“Con la sua bellezza il mondo ci costringe continuamente a rispettare un canone rigoroso di acutezza percettiva: se non siamo noi a cercarla, è la bellezza che ci viene a cercare e ci scova.” In una città, la bellezza di un luogo esercita una spinta in favore della distributività. Questa si manifesta nel “problema della disattenzione laterale”, nella preoccupazione che sorge immancabilmente in seguito all’ammirazione della bellezza. Il fatto che “qualcosa nella nostra città riceva attenzione”, sembra implicare che “qualcos’altro non la riceva”; da ciò il moto di ribellione. C’era da aspettarselo: il recente articolo su “L’Aquila: rigenerazione di un polo di attrazione del centro storico”, apparso su il Capoluogo, ha suscitato, in tale direzione, varie reazioni da parte di alcuni cittadini (purtroppo pochi) che, all’ipotesi di una presunta città-laboratorio, rispondono che questa debba essere estesa all’intero centro storico e oltre. Sono bastate alcune scarne considerazioni sulla “spazialità di San Bernardino” e sulla “bellezza” come insostituibile ospite chiamata a rigenerare con la sua presenza la città e i cittadini, ad estendere l’attenzione su altri contesti del centro storico della nostra città. Ciò mette in risalto il valore coinvolgente della bellezza come spinta morale che ci permette di perseverare nello spostamento dal particolare al distributivo, dall’individuale all’universale. In riferimento agli apprezzamenti sul presunto valore architettonico della “De Amicis”, il primo commento all’articolo recita: “Ma ne vogliamo parlare delle case dell’ATER a ridosso di porta Leoni? Quelle invece possono rimanere, sono un esempio valido di architettura, vero?” Sulla denuncia della visione an-estetizzata della società civile e delle istituzioni aquilane di oggi nei riguardi del centro storico, appare particolarmente illuminante il secondo commento: “D’accordo sullo scarso valore storico-architettonico dell’immobile, d’accordo che sul “com’era dov’era” debbano essere fatti dei distinguo, d’accordo anche sulla “città laboratorio”, però il tutto va esteso, ad esempio, a tutti i palazzi che insistono sulla parte sud della cinta muraria. Perché la Lauretana, come i palazzi a sud di via XX Settembre e quelli della cinta muraria (dalla Villa a Villa Gioia), devono rimanere ed invece la De Amicis no? Perché gli architetti visionari, futuristici e pragmatici non propongono ex novo dei quartieri in queste zone, ripartendo dall’assetto urbanistico anteriore agli anni ‘50? Ridisegnamola veramente questa città!” I due commenti s’inseriscono perfettamente nella tematica della “disattenzione laterale”, di quella disattenzione verso cose che inizialmente non suscitano il nostro interesse e che affiora solo in una fase successiva. Tale disattenzione non è prova di debolezza, bensì di forza, perché nel momento in cui siamo assorbiti dal primo evento, siamo già pronti a rivolgerci al secondo. La struttura della percezione della bellezza urbana sembra infatti essere diadica: in un primo momento la nostra attenzione viene involontariamente catturata dalla cosa bella, dalla bella facciata di una chiesa, guardata dai gradini di un’imponente scalinata. Poi, questa qualità viene volontariamente estesa ad altre cose, fino a quel momento trascurate, per arrivare fino ai quartieri marginali e oltre. E’ come se le cose belle fossero state disseminate casualmente nella nostra città come tante piccole “sveglie” per la percezione, volte a far tornare ad un livello di massima lucidità l’attenzione sopita – di far uscire l’osservatore da uno stato di torpore, di an-estesia. Il tema di città-laboratorio, pur investendo il ridisegno dell’intera città, va collocato all’interno della dinamica della “disattenzione laterale” procedendo – ancor prima che dal centro storico percepito nella sua genericità – dalle sue coordinate principali, da uno spazio pubblico dalla forte carica simbolica e perciò di grande frequentazione e aggregazione sociale. E’stato già rilevato (Clementi e Piroddi) che la città, sin dalle origini ha mostrato chiaramente i segni di una struttura multipolare non sorretta da un centro “forte”. Al tempo dell’Unità il suo asse portante, il Corso, “si presentava ancora poco più che come un’angusta strada di provincia. Dall’epoca dell’apogeo non vi era più stata un’edilizia pubblica all’altezza di quella privata, culminata con la grande fioritura barocca.” La prima timida “vision” di spazio urbano moderno a L’Aquila appare nell’ultimo scorcio dell’ottocento, col rilancio del sistema cardo-decumanico. Nonostante i modesti risultati architettonici, l’allargamento del Corso, la dotazione del porticato e l’esaltazione dell’incrocio stradale (i Quattro Cantoni), conferiscono alla città un significativo spazio di vita sociale e un tono urbano che prima non aveva. Nei successivi interventi urbanistici la relazione tra disegno delle strade e forma della città edificata viene meno. Via XX Settembre e viale della Croce Rossa, i nuovi assi di sostegno dell’intera viabilità urbana, svolgeranno essenzialmente il ruolo di canali di traffico e di saldatura puntuale alla rete preesistente, senza che il costruito venga a strutturarsi in modo da conferire una spazialità urbana ai percorsi. Oggi il sistema cardo-decumanico della città, inteso come principale itinerario narrativo del paesaggio urbano, si configura ancora come un’opera incompiuta, soprattutto per la mancata risposta architettonica alle nodalità di Porta Napoli, di San Bernardino e di Piazza d’Armi, situate a compimento di tali itinerari. Parlare poi di progetto di spazio urbano lungo via XX Settembre e viale della Croce Rossa, ci porterebbe assai lontano, ben oltre i limiti delle presenti riflessioni.
Giancarlo De Amicis
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