La Casa Bianca ha rifiutato di fornire dettagli sull’operazione che ha portato all’uccisione, ieri, dell’imam radicale americano-yemenita Anwar al-Awlaqi, leader di al Qaida in Yemen, ma le fonti dell’amministrazione hanno detto al Washington Post che la Cia non avrebbe ucciso un cittadino americano senza un’autorizzazione scritta del dipartimento alla Giustizia. E’ evidente, come nel caso dell’uccisione di Bin Laden, che l’America si sente sempre e comunque legittimata ad uccidere, secondo un’idea che è la sola a possedere i veri valori dell’autentica democrazia, da imporre, se occorra e indipendentemente dalla guida (in questa Obama non è diverso da Bush), anche con la forza. Fonti molto vicine alla Cia hanno detto che è un memorandum segreto che ha dato il via libera all’operazione e che questo è stato redatto dopo che i consiglieri giuridici della Casa Bianca hanno esaminato le implicazioni legali relative all’eliminazione mirata di un cittadino americano. Da parte dei giuristi non c’è stato alcun parere contrario riguardo alla legittimità dell’operazione stessa. Nel raid aereo sono rimaste uccise altre sei persone che si trovavano con al Awlaqi, tra cui un altro cittadino americano, di nome Samir Khan, che collaborava alla pubblicazione di Inspire, magazine in lingua inglese del gruppo terroristico Al Qaida nella Penisola Arabica. “L’America non potrà vincere la guerra contro il terrorismo – scrivevano nel 2002 Richard Asmus e Kenneth Pollack, già consigliere dell’amministrazione Clinton – se non attribuendo un ruolo centrale ai valori e ai principi del mondo occidentale”. Ciò giustifica l’idea che quelle attuali, in Afganistan e, per molti versi, ancora in Iraq, siano delle “guerre democratiche” contro le idee totalitarie che i “terroristi” vogliono sparpagliare per il mondo. Michael Tomasky, editorialista del New York Magazine, sostiene che questo non significa rincorrere la destra sul suo stesso terreno, ma “adattarsi al mondo così com’è”. La parentela evidente, anche se sdegnosamente rifiutata, degli argomenti per metà realistici e per l’altra metà idealistici dei neoliberali (fra cui Clinton prima e Obama ora) con quelli dei neoconservatori, la si può leggere nel manifesto “Per cosa combattiamo” dell’Istituto per i Valori Americani, sottoscritto nel 2002 da sessanta intellettuali, tra cui Samuel Huntigton, Francis Fukuyama e Michael Walzer. Qui i “valori americani” non appartengono solo agli Stati uniti, ma rappresentano l’eredità condivisa dell’umanità e quindi la speranza per una comunità mondiale basata sulla convivenza pacifica. Una legge naturale rivendicata anche da sinistra, ha commentato maliziosamente il neoconservatore Robert Kagan, quando si è trattato di bombardare la Jugoslavia, il Sudan o l’Iraq durante l’amministrazione Clinton. Il dibattito sulla guerra per la democrazia non tocca quindi soltanto la destra, ma scuote profondamente la sinistra americana, sino al punto che i neoliberali arrivano ad usarne gli stessi argomenti interventisti. Nel libro di Paul Berman, Terrore e liberalismo. Perché la guerra al fondamentalismo è una guerra antifascista (Einaudi, pp. 252, € 13,50), la guerra al terrorismo in nome dei valori democratici diventa una guerra contro il fascismo, rappresentato in Medioriente dal partito Baath in Iraq e in Siria e dal regime khomeinista iraniano. L’equazione fondamentalista islamico=fascista allude all’idea di un soggetto “nemico della civiltà” da rinchiudere a Guantanamo o da uccidere a Falluja e si rispecchia perfettamente nella dottrina della National Security di Bush (sarebbe comunque interessante sapere l’opinione di Berman sulle torture praticate da soldati americani nella prigione irachena di Abu Ghraib, visto che hanno provocato reazioni negative nella destra neconservatotrice, ma sopratutto nell’opinione pubblica liberal che pure aveva appoggiato la reazione militare americana dopo l’11 settembre). Il padre nobile del liberalismo americano, John Rawls, ha scritto pagine alquanto sorprendenti, ma utili per capire la natura della questione. Nel volume Il diritto dei popoli (Edizioni di Comunità 2001), egli ha compiuto una distinzione, a dir poco problematica, tra “popoli liberali”, occidentali, e “popoli non liberali”, o “indecenti”, in particolar modo mediorientali, che non riconoscono i diritti fondamentali dell’individuo. In definitiva, tanto per Bush che per Obama, la garanzia militare dell’universalismo dei diritti umani, coincide con l’eversione del diritto internazionale e l’imposizione di uno stato di eccezione permanente globale. Una soluzione che ricorda quella del despota di Montesquieu il quale, desiderando mangiare una mela (sconfiggere il terrorismo) decise di abbattere l’intero albero (la giustizia internazionale). Ma, come disse un famoso presidente americano ad un suo ospite: “Tu pensi che sia io a comandare qui? Ti sbagli, chi comanda è colui che prepara ogni giorno la mia agenda e mi spiega chi sto per incontrare e cosa devo dire”. E pertanto è lo staff che delinea la condotta di un presidente e anche se cambiano gli staff, politici ed esperti americani sono sempre concentrati sull’idea che esistono frontiere e nemici, come al tempo del Far West. Ora, scrive Alessandro Marrone che di America è un vero esperto, gli staffers di Obama preparano briefing su una moltitudine di questioni, dalla guerra in Afghanistan alla riforma sanitaria, di cui non necessariamente hanno una buona conoscenza tecnica. Ciò accade anche nei paesi europei, ma dato il ruolo unico degli Stati Uniti nel sistema internazionale gli effetti a cascata di un voto del Congresso americano sono molto maggiori di quelli di qualsiasi altro parlamento – basti pensare a cosa avrebbe significato per l’Europa il rigetto da parte del Senato del trattato di controllo degli armamenti nucleari firmato da Stati Uniti e Russia nel 2010. Nei pub come Hawk&Dove o nei ristoranti stile Good Stuff Eatery dove si ritrova chi bazzica la politica di Capitol Hill, scherzando si dice che i cittadini americani si preoccuperebbero molto se sapessero di essere guidati da una banda di ventenni freschi di college che la notte fanno tardi nei locali di Dupont Circle. Anche i cittadini europei se ne preoccuperebbero, forse. Per giustificare la loro idea aggressiva e totalitaria di democrazia, gli statunitensi hanno fatto proprio il mito della volontà generale espressione della maggioranza, senza tener in nessun conto, che sarebbe più corretto affermare che, attraverso il mito della volontà generale: gli individui non contano per nulla mentre i capi (vale a dire, l’élite militare, l’élite politica, l’élite economica, ecc.) contano per tutti. La forza del numero (dominio della maggioranza elettorale) si trasforma nel diritto dei pochi (dominio della minoranza reale), di imporre decisioni di largo raggio a tutti i cittadini e poi, a tutto il mondo. A questo proposito, non è forse inutile ricordare che, in passato, Socrate e Gesù Cristo, ad esempio, sono stati condannati a morte dal volere della maggioranza o da rappresentanti della maggioranza. In tempi più recenti, maggioranze schiaccianti hanno dato il loro appoggio al fascismo, al nazional socialismo e al comunismo (per riferirci solo ai casi più noti) o sono state complici, in maniera più o meno compiacente, delle atrocità perpetrate dai governanti statali in nome della maggioranza? Nel corso della storia, ogni qualvolta poteri esclusivi ed estensivi sono stati conferiti a qualcuno, fosse esso un singolo o una organizzazione, sulla base di una qualsiasi giustificazione, fosse essa la volontà di Dio o la volontà generale, crimini e misfatti ne sono seguiti, quasi inevitabilmente. E sarebbe utile che gli USA riflettessero su questo. Nicola Casale, recentississamente, ci ha detto che questa idea della esportazione o erogazione violenta, oligarchica ed unilaterale della democrazia, è il frutto del neo-liberismo economico che, in fondo, fonda e permea la cultura americana. Secondo questo studioso, il meccanismo del credito, affermatosi nella seconda metà del ‘900 per strozzare i paesi de-colonizzati, si è esteso in modo inarrestabile a tutte le attività di sussistenza anche delle classi già sfruttate dell’Occidente, costrette per compensare i salari decrescenti a ipotecare il proprio futuro prendendo a prestito. Il sogno di ogni speculatore è di diffondere ovunque questo meccanismo usuraio ed è, in fondo, il sogno di base degli Stati Uniti. Di arrivare a prestare a credito ai milioni di arabi e africani, su cui lo stato locale esercita ancora il monopolio del credito interno, e, sogno dei sogni, il miliardo e mezzo di cinesi, cui uno stato “illiberale” impedisce di delibare l’ebbrezza di sottoscrivere prestiti direttamente con le banche occidentali’appoggio delle potenze occidentali alle rivolte democratiche in Nord-Africa contiene questa segreta speranza. Il loro target prediletto sono i giovani acculturati che abbiano il “coraggio” e la “predisposizione” a investire su “sé stessi” e cercano di sedurli con l’idea che la democrazia simil-occidentale sia il regno delle opportunità e del merito, che per affermarsi avrebbe bisogno solo di oculati finanziatori, sorvolando sul fatto che si tratta di gente che per i propri interessi di classe è disposta a strangolare i debitori. Prendere la Libia a mano armata serve, tra le altre cose, anche a impedire che le rivolte possano favorire un tentativo di sviluppo economico a base regionale, finanziato da capitali libici, allo stesso modo di come cerca di fare Chavez con alcuni paesi del Sud America (Gheddafi, con tutte le “stranezze” e infamie che gli si possono addebitare, il tentativo lo avrebbe molto probabilmente messo in atto, considerando l’impegno degli ultimi anni per un’unione politica, economica e monetaria dell’Africa). Ora si può rubare il tesoretto petrolifero e finanziario libico, offrire ai libici l’emozionante libertà di avere crediti dalle banche euro-americane, dopo averli liberati del paternalismo statale che li riforniva di tutto (o quasi), e, soprattutto, tornare alla carica con i giovani egiziani, tunisini, ecc. La sinistra democratica americana con Obama, in ambito economico e, per quanto detto, politico, sta sviluppando strategie basate su due capisaldi: a) salvare il capitale fittizio addossandone il costo sul debito pubblico, costringendo “ceti medi” e lavoratori a pagarne il prezzo con tagli al salario differito (pensioni, sanità, ecc.); b) “creare le condizioni per un ritorno all’investimento produttivo”, ossia aumentare l’estrazione di plusvalore, riducendo le resistenze individuali e collettive allo sfruttamento. E, per evitare una sorta di “macelleria sociale”, si avanzano a sinistra alcune soluzioni che ruotano attorno alla riedizione del keynesismo o del mitico new deal. Le ricette si presentano come realistiche, pragmatiche, ecc. e miranti a salvare capra (capitalismo) e cavoli (lavoratori e “benessere diffuso”); ma, ce lo dicono i sondaggi, nonostante l’appoggio di imprenditori come Buffet, un americano su due non è convinto che sia la giusta soluzione. Così, anche se nella politica estera e nella idea di “esportazione della democrazia” non vi è differenza fra Obama e Bush, l’America ricca e che conta è dalla parte contraria alla rielezione del presidente e refluisce verso la reazionarietà preoccupante dei Tea Party. Ed infatti, molti miliardari e diversi strateghi del partito repubblicano fanno il tifo per il popolare e quantomeno sovrappeso governatore del New Jersey, Chris Christie, affinché scenda in gara per le elezioni presidenziali del 2012 ed una ricerca condotta dal Rasmussen Reports National, pubblicata oggi, mostra che il 43 per cento degli elettori interpellati lo voterebbero, mentre quelli che intendono votare per Obama sono attualmente il 44 per cento ed i sondaggi mostrano una sua continua discesa. Fra i sostenitori di Chistrie, Kenneth Langone, il miliardario di origini italiane che ha fondato Home Depot, una catena di mega supermercati specializzati in articoli per la casa e la ferramenta e Paul Singer, magnate degli hedge fund e David Koch, gia’ da tempo segnalato come un grande sovvenzionatore dei Tea Party in tutto il Paese, considerato da Forbes l’uomo piu’ ricco di New York. E, si sa, in America vince chi ha più capitale. Al’indomani della’11 settembre 2001, l’opinione dominante era che il futuro sarebbe stato contrassegnato da tre elementi: gli Usa avrebbero riaffermato la propria posizione di leadership mondiale; la sicurezza dell’Occidente sarebbe stata definita da una lunga guerra contro gli estremisti islamici; e il Medio Oriente sarebbe stato ridisegnato a immagine e somiglianza della democrazia occidentale. Dieci anni più tardi, il declino del potere americano è sotto gli occhi di tutti (nel 2001 si pensava che la Cina avrebbe sorpassato l’economia Usa nel 2050, oggi si pensa che succederà nel 2020 – se non prima); la guerra santa islamica è ancora un problema, ma è ormai chiaro che non rappresenta una minaccia esistenziale per la sicurezza dell’Occidente; e in Medio Oriente si sente sì parlare di democrazia, ma non sotto la spinta di bombardamenti americani bensì sotto quella di una rivoluzione popolare dal basso, il cui esito non sarà necessariamente quello di una democrazia a immagine e somiglianza dell’Occidente. Così ora i tecnici USA e gli staffers presidenziali pensano di usare il pugno duro e si preparano per un reflusso conservatore in campo tanto politico che economico. Anche perché è sempre più evidente che, anche l’ l’elettorato ebraico che lo ha sostenuto, si sta allontanando da lui, in vista delle elezioni del novembre prossimo. Parlando con la “Pravda”, a cui ha regalato l’intervista di compleanno, in cambio di una copia del 4 agosto 1961 con le trattative Krushiov-Fanfani in prima pagina, Obama ha fatto il bilancio del suo primo mezzo secolo: i fatti più importanti della sua vita sono stati il matrimonio e la nascita delle figlie; quelli più importanti per il mondo, invece, la fine della Guerra fredda, l’uguaglianza razziale negli Usa, la liberazione di Mandela, la primavera araba e Internet. Desideri per il futuro: più pace e crescita economica. Ma il politologo conservatore Maichael Barone ha commentato: “Era stato eletto promettendo il cambiamento, ma i risultati sono quelli che abbiamo davanti: un aumento delle dimensioni e degli scopi dello stato, che non ha risolto i nostri problemi economici”. E anche i suoi elettori sono delusi e potrebbero abbracciare un terzo partito, se solo ci fosse una personalità come Ross Perot in grado di affascinarli. Il problema, ora, è di recuperare terreno con l’attuazione della democrazia forte fuori e con il recupero dell’economia all’interno. L’Amministrazione americana ha dovuto risolversi alla proposta di maximanovra. Ma con il Congresso attuale per metà controllato dai repubblicani dopo le elezioni di midterm si tratta di pura propaganda, perché non essendo stata concordata preventivamente con il Grand Old Party non ha nessuna possibilità di essere approvata. Ma ha dovuto farlo comunque. Da una parte, è ovvio, per uscire dall’angolo della caduta verticale nei sondaggi d’opinione, suffragata da ogni voto suppletivo per seggi vacanti al Congresso. Così continuando, Obama non avrebbe solo confermato la pietra tombale sulla sua presidenza, attualmente già posata nel giudizio maggioritario degli americani. Avrebbe matematicamente impedito qualunque chanche per chiunque altro si fosse candidato a nome dei democratici.Per questo, a un mese dal sanguinoso downgrading del debito pubblico americano, Obama ha dovuto ammettere – sia pure implicitamente – la propria responsabilità storica. E lo ha fatto solo in parte. La sua manovra decennale, a regime taglierebbe il deficit di 4mila miliardi di dollari. Eppure non bastano neanche questi a sanare quel che Obama ha fatto. Gli Stati Uniti hanno impiegato la bellezza di 232 anni dalla nascita per accumulare 10mila miliardi di dollari dei debito federale. Ma sono bastati i tre anni di Obama per farlo crescere del 45%, con 4,5 trilioni di dollari aggiuntivi. Ora, dalla parte di Obama, si schiera il multimiliardario Warren Buffet, che chiede ai colleghi fondi per sostenere Obama nelle nuove elezioni, fra 13 mesi. E si schierano gli investitori cinesi con grandi interessi in USA, a cui risponde grata Michelle Obama che punta a mandare centomila giovani, con Borse di studio finanziate da Citigroup, Motorola, Caterpillar a studiare in Cina. Ma non credo che questo sia sufficiente a garantire, per Obama, una rielezione in un Paese certamente accogliente ed interculturale, ma che poi pratica una strana democrazia.
Carlo Di Stanislao
Lascia un commento