Il film inserito come “sorpresa” nella lista dei 22 in concorso, da quel raffinato sinologo ed intelligente cinefilo che è Marco Muller, “People Mountain People Sea” (titolo originale, “Ren shan ren hai”, che in italiano andrebbe tradotto all’incirca Mare di gente), di Cai Shangjun, ha sbancato ieri al Lido, con ovazioni convinte da parte della critica (che ne parla come del più probabile vincitore) e del pubblico, commosso di fronte al dramma di disperati minatori, riette ombre discese all’inferno, in una Cina che è paese orribile e senza diritti. Non è invece andata bene a “Quando la notte”, film sulla maternità difficile e su una unione fatta di dolore, diretto da Cristina Comencini, con la coppia (ora anche nella vita), Timi-Pandolfi, investito da fischi e sghignazzi nella proiezione per la stampa e con tiepida perplessità da parte del pubblico. La regista, che è anche co-autrice del romanzo da cui il film è tratto, dichiara che l’insuccesso si deve al fatto di aver messo mano all’intoccabile tabù della maternità, ma questo non ci convince dato che, lo stesso tema, è stato apprezzato, sempre ieri, in “Maternity Blues – Il Bene e il Male”, presentato con successo a “Controcampo”, opera prima dell’ex aiuto di Ospetek Fabrizio Cattani, con Andrea Osvart, Daniele Pecci, Monica Barladeanu e la semi-teramana Chiara Martegiani. “Quando la notte” è un film che racconta la storia di una donna, Claudia Pandolfi, appena diventata mamma, in preda ad una crisi post-parto, che si trova a trascorre un soggiorno in montagna, dove incontrerà una guida alpina, Filippo Timi, misogina e con un passato tormentato, a causa di una madre che l’ha abbandonato da piccolo, insieme al padre e ai due fratelli. Caratteristica tipica della struttura narrativa dell’opera di Cristina Comenicini, quella di intersecare in un continuo incontro-scontro il passato e le emozioni dei personaggi realizzando e compiendo la dinamica della storia in questa continua frizione. Qui invece questa soluzione si arena in un tratteggio dei personaggi che altro non è che una pura bozza psicologica, senza dinamica e con una drammaticità che riesce comica lì dove vuole essere triste. Insomma un film non riuscito, indipendentemente dal tema. Infatti, come dicevamo, lo stesso argomento, è stato accolto con emozione da critica e pubblico, che hanno molto amato “Martenity blues”, dalla piece “From Medea” di Grazia Verasani (rappresentato anche all’estero), ambientato in un ospedale psichiatrico giudiziario, dove vengono rinchiuse le madri che uccidono i propri figli, con quattro storie dolorose, che non sempre si aprono alla speranza. La Verasani nel parlare di madri omicide e’ partita da una frase di Schopenhauer: ”Siamo tutti un pozzo profondo quindi e’ inammissibile ogni tipo di giudizio sui dolori dell’anima” e questo pozzo profondo (più di quello di Democrito), è esplorato, nel film, con capacità e rigore, sensibilità ed intelligenza da Cattani. Tornando alla cronaca, il secondo film italiano in concorso non è stato ben accolto ed è stato vissuto come una pellicola che punta in alto, tra atmosfere montane, scene in penombra e tanti silenzi, ma che cade molto spesso nel ridicolo. Ci consoliamo (anche solo parzialmente), pensando che non tutto e perduto nella corsa ai “Leoni”, grazia a “Terraferma” e a “L’Ultimo terrestre” che deve ancora essere presentato. Sempre ieri Abel Ferrara ha presenziato alla proiezione del suo film sulla fine del mondo: “4:44 L’ultimo giorno sulla Terra”, che racconta l’attesa della distruzione totale vissuta in un appartamento di New York, dove una coppia (Willem Dafoe e Shanyn Leigh) aspetta la morte tra sesso, chiacchiere su skype, tg, liti e conti da chiudere. Mentre il cielo diventa verde smeraldo e poi è davvero la fine. Il film, in cui vi è il meglio ed il peggio di Ferrara, è stato applaudito, al solito, dalla critica, ma non dal pubblico, che ha invece gradito “Black Block”, titolo provocatorio di un documentario sui fatti del G8 di Genova, firmato da Carlo A. Bachshmidt ed inserito in “Controcampo”, con l’intenso ed anche scioccante filmato sulle violenze durante il il blitz notturno alla scuola Diaz e le torture alla caserma di Bolzaneto. Come dicevamo, comunque, la vera sorpresa di ieri è stato “People Mountain People Sea”, che essendo stato prodotto ad Hong Kong non è incorso nella severa censura cinese, un’agghiacciante denuncia della realtà di quella nazione, dove arretratezza e povertà, illegalità e ingiustizia, rivelano quanto ancora distante sia la Repubblica Popolare dagli standard di vita occidentali. Nonostante lo sviluppo economico poderoso che è goduto da pochi a scapito di molti, la Cina che qui si racconta, è fatta di orrori indicibili e condizioni davvero disumane, raccontate e descritte con una potenza che richiama Hugo e Dickens. La presentazione, funestata da una prima copia difettosa ed un’altra interrotta per l’esplosione in sala Darsena di una lampada a infrarossi), è piaciuta sia ai giornalisti che al pubblico, anche per l’atmosfera da thriller che si respira nell’epico sviluppo. L’antefatto è l’omicidio senza movente del giovane fratello del protagonista, Tie (Chen Jianbin), che innesca una inarrestabile voglia di vendetta. Per ritrovare l’assassino, Tie deve però attraversare mezzo paese, scoprendo come – dalla campagna alla città – non ci sia limite al degrado. Ultima tappa di questo on the road all’inferno è una miniera illegale del nord, dove si consuma ogni genere di sopruso. “A ogni location che incontravo – ha raccontato Cai Shangjun – cambiavo la sceneggiatura. Ma quando ho trovato la miniera ho saputo che è lì che sarebbe finito il mio film”. Immersa nell’oscurità, minacciosa, la miniera riveste chiaramente una valenza simbolica nel film. E’ l’abisso di una condizione disumana, e insieme il luogo di un impossibile riscatto. “Avevo previsto un finale in cui il protagonista portava tutti in salvo dall’esplosione della miniera – ha detto il regista – ma era troppo idealistico e sarebbe risuonato falso. Non credo invece che un uomo solo possa salvare tutti. Il mio Tie si limita a preservare la vita del più giovane, perché gli ricorda il figlio verso il quale non è mai riuscito ad essere un buon padre”. Va qui ricordato, solo ai più distratti, che la Cina era stata protagonista del Festival anche il 5 scorso, con il film “Tao Jie” (“A simple life”) della regista Ann Hui, che ha diretto finora più di venti lungometraggi ed è considerata una delle maggiori esponenti della new wave cinematografica di Hong Kong. Il film, anch’esso molto applaudito, è ispirato a fatti e persone reali. Al centro del film la storia di Chung Chun-Tao, che dopo la morte del padre adottivo diventa una ‘amah’, una serva, per la famiglia Leung, con cui condivide la vita quotidiana e la condividerà per oltre sessant’anni. “Mi sento molto fortunata –ha spiegato la regista- ad aver realizzato un film con tutti gli elementi che amo di più: storia vera, approccio documentaristico, taglio lirico, umorismo, pathos e attori improvvisati accanto a divi celebri”. Davvero troppo bravi questi cinesi per non temerli, con altri, come avversari indomiti nella ormai prossima distribuzione dei “Leoni”.
Carlo Di Stanislao
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