La massiccia esperienza migratoria degli aquilani – dalle case alle tende, dalla città monocentrica agli alberghi della costa, dai quartieri in muratura e in cemento armato a quelli in legno – forse non è stata sufficiente per capire che “il cammino si fa camminando”, che quello fatto finora non è stato del tutto buono; forse è tempo di cercare vie diverse. Ad ogni cammino va sempre associata la presa di coscienza di sé e della propria evoluzione, conseguente a tale cammino. In particolare dobbiamo saperci educare – gli uni con gli altri – a sapere che non elimineremo l’incertezza e il senso di transitorietà dalle nostre vite, ma che tuttavia possiamo riconoscerne le potenzialità generative, i segni di possibili nuovi inizi in atto. Dalla vita ci aspettiamo eventi probabili e invece ci arriva l’improbabile, l’inatteso. Un concetto questo che, nonostante sia di antica riflessione – risale addirittura ad Euripide – ancora oggi non riusciamo a farlo nostro. Di fronte all’improbabile rimaniamo sbigottiti, angosciati, spesso paralizzati, pur riconoscendo che non sempre si realizzano le cose che hanno maggiori probabilità; spesso succedono cose improbabili. Alla comunità aquilana, placidamente ormeggiata ad una “idea di città” e ad una vita sociale incentrata sui “Quattro Cantoni”, il sisma si è configurato come fatale espressione dell’inatteso. Il policentrismo forzato che ne è conseguito, la diaspora a cui è stata costretta la comunità e il conseguente oscuramento della identità collettiva, sono incarnazione dell’inatteso, spinta verso vie inconsuete da quelle già percorse, un segno improbabile di possibili nuovi inizi: la mutazione di una società meticolosamente rannicchiata nel paradigma del passato. In questa prospettiva il policentrismo, figlio indesiderato del 6 aprile, va riconosciuto quale segno di probabili nuovi albori per la città e per i cittadini, un principio che nelle politiche comunitarie europee è venuto già conquistando spazi crescenti. Per l’Europa, infatti, il policentrismo è una forma di eco-centrismo, un modello capace di mettere in relazione reti di impresa e poli di innovazione, di farsi strumento di equilibrio tra la concentrazione urbana e l’organizzazione in rete delle città, e di ancorare la crescita urbana alla conservazione degli spazi aperti. La sua portata culturale trova dimora nel superamento del concetto di “polo” concepito come universo chiuso, su cui tradizionalmente sono state costruite le esistenze di molte collettività. Tale superamento si attua trasferendo l’attenzione alla scala di “corridoio”, inteso come spina dorsale di poli, metafora dell’asse attrezzato o del corso delle città storiche. E’ su simili principi che è nata la strategia dei dieci corridoi europei, vie di comunicazione dell’Europa centrale e orientale, la cui costruzione è stata ritenuta strategica dalla Conferenza Pan-Europea. E’ a questa visione, a questa piattaforma territoriale che va ricondotto il forzato policentrismo aquilano del dopo-sisma, inteso non come cammino indirizzato alla frammentazione, ma come rivelazione di una nuova forma di pensiero che coinvolge tanto l’organizzazione territoriale, quanto quella sociale ed economica. La ricerca di scavo culturale e di riflessione deve pertanto essere eseguita in una prospettiva strabica, atta a riconoscere le potenzialità dei luoghi dell’identità e del loro sottofondo di memoria, ma a scommettere anche sull’improbabile, a gestire le potenzialità rigenerative emergenti dall’incertezza di oggi: un cammino necessario per transitare dalla statica e implosa visione di polo alla dinamica e inclusiva visione di corridoio, “condominium” di più polarità collaboranti.
Giancarlo De Amicis
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