Uscito dal carcere dopo aver scontato parecchi anni di detenzione, è subito rientrato praticamente nella stessa cella per avere commesso un altro furto.
Un ex detenuto dorme sotto un ponte coperto da un sacco a pelo, sopravvive chiedendo un euro di elemosina, perché non vuole rientrare da dove è appena uscito.
Un altro ancora mi dice che da giorni cerca disperatamente una sistemazione, un lavoro qualunque, una possibilità di ritornare a sentirsi un uomo libero davvero, e non solamente perché sono stati spalancati i blindati del carcere dove era rinchiuso.
E’ sufficiente avvicinare tante persone alla deriva, ascoltare uomini e donne in ginocchio, provare a dedicare qualche attimo di prossimità con ragazzi assai più vecchi della loro età per comprendere come la libertà riacquistata non sia quella terra promessa che avevano immaginato.
E’ una umanità dolente che vaga come un nomade senza una meta precisa, alla ricerca di qualcosa che pare non esserci, dove altre sono le priorità, le necessità impellenti non più procrastinabili, che pensare a chi è appena uscito da quel contenitore che non definisce mai cosa sia uscito dalle sue interiora.
Governi, ministri, politici, non fanno attenzione a questa indifferenza cui è costretto il panorama penitenziario italiano, tanto meno alle persone ristrette, a quelle che scontano la loro pena, alle altre che ritornano in seno al consorzio civile.
Al carcere è richiesto di risolvere tutte le contraddizioni sociali, ma egli stesso lo è: mentre molti dichiarano di considerare il carcere e la pena uno strumento ultimo, altrettanti varcano i suoi cancelli facendo divenire la prigione un buco nero, dove il sovraffollamento, indubbiamente patologia endemica all’Amministrazione Penitenziaria, miete coscienze, umanità, vittime, spesso si trasforma in un vero e proprio coperchio per nascondere assenze e mancanze tutte politiche, riconducibili a quella volontà politica che vorrebbe risolvere un vero e proprio annientamento psico-fisico con la messa in posa di nuova edilizia carceraria, centrata sul contenimento, sul mantenimento, sulla costruzione non troppo velata di una stessa dinamica incapacitante per drogati, extracomunitari, disperati-diseredati, e una moltitudine di malati psichici che dovrebbero essere trattati in strutture “doppia diagnosi”.
Un carcere di delinquenti, certamente sì, ma scomposto per le tante parole che nascondono una realtà feroce e debordante, quando le immagini ci sbattono in viso, e sono scatti rubati, colti all’improvviso, che sfuggono le censure, peccati culturali inconfessabili, ma che drammaticamente a volte trapelano, bucano le grate, i muri di cinta, travolgendo le indifferenze colpevoli.
Ciò non è solamente una violazione del pensare e progettare una giustizia più giusta perché equa per tutti, una società migliore perché onestamente convocata a partecipare a un progetto, una magistratura efficace perché posta nella condizione di incidere sulle priorità delle illegalità diffuse, una popolazione detenuta finalmente intesa di persone, mai più di soli numeri e cose da affidare a una pena svuotata della sua utilità.
Quell’uomo che dorme all’addiaccio, forse dovrebbe esser assunto come monito, più che come semplice miserabile da annoverare alla schiera dei reietti, affinché prevenzione e difesa sociale non impediscano l’unica garanzia a tutela della collettività, quella della risocializzazione e del reinserimento del condannato una volta espiata la pena.
Vincenzo Andraous
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