<<Sono arrabbiato. Stiamo parlando di mafia, di qualcosa di enorme, tra queste persone c’è Giuseppe Impastato, fratello di Peppino Impastato e siamo soltanto in trenta. Dov’è la stampa? Dove le televisioni? Parliamo di criminalità organizzata in una città distrutta che vive della criminalità organizzata e siamo soltanto in trenta. Questa città ha bisogno di crescere>>.
Parole piene di astio e rancore quelle di Carlo Maria Marchi, coordinatore dell’area pedagogica penitenziaria, una vita trascorsa nel doversi confrontare, faccia a faccia, con i più efferati protagonisti della criminalità organizzata, un lavoro che lo ha costretto a sopportare sulle spalle il peso di intimidazioni, coercizioni, ritorsioni effettuate ai danni delle vittime delle mafie e vissute in prima persona. Ha pronunciato ieri sera queste parole in occasione dell’apertura della rassegna “Antenne di memoria. Cultura della resistenza e strumenti di sopravvivenza” organizzata dal Comitato territoriale ARCI L’Aquila, dal circolo Querencia e da Artisti Aquilani Onlus.
La manifestazione, che vede la partecipazione di Teatro Atlante, Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato e Museo della ‘Ndrangheta, si compone di conferenze, convegni e spettacoli teatrali con l’obiettivo comune di riflettere sul tema della legalità, di trasmettere valori democratici, di combattere la connivenza a qualsiasi forma di criminalità. E’ necessario relazionarsi a temi così scomodi, far luce sulle mafie e le nuove forme di mafiosità, per uscire da una condizione di colpevole indifferenza e silenzio ed assumersi il diritto-dovere di una partecipazione attiva, propulsiva nel rispetto della legalità, attenta nel denunciare buchi nella legislazione, appetibili sacche ove si insediano corruttori e corrotti.
La contestualizzazione dell’evento a L’Aquila è manifestazione della volontà di pochi di denunciare un sistema di corruzione che non si vuol riconoscere ma che dopo il terremoto è evidente agli occhi di tutti. Potremmo chiamarla in maniera generica massoneria: non ha nome perché la si vuol continuare a negare.
Il titolo del progetto “Antenne di memoria” affonda il suo significato nella storia del cratere: la tragedia è accaduta, il minimo che possiamo fare è pretendere giustizia, trarre dalla rabbia la volontà di reagire, di monitorare il processo di ricostruzione, memori di quelle vite perite sotto le macerie di edifici costruiti non rispettando le norme.
L’incontro di ieri sera, tramite la presentazione del libro di Corrado De Rosa “I Medici della Camorra”, ha voluto aprire prospettive poco conosciute su forme pericolosissime di “mafia dei colletti bianchi”, che entrano vischiosamente nelle procedure giudiziarie, determinandone gli esiti: le perizie psichiatriche, strumenti di ausilio all’esercizio della magistratura, possono essere il passepartout dei camorristi per evitare il carcere e usufruire di benefici di vario genere e un’arma da puntare contro i collaboratori di giustizia per delegittimarne la testimonianza.
Se lo psichiatra lavora per togliere al paziente l’etichetta di “folle” accompagnandolo in un tortuoso e doloroso percorso che lo conduca ad una condizione di benessere psicofisico e ad un sereno e costruttivo reinserimento nella società, il camorrista l’etichetta di folle la vuole. La perizia viene richiesta nel caso in cui si ha motivo di sospettare sulla capacità di intendere e volere dell’imputato, sulla capacità di presenziare al giudizio, sulle condizioni di salute non adatte al carcere: l’ accertamento di disturbi psichici che avvallino tali sospetti determina, rispettivamente, il decadere della pena, la sospensione del processo, l’esonero dal carcere. Si capisce, dunque, come la “follia” sia uno strumento di comodo per manipolare i processi giudiziari.
Il libro ricostruisce nel dettaglio casi di lucidissimi “pazzi” della storia criminale: dal caso Cutolo, fondatore della Nuova Camorra Organizzata, che si sottopone a undici valutazioni peritali, fingendo il delirio con il supporto compiacente di alcuni psichiatri, alla lista, in continuo aggiornamento, di “anoressici”, i fratelli Francesco e Walter Schiavone, Nunzio De Falco, Enrico Verde che per le condizioni di deperimento organico ottengono l’incompatibilità carceria. Agghiacciante la fine di Aldo Semerari, il criminologo al quale il padrino Umberto Ammaturo tagliò la testa in mezzo alle bestie di un macello perché lo psichiatra aveva favorito, con un giudizio truccato, un affiliato del clan avversario. Molteplici le storie documentate per inquadrare gli impensabili risvolti di manipolazioni che giocano nell’ambiguità del concetto di follia, non diagnosticabile tramite TAC o esami del sangue, strumenti di fronte ai quali non è possibile sfuggire all’evidenza : lo studio da parte degli affiliati alla camorra dei disturbi psichici per poterli simulare, i certificati contraffatti, le perizie compiacenti, l’utilizzo strumentale del disagio psichico per aver accesso a quelli che si chiamavano manicomi giudiziari, la strumentalizzazione della sofferenza psicologica per screditare le dichiarazioni dei pentiti e dei testimoni di giustizia.
Ma “I Medici della Camorra” non si ferma a smascherare i volti dei collusi all’interno di un’istituzione, quella sanitaria, che sembra aver apparentemente poco a che fare con la criminalità organizzata; De Rosa denuncia un vuoto normativo, fertile terreno dell’illegalità, che rende inefficace e talvolta persino dannoso l’operato degli psichiatri forensi. Cosa si dovrebbe fare per evitare che uno psichiatra venga coinvolto nella strumentalizzazione delle perizie psichiatriche da parte della criminalità organizzata? Diversi i provvedimenti da intraprendere; secondo De Rosa è necessaria un’assunzione di responsabilità degli organi professionali tramite un richiamo alle regole deontologiche: chi svolge consulenze per gli uffici pubblici non può svolgerlo nei confronti di privati; l’inserimento dei professionisti nell’albo dei tribunali non può prevedere soltanto il semplice pagamento di una tassa annuale, ma deve mirare ad un’adeguata preparazione sul campo, in modo che gli psichiatri forensi siano preparati a smascherare le più studiate e calcolate simulazioni di patologie.
Emerge chiaramente nel libro che non si può pretendere di sconfiggere la mafia delegando tutta la responsabilità alla magistratura e alle forze dell’ordine; occorre vigilare su i tanti ambienti di lavoro, apparentemente estranei alla lotta contro la criminalità, sui quali la mafia allunga facilmente i suoi tentacoli.
Elisa Giandomenico
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