L’Aquila, un giornalista in versi: Oliviero Beha, vincitore del Premio Bonanni

Passeggia anche lui lungo Corso Vittorio Emanuele come uno dei tanti turisti del post- L’Aquila, della realtà del dopo, non del “qui ed ora” che ci assale. Vestito elegante, cappotto rosso, occhiali da sole e un volto che in pochi ignorano. Il volto del giornalismo di altri tempi, ma con le mani impastate nella calce […]

Passeggia anche lui lungo Corso Vittorio Emanuele come uno dei tanti turisti del post- L’Aquila, della realtà del dopo, non del “qui ed ora” che ci assale. Vestito elegante, cappotto rosso, occhiali da sole e un volto che in pochi ignorano. Il volto del giornalismo di altri tempi, ma con le mani impastate nella calce del presente, nell’era dell’Italia berlusconiana.

Parlare con Oliviero Beha, vincitore della decima edizione del Premio Laudomia Bonanni (Sezione A per poesia edita) con “Meteko”, è come parlare con un giornalista che l’Italia della guerra e del dopoguerra l’ha vista, anche se è nato solo nel ’49, e non sa cosa voglia dire essere “giornalisti impiegati”.
Oliviero Beha è un giornalista di carta stampata, radio e tv e autore teatrale e poeta. Editorialista de “Il fatto quotidiano”, oggi collabora con il Tg3 come commentatore e realizza programmi per la Rai. Ha scritto molto questa penna che abbiamo incontrato nella città delle macerie. Tra i suoi libri più recenti figurano saggi come “Crescete & prostituitevi” (2005), “Italiopoli” (2007), “Il paziente italiano” (2008), “I nuovi mostri” (2009), “Dopo di lui il diluvio” (2010) e il romanzo “Eros terminal” (2009). Oliviero Beha non è un turista ma un ospite speciale per cui ha avuto anche “l’onore” di visitare la zona rossa, il centro della città e del dolore aquilano. La distruzione che lo stupore degli occhi del giornalista ha registrato ha pochi eguali nella storia d’Italia. Uno di questi è sicuramente l’Italia post bellica, colpita nel luogo e nella vita.

Oliviero Beha è cresciuto negli anni della ricostruzione storica della nazione, quando quel termine si ricollegava alla rifondazione “dei valori morali su cui edificare un paese nuovo”, scrive Beha in uno dei suoi libri “Crescete e prostituitevi”.

Oggi la parola ricostruzione, la più usata/abusata nella recente storia aquilana, ha assunto un’ accezione negativa perchè rimanda all’immobilismo burocratico ed istituzionale, oltre che sociale che sta bloccando un’intera città. Come può oggi l’Italia e ancora di più l’Aquila tornare a concepire la ricostruzione in termini positivi?

Questo è un problema serio per l’Aquila, ma è un problema estensibile a tutta l’Italia. Come fanno gli italiani a dare segnali di risveglio e di nuova vita comune? Ricette non ce ne sono. Diciamo che ci sono vari segnali di risveglio, qualcuno più o meno chiaro, qualcuno più o meno rischioso per l’ordine pubblico, mi riferiscono alla manifestazione del 15 ottobre. Certamente il paese non ce la fa più. Non ce la fa più l’Aquila, non ce la fa piu l’Italia. Il problema è che esiste un gruppo abbastanza ristretto di Happy Few, di ricchi e potenti che banchettano e campeggiano su queste rovine e ciò è tremendo.

Lei ha definito il terremoto dell’Aquila “una tragedia in parte annunciata e poi una serie di vergogne”. Quali sono stati i segnali della tragedia e quali le vergogne?

Con ciò che era annunciato mi riferisco ai criteri antisismici che in questo paese non sono mai stati messi in funzione per legge, oltre a tutto quello che specificamente sta emergendo dalle inchieste giudiziarie. Il confronto da fare viene con il Giappone, in cui la situazione è drammatica ma è resa meno drammatica dai criteri antisismici delle costruzioni, dove c’è una legge di 50 anni fa, mentre  noi siamo ancora qui a penare con la Commissione Grandi Rischi e i postumi di Bertolaso.

Le vergogne sono i ritardi, la mancanza di sensibilità, le promesse non mantenute. La responsabilità l’accerta la magistratura ma le responsabilità socio-politiche, quelle non le accerta la magistratura quello è un problema di etica pubblica. Tuttavia l’etica pubblica non passa per le aule di tribunale. Nelle aule di tribunale c’è la legge, ma questa è un esigenza che rende costruibile una sorta di etica pubblica. L’etica pubblica è influenzata se uno poi cambia la legge, ad esempio il falso in bilancio, che non è reato perchè è stato depenalizzato. Come si dice: “passata la legge gabbato l’italiano”.

L’aquila come metafora dell’Italia in macerie che non ce la fa più è l’impressione che ha un aquilano guardando l’Italia. Come vede invece la società italiana L’Aquila?

Dopo il terremoto gli aquilani hanno dimostrato di avere grande resistenza e di essere l’Italia migliore, quella del secondo dopo guerra che ricostruisce le cose perchè ha bisogno di farlo e perchè non ha piu niente. Tutte le certezze saltano in una notte sola.

Successivamente sono stati mandati mille segnali di non poterne piu qui (L’Aquila, ndr) e a Roma nelle varie manifestazioni.

Qual’è la risposta della domanda e qual’è la risposta a questa richiesta di aiuto o per lo meno di questa questione serissima del terremoto? La risposta della politica nazionale è insufficiente.

La risposta della sensibilità comune italiana nei confronti dell’Aquila è legata ad un mio timore, cioè che gli italiani si siano abituati a vedere l’Aquila così.

“Ha una tale sfiducia per il futuro che fa i suoi progetti per il passato”. Così scriveva Ennio Flaiano in Diario notturno”. Di fronte alla idea incerta, precaria, forse inesistente di futuro. Lei è d’accordo con Flaiano?

C’è sempre qualcosa di peggio. Dice il poeta che l’allegria non è mai stupida, e io sono convinto che il poeta abbia ragione. Per tirarci un pò su di morale basta pensare a cosa fa Path Adams con i suoi chirurgi clowns per far guarire i malati. Peggio di Flaiano aveva detto un polacco un aforista polacco straordinario Lec che diceva: “Non aspettatevi troppo dalla fine del mondo”.

Ha scritto il giornalista Rysrard Kapuscinskij: “Oggi si parla molto della contro il rumore, mentre sarebbe più importante la lotta contro il silenzio”. Nel mondo dell’informazione oggi è più quello che si dice o quello che si tace?

Nel mondo dell’informazione è piu quello che si dice male. Dire male le cose e non collegare le tessere di un mosaico dell’informazione sul mondo fa parte di una visione del mondo. Il mondo è fatto di tessere, è un mosaico. Se uno racconta una tessera e non le altre e soprattutto non mette insieme le tessere non si capisce nulla. Non basta pregare che tutto il mosaico sia riassunto da quella tessera, senza capire che poi se quella tessera non è avvicinata alle altre tessere non si vede. L’informazione funziona come un puzzle. Prova a togliere delle tessere dal puzzle e non si capisce più nulla ed è quello che sta facendo l’informazione.

Poi naturalmente l’informazione copre da che mondo e mondo. Siamo andati avanti pensando e dicendo che un buon giornale come “La Stampa” poteva parlare di tutto tranne che della Fiat. Il rapporto  tra potere, controllo editoriale e politico dei mezzi d’informazione e informazione è vecchio quanto il mondo.

Da un lato c’è una mancanza d’informazione sulle cose che ci dovrebbero interessare davvero, perchè gli interessi a non farcelo sapere sono troppo forti; dall’altro lato c’è un’informazione scompagnata, in cui le tessere staccate ci impediscono di vedere l’insieme.

Nell’informazione italiana ha attecchito ciò che non ha avuto presa in politica: il maggioritario.

Si è insediato nell’informazione da vent’anni. I miei colleghi pensano che tanto valeva  prendere posizione da allora. Stai con Berlusconi o stai contro Berlusconi. Senza pensare che in realtà l’informazione si dovrebbe occupare di tutto. Come posso pensare di raccontare tutto quello che so di Berlusconi senza dover raccontare tutto quello che so di Bersani e D’Alema? Questa non è informazione.

Sarà forse questa idea particolare di giornalismo, in tempi in cui questo mestiere è in crisi di valori, che l’ha portato ad avere problemi con la Rai?

Io ho avuto problemi con tutti, non solo con la Rai, ma anche con Repubblica, grazie a dio, perchè uno che faccia il suo lavoro e basta in questo paese non è previsto.

 

Lisa D’Ignazio

 

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