“Com’è possibile mi domando a volte, camminare sui prati verdi ed essere tristi? Essere immersi nel caldo del sole e, mentre tutto intorno sorride, avere l’angoscia nel cuore? Lasciate a noi le vostre tristezze, a noi che non possiamo andare sui prati e non vediamo mai il sole!”: termina così il film “La Pecora Nera” (2010), favola triste ambientata in un manicomio, presentata alla 67° edizione della Mostra del Cinema di Venezia, che ha segnato il debutto sul grande di Ascanio Celestini e quello di Alberto Paolini, ex degente del Santa Maria della Pietà di Roma, autore e voce di questi versi struggenti. 78 anni, lo sguardo fisso sotto l’inseparabile berretto calcato in testa, dal temperamento mite e il passo incerto, nel lungometraggio interpreta Alberto, uno dei pazienti dell’ospedale psichiatrico. Il monologo finale è una delle tante poesie scritte negli anni della sua degenza, che tanto hanno influenzato la pellicola del cantastorie romano.
“Il manicomio? – ricorda Paolini – Una follia. Sono entrato il 20 marzo del 1948, appena quindicenne. Ero solo un orfano”. Un’esperienza da subito shockante per Alberto, come lo erano le terapie all’epoca utilizzate per curare il disagio mentale nelle istituzioni totali, che hanno scritto una delle pagine più buie ed aberranti della storia della psichiatria. “Il primo elettroshock – rammenta – l’ho subito a 16 anni. L’aveva inventato da poco Ugo Cerletti. Si perde conoscenza, a volte si entra in coma, una condizione penosa. Temevo volessero cambiare la mia mente, la mia personalità”. Poi la camera di contenzione, i trattamenti con la Clorpromazina, gli psicofarmaci, il regime di segregazione nei reparti, veri e propri gironi danteschi. “La distribuzione non era per patologie ma per comportamento. Per molti anni sono stato nel padiglione 12, riservato ai pericolosi. Ci finiva chi cercava di scappare o aveva sospette tendenze suicide. Poi c’era quello degli agitati, dei tranquilli, dei sudici”.
La legge Basaglia cambiò la sua vita. Nel 1990 lasciò il frenocomio, chiuso definitivamente nove anni dopo, per andare a vivere con altri pazienti, “a 5 minuti di autobus dal Santa Maria della Pietà”, racconta, in una casa famiglia donata dallo I.A.C.P. alla Asl locale. “Affrontare la realtà spaventa. E’ stato come atterrare su un pianeta sconosciuto a cui bisognava adattarsi”, ricorda Alberto. L’arrivo nel palazzo non fu facile. Tante le riunioni fatte con i condomini prima del trasferimento. “La società del tempo li considerava soggetti pericolosi”, spiega Adriano Pallotta, ex infermiere del nosocomio, che all’epoca seguì la delicata fase di transizione e di inserimento nei nuovi alloggi. Oggi la locazione dell’appartamento è stata affidata completamente ad Alberto ed ai suoi coinquilini; tutti percepiscono una piccola pensione d’invalidità civile ed un sussidio erogato dall’azienda sanitaria. Sono autosufficienti, anche se supportati dal Dipartimento di salute mentale di zona. “Pure qui non siamo liberi, ancora siamo controllati”, precisa l’anziano. “Un tipo come Paolini, con capacità enormi – spiega Pallotta che oggi presta servizio come volontario – vorrebbe sentirsi indipendente, ma il sostegno aiuta nelle difficoltà”.
Alberto continua a scrivere sull’orrore di quegli anni. Nel 1993 ha curato un capitolo sull’elettroshock proprio sul libro di Adriano Pallotta “Scena da un manicomio” (Edizioni Scientifiche Magi -1998). Insieme viaggiano nelle scuole di tutta Italia per raccontare il dramma vissuto nell’istituto psichiatrico. Nel 2004 l’incontro con Ascanio Celestini. Il resto è storia. “Collaborare con lui – assicura il regista – è stato fondamentale. M’interessava narrare una vicenda che generalmente rischia di restare una questione privata o un problema scientifico”. “Stare sul set – replica Alberto – è stato emozionante. E che ne sapevo di come si faceva un film! Al Santa Maria della Pietà ci torno quando ho tempo. Ogni angolo mi ricorda una parte importante della mia vita, impossibile da dimenticare, che nonostante tutto continuo a portarmi dentro”.
Loredana Menghi
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