Parte domani la IX edizione della rassegna “Cinema e Psichiatria”, curata dall’instancabile (nonostante le note problematiche economiche) Istituto Cinematografico Lanterna Magica de L’Aquila, reduce dalla fortunatissima impresa “Frammenti di Donna”: manifestazione che ha, attraverso cinema, fotografia e musica, descritto con intelligenza il complesso e problematico universo femminile dal dopoguerra ad oggi. Il primo incontro della nuova rassegna, sottotitola “Salute Mentale. Cosa è, come si preserva e perché si perde”, al’Auditoriun Sericchi della Carispaq, con inizio alle ore 17 e la proiezione del film “Il cigno nero” di Darren Aronofsky, film molto coinvolgente e discusso, che ha ricevuto molte critiche per le molte scene esplicite di sesso (anche saffico) o di auto-lesionismo, aspramente giudicato dagli addetti del mondo del balletto classico in quanto “il mondo del balletto sembra frequentato solo da persone cariche di odio, cinismo e opportunismo”, ma certamente eccellente occasione di discussione sul tema del doppio. E lo faranno, con prospettive diverse, gli operatori dell’Istituto Cinematografico, con in più l’apporto della dottoressa Anna Maria Allegro, del Dipartimento di Salute Mentale de L’Aquila, diretto dal dott. Sabatino Papola, curatore della’interno ciclo di incontri. Dicevamo del doppio, del bene e del male che confinano e sconfinano, un tema molto percorso e di larga fortuna in ambito cinematografico. Sarà che la nostra società e l’umanità intera vive un periodo cupo e pessimistico nel quale quasi nessuno riesce ad affermarsi e ad esprimere se stesso nella propria totalità, vedendosi costretto a duplicare (se non moltiplicare) la propria persona; sarà che si tratta di un argomento intrigante e affascinante tale da poter rappresentare un aspetto che invita alla visione e alla riflessione; sarà che nonostante sia stato ormai sdoganato, va molto di moda; sarà che pur essendoci ormai abituati e pur partendo il più delle volte prevenuti su determinati e possibili finali spiazzanti, alla fine riusciamo sempre a rimanere sorpresi e incantati; sarà il complesso di tutti questi elementi, ma una cosa è certa: il tema del doppio, cinematograficamente parlando, ha una potenza comunicativa non indifferente e una capacità unica di incantare, conquistare, ammaliare e sedurre lo spettatore, come forse nessun altro argomento è riuscito e riesce a fare (sempre se fatto in maniera tale da discostarsi per qualche caratteristica particolare da tutte le altre pellicole dello stesso filone e, ovviamente, con le dovute eccezioni di film che nonostante l’importanza del tema e la fortuna di sfruttare un elemento con simili capacità attrattive, non riescono a superare la patina della grigia e triste mediocrità). Il tema del doppio può manifestarsi ed esprimersi visivamente e normativamente in diverse maniere: una stessa persona che vive due vite distinte e separate ma parallele, consciamente e non; due persone praticamente uguali che si fanno spacciare per un unico individuo (e non necessariamente gemelli); trasformazioni fisiche vere e proprie che rendono impossibile il riconoscimento e il discernimento; sdoppiamenti di personalità e di fisicità veri e propri; supereroi con la doppia vita tenuta nascosta a tutti; e si potrebbe continuare all’infinito. L’esempio lampante, e anche il più importante, di quanto andiamo affermando è la trasposizione cinematografica, anzi le trasposizioni cinematografiche, di un romanzo famosissimo e molto letto. Trattasi di Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde (1886) le cui vicende narrate sugli schermi, nei teatri, nelle versioni animate e addirittura nei fumetti hanno avuto un’immensa fortuna e un enorme favore di pubblico e di critica. Tutto ebbe inizio nei primi anni ’10 e ‘20 dello scorso secolo con una serie di film omonimi liberamente tratti dal celebre romanzo, ma il grande successo è arrivato nel 1941 con Victor Fleming che ha riunito un grande cast stellare (Spencer Tracy, Lana Turner, Ingrid Bergman) per raccontare la storia della doppia personalità del dottore e del suo terribile “gemello” cattivo. Successivamente ogni decennio ha avuto la sua versione più o meno riuscita e non sono mancate nemmeno le parodie come Gianni e Pinotto contro il dottor Jekyll (Charles Lamont, 1953) o Le folli notti del dottor Jerryl che vede Jerry Lewis come interprete e come regista (1963). E non è detto che il doppio debba sempre essere più cattivo della personalità originale da cui nasce, in molti casi è solo più potente, più affascinante, più capace, più felice, più furbo, ma sempre “più”. Basti pensare a Bruce Wayne/Batman nei numerosi film a lui dedicati interpretati sempre da star di primo livello da Michael Keaton nelle versioni burtoniane a Val Kilmer e George Clooney in quelle di Schumacher fino ad arrivare a Christian Bale nella versione di Christopher Nolan (che sta per regalarci un’ulteriore puntata della saga), che in quelle vesti acquistano maggiore fascino e misteriosità. Ma il contrasto tra persona ed eroe è reso ancora più netto da altri due grandi supereroi che stravolgono completamente se stessi una volta assunti i panni del loro alter ego: Clark Kent/Superman, portato al successo dal grandissimo Christopher Reeve e Peter Parker/Spiderman interpretato dal giovane Tobey McGuire nei fortunatissimi ma non molto pregevoli Spiderman 1, 2 e 3 (Sam Raimi, 2002-2004-2007). E, ancora, interessante è il doppio che annienta se stesso, come il William Wilson di Malle in “Tre Passi nel delirio”, tratto da Poe, o I duellanti (The Duellists) del 1977, diretto da Ridley Scott, basato sul racconto The Duel di Joseph Conrad. Ma anche nella letteratura, prima ancora che nel cinema, dalla mitologia in poi, il tema del doppio ha avuto molte ed alte espressioni. Come nota in suo saggio Sabina Marchesi, già in Lady Macbet di William Shakespeare ritroviamo il tema, trattato in maniera molto più complessa che in Stevenson. Per tutta la tragedia shakespiriana si ha, fortissima, la sensazione che i dialoghi tra moglie e marito siano in realtà le percezioni e i monologhi interiori di una sola persona. Come se l’introspezione psicologica operasse al contrario, dividendo in due una persona, piuttosto che congiungerne due. Sembra, che Lady Macbeth conosca il marito così a fondo da essere fusa con lui, ma allora perché questa caratterizzazione così androgina, questo piglio maschile, questa volitivà di fondo, se non per accentuare e sottolineare il fatto che sono entrambi due espressioni della medesima personalità? E’ un gioco sottile quello di Shakespeare, quando conduce le divagazioni mentali con tale accortezza da farle sembrare un soliloquio spirituale. Il delirio di un’anima in pena. Non a caso i due non sono mai in sintonia perfetta, quando uno tentenna l’altro traina, quando uno retrocede l’altro sopravanza. Come a sottolineare un’ambivalenza di fondo. Quando Macbeth, dopo un primo silenzio assenso con cui aveva acconsentito al diabolico piano, tenta di retrocedere dalle sue posizioni, ed esamina con la moglie i pro e i contro di un tale gesto, appare evidentissima l’intenzione dell’autore di riprodurre, in questo singolare coro a due voci, la divagazione mentale di un essere unico, intento a valutare le conseguenze dei suoi gesti, e la loro opportunità. Un monologo interiore, travestito da dialogo. Anche le conseguenze dell’atto sulle loro menti sono come sdoppiate, da una parte abbiamo l’incredibile audacia dell’azione omicida, dall’altro le inquietanti apparizioni dello spettro che sembrano sottolineare una tendenza decisamente schizofrenica del soggetto. Shakespeare in quest’opera passeggia beatamente tra gli anfratti delle introspezioni psicologiche in un’interpretazione quasi freudiana di questo antichissimo dramma. E’ come se identificasse in Macbeth il lato fisico dell’azione, la concretezza, la forza, il movimento, e in Lady Macbeth l’introspezione psicologica, la pianificazione, l’istigazione al delitto, la sofferenza, e infine la colpa. Entrambe le entità sdoppiate anche qui sono condannate a morte, ma in tempi e modi diversi, consoni alla loro personalità esteriore. Macbeth perisce in combattimento, da guerriero quale è, Lady Macbeth invece soccombe lentamente, consumata dall’angoscia, fino al momento del suicidio catartico e liberatorio. E come nella migliore tradizione psichiatrica, è la mente ad arrendersi per prima, il corpo dopo. Un’altra sconvolgente interpretazione, per di più di mano femminile, conferita al tema del doppio in letteratura, è quella di Mary Shelley con il suo Frankestein. Qui le implicazioni filosofiche si fanno molto più forti, soffocate, al punto da essere quasi invisibili, dal contesto fortemente drammatico della narrazione. Il lettore infatti si concentra sul mostro, sull’aspetto fantascientifico della vicenda, sull’orrore, e non focalizza quelle che sono invece le connotazioni psicologiche. Victor Frankestein è, alla pari del Dr.Jeckil, un uomo di scienza. Anche lui insegue un sogno di gloria, ridare la vita ai defunti, riportare al mondo le persone care, annullare la morte. Una provocazione fortissima, giustamente punita dal succedersi degli eventi che infine condannano questa eccessiva aspirazione dell’uomo verso irrealizzabili sogni e visioni di onnipotenza. E fin qui siamo sul concreto, la Shelley condanna la falsa onniscenza dell’uomo, e segue i dettami di sfiducia e incertezza tipici della sua epoca, improntata a un eccesso di sicurezza sulle possibilità umane, cavalcando le creste dell’allora floridissima rivoluzione industriale. Ma guardando bene, attraverso i risvolti narrativi dell’opera, ecco che troviamo delle sorprese interessanti. Victor non fallisce, ma anzi riesce nel suo intento, chiuso nel suo laboratorio, trascurando tutto e tutti, affetti familiari, impegni e doveri, dona la vita a una creatura artificiale, composta sottraendo furtivamente pezzi di cadavere dagli obitori e dai cimiteri. Ma lungi dal celebrare questa vittoria, egli fugge, terrorizzato, dopo aver constatato l’orrore di questa sua creazione. Una vera e propria sfida alla giustizia divina, andando contro le leggi del creato egli sfida Dio, e resta sconvolto dal suo successo, abbandonando a se stessa la creatura appena concepita. Egli è padre e madre allo stesso tempo, ma genitore snaturato, perché non cresce, non alleva, non istruisce, ma rifugge ed abbandona. E dunque allora nella Shelley questo dualismo tra il bene e il male si fa virtualmente sempre più sottile. Mentre nelle opere esaminate in precedenza era facile individuare tra le due metà quale fosse l’incarnazione dell’uno e quale dell’altro, qui la suddivisione delle colpe non è cosa istintiva. Già, perché la creatura orrida, ripugnante e artificiale, ha un animo nobile, è delicata, buona nel profondo, romantica e comprensiva, anela all’amore, vuole amare ed essere riamata, apprezzata e accettata. Ma invece vive l’abbandono, perseguitata come un mostro a causa del suo orrendo aspetto fisico, diventa un mostro perché condannata dalla società attuale, che non la può accettare per quello che è. Il padre putativo, lo scienziato, l’eroe positivo, invece, non è affatto tale, perché rifugge dalla creatura partorita con un senso di repellenza, vedendo in essa il simulacro delle sue stesse colpe di alterigia e di orgoglio. E’ Victor Frankestein, l’uomo e lo scienziato, ad aver sfidato per primo le leggi divine, a essersi arrogato diritti non umani. Suo è il peccato, sua la colpa. La creatura impersonifica dunque il male riflesso del suo creatore, ed anche qui entrambe le metà dello stesso essere sono destinate a perire, non prima di aver attraversato il globo terracqueo in una sorta di pellegrinaggio di espiazione terribilmente mistico. Ecco dunque come quattro validissimi autori, consacrati alla storia, si sono avvicinati a quello che è uno dei temi privilegiati della psicanalisi, la scissione dell’animo umano tra rigore e controllo, da una parte, e passione e sregolatezza dall’altra, apponendo la firma ad alcuni dei migliori capolavori letterari di tutti i tempi. E, ancora, si pensi a quanto spesso il tema compare in Dostoevskji, uno scrittore che, con coraggio, ha molto spesso affrontato i conflitti e passioni che scaturiscono dallo scontro tra il bene e il male, soprattutto ne “Il sosia”, dove la dialettica dostoevskijana squarcia i veli che la filosofia razionalistica aveva steso sui più bassi istinti della natura umana, impedendo di coglierne le contraddizioni. Ma è forse ne Memorie del sottosuolo, l’opera più profonda e compiuta di Dostoevskij, quella dove la sua filosofia viene espressa in forma pura, e rappresenta un sconvolgente resoconto del più turpe lato dell’animo umano. La concezione di Dostoevskij è tragica, ma nella misura in cui il fardello della libertà pesa interamente sulle spalle dell’uomo conferendogli tutta la sua dignità. Quella di Nietzsche è concezione dell’assurdo, perché non riconosce alcun senso ontologicamente dato nell’essere: per riscattarsi, l’uomo deve darsi da sé un senso trasformandosi nel superuomo la cui volontà di potenza lo conduce però alla catastrofe dell’anti-uomo. E c’è qualcosa di dostoevskijano nel film di Aronofsky che aprirà la rassegna “Cinema e Psichiatria” curata dalla Lanterna Magica e dal Dipartimento di Salute Mentale della ASL de L’Aquila, qualcosa che attiene ad Eraclito, alla percezione dinamica della realtà, non statica come avviene in Platone; una percezione se non religiosa almeno metafisica dell’esistenza umana, che si colloca però all’opposto dei grandi pensatori cristiani mistici, proprio perché nei suoi personaggi rappresenta le conseguenze che la tragicità insita nella libertà umana può portare all’individuo.
Carlo Di Stanislao
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