Rimettere assieme i cocci

A L’Aquila, dopo il terremoto, si è assistito ad una progressiva ed inarrestabile morte sociale: uno stato di cose più grave del disastro urbanistico, che ha ridotto il cuore vivo della città e non solo le case ed i monumenti, ad un cumulo di macerie. Chiunque, fuori dall’Italia o addirittura fuori dalla città, fosse messo […]

A L’Aquila, dopo il terremoto, si è assistito ad una progressiva ed inarrestabile morte sociale: uno stato di cose più grave del disastro urbanistico, che ha ridotto il cuore vivo della città e non solo le case ed i monumenti, ad un cumulo di macerie. Chiunque, fuori dall’Italia o addirittura fuori dalla città, fosse messo a parte di quanto accaduto in questi 31 mesi, crederebbe ad una storia surreale, un racconto dell’impossibile, con uno stato di cose che si trascina, in un limbo infinito e senza soluzione, neanche solo prospettata. Poche le iniziative autenticamente prodotte per non dimenticare, per incentivare la società a resistere e risorgere. Fra queste “L’ Aquila Fenice-Minimondi”, festival di letteratura per bambini e ragazzi,  nata nel 2000 a Parma, dalla parte de L’Aquila fin dai primi momenti del dopo sisma e che ha più volte realizzato iniziative per dare una “scossa” simbolica per la ricostruzione. L’ultima: “Una strada per L’Aquila”, iniziativa svoltasi ieri sera al Teatro Eliseo di Roma, a cui hanno partecipato, tra la musica di “Anonima armonisti” e la proiezione di video come “Crepati dentro” del filmaker aquilano Francesco Paolucci, Oliviero Beha, gli attori Fabrizio Gifuni e Giulio Scarpati e, ancora, Christian Raimo, Elena Stancanelli, l’onorevole Anna Paola Concia, Diego Bianchi “Zoro”, Jolanda Bufalini, Giuseppe Caporale, Francesco Erbani, Marco Ferreri, Fabrizio Gifuni, Peter Gomez, Marina Marinucci, Enrico Melozzi, Walter Nanni, Giovanni Peresson, Pierluigi Properzi, Christian Raimo, Marco Romano, Marino Sinibaldi, Flavio Soriga, Giorgio Zanchini;  oltre al sindaco Massimo Cialente, e all’ assessore Stefania Pezzopane. Gli interventi tutti dedicati alla possibilità di contribuire alla ricostruzione di un paese che deve rinascere, che deve riappropriarsi delle sue ricchezze e utilizzarle per “rifondare” il proprio tessuto sociale. Unica condizione per  l’ingresso (libero),  portare un coccio, qualcosa di rotto, anche un piatto o un bicchiere, una mattonella o di un pezzo di ceramica, metafora di qualcosa che è andato in pezzi, ma che non è detto che non si possa ricomporre. Ed i cocci portati e raccolti saranno la materia prima per una strada aquilana che verrà ricostruita, secondo il progetto dell’ architetto e designer Marco Ferreri o presso piazza delle Associazioni, nel quartiere Pettino o nelle più centrali piazza Castello, piazzetta del Sole e piazza San Marciano (splendido scorcio all’ interno della zona rossa, ovvero la più colpita dal sisma). Intanto, sempre ieri, ma a L’Aquila e nelle vicine frazioni di Sassa, Pagliare di Sassa, Pianola, Roio, Paganica e Preturo, ha preso il via il vero festival, forte del successo dello scorso anno,  che ha visto partecipare 120 classi scolastiche, tremila bambini e cinquemila adulti, quindici case editrici e quarantacinque autori. All’Eliseo, ieri sera,  attraverso le parole di personaggi del mondo della cultura, si è fatto in modo di riaccendere i riflettori su una città agonizzante, fatta di mille cocci umani e strutturali, che occorre, rapidamente rimettere assieme, con un progetto che sia in sintonia con i luoghi, la loro storia e la loro cultura. Se è vero, come sosteneva Foucault, che: “la Verità  è collegata con una relazione circolare ai sistemi di potere che la producono e la sostengono e agli effetti di potere che essa induce e che la estendono”, parlare dello stato delle cose a L’Aquila, a quasi tre anni dal sisma, può creare quel feedback positivo degli effetti della ‘verità’ sui sistemi di potere che la producono e sulle persone, che a L’Aquila,  sono mancati solo dopo pochi mesi dal sisma. Foucault parla di un ‘regime’ di verità, ma la situazione reale (fra la ‘gente’) è spesso più grave di quanto lascino presagire i nostri timori di un ‘regime’ politico. Infatti il termine ‘regime’ non deve richiamare soltanto l’esistenza di gruppi di potere ben definiti, in quanto si possono stabilire a livello sociale ‘regimi’ diffusi e indipendenti da strutture formali di controllo. E non possiamo assistere inermi alla strutturazione, fra le gente, dell’idea che a L’Aquila si sia fatto tutto, (anche troppo), fra tasse ritardate e contributi sociali e di solidarietà ancora erogati. E poiché ogni sistema di valori assume una validità incondizionata all’interno del proprio ambito, sarà altrettanto importante, per noi aquilani, chiarirci e chiarire quali sia la nostra storia e cultura, cioè quali sia il sistema di valori su cui basare la rinascita ricostruttiva della città e della società che la vive. Occorre, in primo luogo, capire ed interiorizzare, che il tempo si configura sempre come parte fondamentale dell’esistenza umana: fa da sfondo alla costruzione della propria storia e dei significati che gli attribuiamo, serve a posizionare noi stessi e il nostro presente in funzione del confronto e dell’integrazione personale con un sé passato e un ideale futuro, serve a guidarci e dirci in quale direzione stiamo andando e quali altre vie potremmo seguire e scegliere. L’evento traumatico, in quest’ottica, si prefigura come punto di rottura di un continuum all’interno del progetto di vita dell’individuo e della comunità. La caratteristica dell’evento catastrofico è, infatti, quella di interrompere e produrre una frattura nelle strutture elementari della quotidianità, un cambiamento inatteso che ristruttura il sistema che ne viene colpito, sfida le capacità dei suoi componenti nell’integrazione dei significati del cambiamento all’interno della propria storia e della propria memoria come gruppo.   Durante il normale corso degli eventi, alcuni cambiamenti all’interno del sistema sono considerati normali e fisiologici, ma i disordini inattesi provocati dalla catastrofe spingono necessariamente e repentinamente a ridefinire la struttura d’insieme e le caratteristiche e i comportamenti che fino ad allora sono stati considerati funzionali. Nella condivisione della nuova esperienza, nuovi legami e nuovi rapporti prendono necessariamente vita mentre altri vengono abbandonati, vengono elaborati nuovi simboli e nuove narrazioni che entreranno nella memoria collettiva della nuova comunità e influenzeranno i modi di intendere e volere la ricostruzione. Il trauma può essere letto come la fine di qualcosa o come inizio di qualcos’altro, in ogni caso comporta una trasformazione. E poiché l’abilità di un sistema sociale di sopravvivere a cambiamenti di tale portata è stata collegata alla resilienza, importante è, in primo luogo, la capacità che hanno i gruppi sociali nel ridefinirsi e nella capacità di reagire e supportarsi. Resilienza e vulnerabilità sono due facce delle stessa medaglia: ciò che può essere considerato un fattore di protezione infatti, può rappresentare, se assente o mal gestito, un punto critico. E poiché, lo vediamo ancora una volta, la fase della vera ricostruzione ha inizio molti mesi, a volte anni, dopo il verificarsi della catastrofe; riguarda le strutture fisiche e la morfologia della città e abbraccia tutta una serie di dinamiche legate alle perdite simboliche degli individui e della comunità, vuoti e fratture che vanno riallacciate nella memoria e nell’identità degli uni e dell’altra, vanno identificati e rapidamente colmati. Il cambiamento portato dall’emergenza e dall’evento tragico può essere rappresentato come una frattura che non cresce più perché ha perso il terreno da cui attingere sostentamento. Tuttavia nel corso “naturale” degli eventi, anche quando queste radici sono ben ancorate al terreno, ce ne sono sempre alcune che crescono e alcune che muoiono nel momento in cui ciascuno di noi prende consapevolezza di chi vuole essere e fa delle scelte. Il cambiamento potrebbe invece essere immaginato non come una radice verticale ma come una possibilità orizzontale accanto alla quale se ne possono collocare altre. L’idea della verticalità rimanda infatti alla concezione storica delle radici, quella della linearità che lega passato, presente e futuro. L’orizzontalità si configura invece come possibilità, dinamicità e apertura. Naturalmente, la ricostruzione cui facciamo riferimento non interessa solamente la parte fisica e strutturale di un territorio e della sua popolazione, quanto tutta una serie di significati ed esperienze che non si vogliono perdere o si vogliono far emergere. Il processo di sviluppo della nuova comunità che deve necessariamente crearsi, cnon può solamente avvenire tramite memoriali e testimonianze fisiche, spesso forme di ricordo ancora una volta “istituzionali”, necessarie per legittimare la sofferenza e la perdita di quelle popolazioni. E’ nella partecipazione attiva, invece, che la popolazione e la comunità trovano unione, legittimazione e riscatto: nuovi scenari per il futuro e per nuove narrazioni da integrare nella propria storia, nella propria memoria e nella nuova identità.

Carlo Di Stanislao

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