L’Aquila, territorio della transizione

Quale territorio viene riportato alla memoria quando si parla della città di l’Aquila? Nell’usare il termine di città ci rendiamo conto di come questo, oggi, abbia acquisito un significato generico? Attualmente, dov’è collocata la città e quali sono i suoi confini? Attorno al nucleo storico, oppure attorno a quel sistema che un tempo veniva definito […]

Quale territorio viene riportato alla memoria quando si parla della città di l’Aquila? Nell’usare il termine di città ci rendiamo conto di come questo, oggi, abbia acquisito un significato generico? Attualmente, dov’è collocata la città e quali sono i suoi confini? Attorno al nucleo storico, oppure attorno a quel sistema che un tempo veniva definito periferia e frazioni?  E qual’è oggi la natura della città? E’ data da un principio di compattezza e di contiguità dei volumi edilizi o da un principio di intensità di rapporti spaziali tra i cittadini? In questa indefinita estensione fisica che contraddistingue il territorio urbano, l’unica consistenza che consente agli svariati agglomerati di essere riconoscibili come specifiche entità da parte di chi li abita, è legata a qualcosa di intangibile, ad un’idea condivisa, all’immagine di luogo, memoria collettiva di esperienze. Oggi L’Aquila è solo un simbolo per gli aquilani, un termine che si sposta più sul significato delle cosa fisica che sulla cosa stessa. Eppoi, che significato attribuiamo al termine di periferia? Fino a ieri la misuravamo in funzione della distanza dal centro storico. Oggi invece gli spazi di maggiore intensità della vita collettiva, i cosiddetti poli di attrazione, sono ubicati a distanza da tale nucleo. Il centro storico oggi, è un contesto che raccoglie aree degradate e in gran parte abbandonate, quindi  zona periferica. L’idea stessa di luogo viene rimessa in discussione. Una realtà fisica infatti – un frammento di suolo, un edificio o un agglomerato – diventano un luogo quando riescono a metabolizzare nella loro essenza materiale un valore simbolico, che va ben oltre la semplice disposizione della materia e la sua fruizione fisica. Ci riconosciamo in un luogo quando, introducendoci fisicamente o mentalmente entro uno spazio, riusciamo a sentire un riflesso ai nostri stati d’animo e quando questa risonanza torna a noi come se provenisse dall’esterno, dallo spazio stesso, al punto da poter generare un risultato condiviso. Non esiste luogo che sia incapace di incoraggiare in noi un sentimento di condivisione. Oggi siamo dominati da angosciose incertezze  poiché il nostro centro storico, il patrimonio dei luoghi ereditati dalla storia della nostra comunità, è esposto a catastrofici processi di disgregazione e di abbandono, incapace di incoraggiare forme di convivialità. E’ un fenomeno che ci rende insicuri, che rimette in discussione il concetto stesso di confine, inteso come protezione, identità. Ciononostante, i confini di ieri, oggi possono diventare spugne, luoghi di connessione, che improvvisamente riescono ad assorbire e a coinvolgere lungo i loro lati, insediamenti stabili, fino a ieri concepiti come luoghi estranei. Strade periferiche, corsi d’acqua, ambiti naturalistici emarginati, rifiutati dall’ingordigia dei pieni edilizi,  oggi sono suscettibili di diventare luoghi centrali, luoghi di condivisione. L’Aquila oggi, è un paesaggio a macchia di leopardo, un territorio della transizione, che esprime l’incertezza politica e programmatica che governa la società locale. Il problematico “dov’era e com’era” è la metafora di un presente che sembra aver perso l’ambizione di un futuro, da progettare secondo un interesse collettivo. E ciò è il contrassegno della morte della pubblica governance sul territorio. Alimentandosi di una overdose di regalie esterne – progetti di teatri, mense, ecc. – deliberatamente essa si è imposta un ferreo digiuno in ambito pianificatorio, territoriale ed urbanistico. Promuovendo un’architettura di consumo, ha rinunciato al progetto di un’architettura della città. Il territorio aquilano però è anche l’effetto di una autorganizzazione dal basso, di una società civile che, dominata dalla retorica del caos, interagisce nei riguardi dello spazio pubblico secondo modalità completamente diverse da quelle su cui erano stati plasmati gli spazi fisici della città storica; manifestando in ciò una forma degenere di democrazia che ha favorito l’affermarsi del paesaggio dell’anti-città, con le periferie di ieri, i prefabbricati dell’emergenza e le “casette fai da te” di oggi, nonché le costruzioni per attività culturali, commerciali e di servizi, distribuite sul territorio secondo modalità disorganiche. Ciononostante, se opportunamente governata, questa caleidoscopica figura di città può contribuire ad introdurre nella matrice storica dello spazio aquilano quella necessaria biodiversità, fino a ieri assente, che la porterebbe ad evolvere all’interno di una visione di tipo globale. Nel carattere di transitorietà è insita una doppia possibilità: quella di degenerare in direzione di un’ulteriore, confusa mescolanza di scenari indifferenziati, oppure quella di indirizzarsi verso una nuova geografia, espressione di una rivoluzione maturata all’interno della società civile – prima ancora che del ceto politico – che, nella costituzione di un responsabile ed efficiente laboratorio polifonico, veda lo strumento insostituibile per promuovere una nuova gerarchia tra le tre nature di paesaggio: quella urbana, quella rurale e quella naturale. Una gerarchia dove ciascun ambito, pur restando riconoscibile nei suoi tratti distintivi, ammette al suo interno un’alta varietà di declinazioni e di contaminazioni con gli altri.

Giancarlo De Amicis

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