascoltando ripetutamente queste “fiabe” che alcuni “cantori” ci propongono e lasciandoci coinvolgere emotivamente, abbiamo la possibilità di afferrare dapprima il significato esteriore della storia, della “vision” e con l’andar del tempo, di capirne anche quelli reconditi. Che siano costituite da figure di paesaggi fluviali, di luoghi centrali del centro storico, o di poli di attrazione, queste fiabe hanno il compito di far approdare nel mondo di nuovi e più vitali principi, attraverso le immagini e il coinvolgimento emotivo. Spetterà poi alla razionalità il chiarimento delle presunte contraddizioni e la disposizione degli avvenimenti nella giusta luce, senza tuttavia disconoscere l’essenza di tali “vision”.
Giancarlo De Amicis
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