La scuola “precaria”
Se non ci lasciamo attrarre da facili illusioni, se cerchiamo di guardare la realtà a partire dalla fatica della vita quotidiana, una delle caratteristiche sempre più evidenti è un senso di precarietà che attraversa gli ambiti strutturali dell’esistenza: la famiglia, il lavoro, la scuola, la stessa comunità ecclesiale. Mentre la famiglia diventa sempre più fragile (quante separazioni, quante tensioni la abitano!), il lavoro diventa sempre più flessibile e incerto, anche la scuola – sotto la ricerca spasmodica dei risultati (e dei soldi che si possono ricavare dai vari “progetti”!) – nasconde tanta precarietà, anzi potremmo dire è diventata “essenzialmente” precaria. Viene spontaneo iniziare proprio dalla scuola, perché da poco si è riaperta e sempre più ci si accorge di come si va smantellando questo luogo educativo. C’è la precarietà degli insegnanti, al di là di quello che dice il ministro, che non aiuta certo lo svolgimento sereno del compito educativo da parte di molti insegnanti di passaggio mentre altri restano “fuori” e incominciano ad aggiungersi ai nuovi poveri. C’è l’aggravante di una contabilità delle classi secondo una media di 27 alunni, in aule prive di garanzie in termini di sicurezza e igiene, arrivando ad accorpamenti di classi – quando non si guarda alla differenziazione della tipologia di corsi – che dovrebbero essere in alcuni istituto con più di cinquanta alunni! Anche a restare entro la media dei 27 alunni per classe, quale relazione educativa si può costruire con numeri così elevati? Questo però è solo un aspetto e per molti versi l’aspetto esteriore. C’è infatti una precarietà più intima che attraversa il cuore e la mente dei ragazzi, e che la scuola, le famiglie, le parrocchie non sanno o non vogliono affrontare. A scuola questa precarietà di fondo viene coperta rincorrendo eccellenze, accumulando competenze, formulando progetti espansivi, dimenticando che anzitutto vanno formati l’uomo e il cittadino. Preciso: non è che tante iniziative non siano belle, solo che si sono scambiati il mezzo con il “fine”, le fondamenta con la costruzione. Senza dire del linguaggio mercantile: utenti, crediti, debiti … Con l’aggravante che gli alunni mancano da tempo di quella caratteristica, propria dei “giovani”: voler rinnovare il mondo. Con un crescente ottundimento delle capacità critiche, ma anche dei contatti ordinari con la realtà e soprattutto con la storia e la vita della città, del Paese, del mondo.
Che fare?
Cosa si può fare o offrire in questa situazione? Chi ama non rinuncia certo a lottare, al tempo stesso non può offrire qualsiasi cosa. Tanto meno lo può fare il cristiano! Probabilmente la cosa più utile è assomigliare a quell’uomo di un antico racconto ebraico che nel deserto, deriso da tutti, continuava solo a dire: «verso di là!». E, grazie a questa tenacia nel costruire una stabile direzione, qualcuno ritrovò la strada… Non è poco! Continuare ad indicare al posto degli scopi la meta e a proporre la «coscienza del fine» come amava dire don Giuseppe Dossetti, continuare con Socrate a scuotere perché ci capisca ogni volta cosa è in gioco, lascerà quanto meno lucidi, vigili, capaci di avere forza per camminare con il fine di superare il deserto odierno. Certo, si richiedono sensibilità, coraggio, capacità di pensiero, totale gratuità, libertà interiore. Meglio: si tratta di disimparare i condizionamenti dominanti, perché riemergano quel coraggio, quel pensiero, quella gratuità che ci fanno uomini e cittadini. Per i cristiani: che ci fanno discepoli dell’unico Maestro affidabile che continua ad offrire, non progetti o strategie, ma solo il suo amore. Amore «senza misura», forte e mite, capace di unire intelligenza e sensibilità. Amore che – se accolto – genera «vita buona e bella» per noi e quindi per “molti”. Amore capace di rigenerare, a contatto con testimonianze credibili e parole calde e luminose, senso della vita e della storia. Come afferma Alessandro D’Avenia (un insegnante, autore anche di un libro per adolescenti che ha il coraggio di affrontare i nodi della vita: l’amore, la morte, Dio), «la crisi dei ragazzi è la crisi della cultura che li ha generati. Una cultura dominata dal relativismo, che significa in fondo privare la realtà delle differenze, genera indifferenza. Il relativismo banchetta con la testa e il cuore dei ragazzi. La sfida è rendere i ragazzi “cuori pensanti”, riconciliando la verità con la vita di tutti i giorni». Per questo gli adulti devono avere il coraggio di ridiventare padri, di lanciare in alto, di vincere una brutta tendenza all’adolescenza infinita in se stessi e quindi nei giovani. Sempre D’Avenia, che peraltro è stato alunno di don Pino Puglisi, afferma: «Se mi rapporto ai miei alunni come un padre allora cominciano ad essere liberi, cerco di mettermi al servizio di ciò che hanno di più intimo, per preservarlo, incoraggiarlo; li aiuto a diventare se stessi nel massacro di identità odierno». C’è da sperare che nelle nostre classi entri almeno qualche insegnante che abbia cura di formare uomini e cittadini, nell’antico spessore delle discipline, con capacità paterna nel dare “paletti” che aiutino a crescere con solidità e capacità materna nel trasmettere comunque affetto. Che abbia anche sensibilità civica, che insegni e ami la Costituzione, che conservi capacità di lotta, quella vera, quella che accetta particolari secondari ma non desiste nella sostanza di ciò che vale e che va preservato, anche a caro prezzo. E che ricordi come, rispetto a un mondo in cui tanti lottano per la sopravvivenza, in cui si muore di fame e di guerra, noi restiamo dei privilegiati …
Maurilio Assenza
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