E’ in corso di stampa – sarà nelle librerie nella seconda metà di novembre – il volume “L’altra Italia” di Goffredo Palmerini, One Group Edizioni. E’ una selezione di scritti e articoli (Gennaio 2010 – Luglio 2011) pubblicati in Italia e all’estero,un “annuario” di fatti e personaggi dedicato agli Abruzzesi e ai connazionali oltre confine che, nonostante la lontananza, mantengono il legame con le loro radici attraverso la stampa italiana all’estero. Sessanta milioni di storie, di talenti e di esempi illustri, ancora poco conosciuti, ma che con tenacia affrontano il generale clima di diffidenza portando nel mondo il prestigio del loro Paese d’origine e mostrando un altro volto dell’Italia che parla di solidarietà, determinazione e fiducia nel futuro. Di seguito la prefazione Laura Benedetti, aquilana, docente della Georgetown University di Washington (Usa) e direttore del Dipartimento di Studi italiani della prestigioso ateneo della Capitale federale degli Stati Uniti d’America.
Racconta Dino Buzzati di un principe che decide di spingersi fino ai confini del regno paterno. Alla partenza, il principe teme di esagerare portando con sé ben sette messaggeri che gli permettano di mantenere i contatti con la sua città, ma dopo qualche giorno è costretto a ricredersi. Ansioso di dare e ricevere notizie, agli inizi del viaggio invia un messaggero ogni sera, ma presto si ritrova solo, con l’ultimo dei suoi uomini già partito, il primo non ancora tornato. Il problema, capisce allora, è che la continua avanzata verso confini che comincia a sospettare inesistenti aumenta proporzionalmente la distanza che ognuno dei messaggeri deve percorrere. Presto il principe scopre l’equazione della nostalgia: “bastava moltiplicare per cinque i giorni fin lí impiegati per sapere quando il messaggero ci avrebbe ripresi”.
Tempo e spazio congiurano nel vanificare l’illusione di un contatto. In risposta ai suoi dispacci, il principe riceve dalla città “curiose lettere ingiallite dal tempo” che recano nomi dimenticati, espressioni misteriose, sentimenti incomprensibili. Al termine del racconto, otto anni sono trascorsi dalla partenza. Il principe si prepara a dare il commiato a Domenico, uno dei messaggeri, pur sapendo che secondo l’implacabile equazione non potrà rivederlo prima di trentaquattro anni. In realtà, dei segni misteriosi fanno sospettare che la fine del cammino sia vicina, e che al ritorno dalla sua missione Domenico scorgerà piú presto del previsto le luci dell’accampamento, entrerà nella tenda solo per scoprire il corpo senza vita del principe vegliato dai suoi fedeli. “Eppure va, Domenico, e non dirmi che sono crudele! Porta il mio ultimo saluto alla città dove io sono nato”.
Da giovane avevo una predilezione per questo racconto. Mi affascinava la combinazione di motivi fiabeschi – il principe, i messaggeri, il regno da esplorare – e una una spietata logica matematica che esalta la sproporzione tra le forze umane e le dimensioni di un universo sfuggente. Finché a Edmonton, gelida capitale della provincia dell’Alberta, non mi capitò di parlarne con una giovane immigrata, figlia di abruzzesi approdati prima in Argentina e costretti poi a riparare per motivi politici in Canada. Questo doppio sradicamento aveva profondamente segnato la personalità della figlia, che vedeva raffigurata nel racconto di Buzzati l’esperienza dell’emigrante, costretto a muoversi in un territorio misterioso mentre i segnali del mondo che ha lasciato si fanno sempre più flebili e difficili da decifrare.
Questa interpretazione, che mi colpisce ora con la forza dell’evidenza, mi lasciò allora sbalordita, tanto ero restia in quella fase della mia vita a considerarmi un’emigrante, come il protagonista di quel vecchio film di Troisi, il meridionale in viaggio al nord che si ostina a definirsi turista. Del resto, ero appena arrivata a Edmonton, e non potevo immaginare che la mia “esperienza all’estero” sarebbe durata venticinque anni, trasformandosi di fatto nella mia vita e mettendo in crisi le categorie stesse di “patria” e “estero”, “qui” e “altrove”.
Edmonton, nel 1987, era davvero lontana. Vi ero approdata seguendo le perentorie raccomandazioni e la sollecitudine materna di Mietta D’Amico, anzi “la D’Amico”, indimenticata professoressa del mio liceo aquilano. Avevo fatto un po’ di fatica a trovarla sulla mappa, la capitale dell’Alberta. I giornali italiani arrivavano con mesi di ritardo, le telefonate avevano costi astronomici, le lettere dall’Italia erano una rara gioia (non tutti gli amici dimostrano dimestichezza con la penna). Notavo, in chi era partito tanti anni prima, la tenacia con cui si coltivava l’immagine di un paese ormai astratto, privo di riscontri reali, vivo solo nella memoria. Mi rendevo anche conto, però, della conoscenza approssimativa che avevo avuto fino ad allora dell’Italia fuori i confini, di quei sessanta milioni sparsi per il mondo che hanno fatto da ambasciatori di una nazione di cui ricordano a malapena, e non sempre, la lingua.
È con quest’altra Italia, ancora misconosciuta malgrado l’avvento di internet, che Goffredo Palmerini ci invita a dialogare con i suoi articoli e i suoi volumi. L’Italia fuori dell’Italia, cosí poco capita, nota più per i suoi aspetti folkloristici che per la sua complessità intellettuale, apprezzata più per le sue risorse materiali che per la sua ricchezza umana, trova in Palmerini un interprete sensibile, un messaggero infaticabile. L’importanza della sua attività non si ferma qui, perché gli itinerari di Palmerini sono fatti di andate e ritorni, come quelli dei corrieri di Buzzati, dal mondo alla città e dalla città al mondo.
Non solo, dunque, egli si fa carico di trasmettere l’esperienza degli Italiani nel mondo a quelli in patria, ma assume su di sé un compito forse ancora più arduo, quello di rappresentare agli occhi degli Italiani all’estero un volto del paese diverso da quello tracciato dalle squallide cronache di questi anni. In molti guardiamo con sgomento all’idea dell’Italia che molti suoi rappresentanti si adoperano di trasmettere: quello di un paese razzista, sessista, omofobo, legato a privilegi di casta, lacerato da correnti separatiste, astrattamente fiero di un retaggio culturale che in pratica si rifiuta però di tutelare. Ben venga dunque il messaggero Palmerini a ricordarci che esiste un’altra Italia anche dentro l’Italia, ad allacciare legami e ideali condivisi, a coltivare la solidarietà di uomini e donne di buona volontà, dovunque essi risiedano.
Il tragico evento del 6 aprile ha mostrato la forza di questi legami e il vanificarsi delle distanze. Scorrendo la lista delle vittime si incontrano, accanto a storici cognomi aquilani, i nomi di chi a L’Aquila era approdato da lontano per studiare, crescere, vivere una vita migliore o semplicemente visitare un paese caro, come Maurane Fraty, la bambina francese ricordata da Palmerini in un commosso articolo. Complici il fuso orario e, nel mio caso, un ossessivo attaccamento all’internet, alcuni residenti all’estero hanno avuto una percezione del disastro più immediata di molti Italiani. Pur in una congiuntura economica non facile, la risposta degli Italiani all’estero è stata pronta, sollecita e generosa.
Rimane il rammarico che non abbastanza sia stato fatto per mettere a profitto questo enorme sforzo di solidarietà, che siano mancate chiare indicazioni su come incanalare queste energie. Internet non basta, così come non bastano la buona volontà e le risorse economiche. Oggi più che mai, c’è bisogno di mediatori di qualità. Il ruolo del messaggero è mutato: non si tratta più di percorrere meccanicamente distanze sempre più grandi, ma di annodare in maniera sottile i legami tra il dentro e il fuori, di mettere in relazione bisogni e capacità, di interpretare una realtà sempre più complessa, di sviluppare sinergie.
Un filo rosso, esile in apparenza ma in realtà tenace, lega i protagonisti di queste pagine. Un filo rosso intessuto di memorie, affetti, orgoglioso attaccamento, unisce personalità diversissime quali Laudomia Bonanni, Barnaby Gunning, Ada Gentile, Anna Ventura, “incontrate” da Palmerini in convegni, concerti e interviste, descritte attraverso la sua prosa misurata e partecipe, naturalmente refrattaria a facili polemiche ed eccessi retorici. Vero protagonista del volume diventa allora Palmerini stesso, il suo sguardo attento e solidale che puntualmente mette in risalto e aiuta a comprendere la variegata esperienza degli Abruzzesi all’estero, degli stranieri che hanno scelto l’Abruzzo come luogo d’elezione, di quelli che si sono stretti intorno a L’Aquila da tempo o in questi ultimi tempi.
Il precedente volume di Palmerini, L’Aquila nel mondo, portava come sottotitolo “Notizie, fatti ed eventi prima e dopo il terremoto del 6 aprile 2009”, quasi a sottolineare l’importanza del terremoto quale spartiacque. In questo volume mi sembra prevalga la determinazione a non lasciarsi sopraffare dall’evento del 6 aprile, a non permettere che esso diventi l’elemento caratterizzante della propria identità. Scrive Irène Némirovsky, che di disastri ne sapeva qualcosa, che la sciagura non cambia una persona ma la mette in rilievo, come una folata di vento che privando gli alberi delle foglie permette di coglierne la vera forma. Il terremoto ha così portato alla luce i lati nobili e meno nobili di ognuno.
Saluto in Palmerini un rappresentante di quegli Aquilani che dopo il 6 aprile 2009 hanno raddoppiato gli sforzi per creare una città ancora più bella, aperta e solidale, ricorrendo strenuamente all’ottimismo della volontà per correggere il pessimismo dell’intelligenza: “Ogni erbaccia ci appare un insulto, ogni rovina una ferita profonda. Toccherà lavorare sodo, per anni. Ma ce la faremo”.
Voglio credere a questa ferma determinazione, a questa promessa di riscatto. Buona fortuna dunque al messaggero e alla sua città. L’altra Italia non dimentica, e non si tirerà indietro.
Laura Benedetti
Georgetown University (Washington DC, Usa) – direttore del Dipartimento di Italiano
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