Continuano i disastri ecologici causati dalle trivellazioni in mare e non servano granché le scuse del presidente della Chevron brasiliana, George Buck, presentate nel corso di un’udienza pubblica davanti ai deputati di Brasilia, dopo che, l’8 novembre scorso, da una piattaforma situata nell’Oceano Atlantico, a circa 230 chilometri al largo della costa di Rio De Janeiro, si sono sversati in mare migliaia di tonnellate di greggio. La multinazionale USA non ha reso noto l’incidente e la storiaccia è venuta a galla solo il 10 novembre, quando l’Organizzazione non governativa SkYTruth, ha pubblicato le foto di una chiazza di petrolio estesa per 35 miglia sulla superficie dell’oceano Atlantico. L’Agência nacional de petróleo (Anp), che dovrebbe controllare le operazioni petrolifere in Brasile, non aveva nemmeno notato lo sversamento nel suo sito. Nella notte di venerdì, l’impresa calcolava che 60 barili di petrolio avessero raggiunto la superficie. Già sabato l’impresa informava che lo sversamento si aggirava tra i 400 e i 650 barili. Vale a dire che, in 24 ore, uno sversamento che era considerato “piccolo” era cresciuto più di 10 volte. La Chevron afferma che la causa sarebbe una “falla naturale” nella superficie del fondale marino, ma questa stessa falla non appariva nello studio di impatto ambientale del campo petrolifero di Frade. La Chevron ha mantenuto, contro tutte le evidenze, la tesi della “falla naturale ” fino al 14 novembre, fino a quando le prove del contrario non sono state così schiaccianti da consigliarle di cambiare strada. Ora la Chevron è sotto pressione per fare chiarezza sulla reale quantità di petrolio sversato, secondo la multinazionale sarebbe tra 27 e 45 tonnellate al giorno, ma SkyTruth calcola, in base alle dimensioni della marea nera, che sia 10 volte superiore: circa 512 tonnellate al giorno, questo vuol dire che fino ad ora sarebbero finite nell’oceano Atlantico almeno 4.000 tonnellate di greggio pesante. Proprio come ha fatto la Bp nel Golfo del Messico con la Deepwater Horizon, la Chevron sta tentando di riempire il pozzo esploso con fango a pressione e cemento, ma il petrolio continua a fuoriuscire dalle fessure apertesi sul fondale dell’oceano. Ora, l’organo governativo brasiliano per il controllo delle attività legate all’industria del petrolio, ha temporaneamente vietato alla Chevron le trivellazioni nel territorio del Paese e, pertanto, la compagnia petrolifera Usa, non potrà proseguire le trivellazioni finché le cause della perdita non saranno del tutto chiarite e non vi sarà posto rimedio. La compagnia statunitense sostiene di aver sottostimato la pressione di un serbatoio di petrolio sottomarino durante le trivellazioni e questo ha fatto sì che il petrolio salisse fino a un foro e uscisse sulla superficie marina. Secondo l’Agenzia la perdita è stata messa sotto controllo, ma intanto, la chiazza di petrolio formatasi in superficie, rischia ora di arrivare sui alcune delle più belle spiagge del litorale carioca, come Buzios e Angra dos Reis. Sin da subito, sul luogo della perdita, si sono portate 17 navi che stanno ancora lavorando per contenere la mare nera, ma il timore è che si ripresentino scenari simili a quello del grave incidente del Golfo del Messico del 2010, o quello, più recente, della petroliera naufragata in Nuova Zelanda. Il campo di Frade produce circa 79 mila barili di petrolio al giorno e la perdita è stata contenuta solo dopo una settimana. E mentre la chiazza nera larga 160 chilometri quadrati,avanza velocemente verso la costa carioca, il presidente brasiliano Dilma Rouseff ha aperto una inchiesta per far luce sui colpevoli dell’ennesimo disastro ambientale nell’Oceano Atlantico. I responsabili della Chevron rischiano anche tre anni di prigione per il crimine di inquinamento e la compagnia americana, per ora sospesa, puo’ essere soggetta a multe milionarie. Inoltre, nei giorni scorsi, fonti della polizia hanno informato che sul posto hanno trovato un numero di imbarcazioni anti-inquinamento inferiore rispetto alle a quelle dichiarate dalla compagnia. Nell’Atlantico, secondo il mito, c’era l’isola di Atlandite, governata da Atlante, figlio di Poseidone, che imbastì una poderosa ma sfortunata spedizione contro la Grecia e che poi, sprofondò, per un disastro ecologico in quello stesso mare che 10.000 anni dopo sarebbe divenuto un cumulo di spazzatura. Atlantide fallì e sprofondò nell’abisso. Noi abbiamo fallito, ma le nostre isole di spazzatura restano come monumenti pressoché indistruttibili a ricordarcelo ogni santo giorno. Ora, la marea nera brasiliana della Chevron dovrebbe preoccupare anche i Paesi del Mediterraneo, visto che tra i suoi progetti di trivellazioni in acque profonde ce ne sono alcuni anche nel “Mare Nostrum “. A fine agosto, il Fatto Quotidiano, scrisse un articolo in cui si metteva in bella evidenza che le trivellazioni in Italia sono per l’ex ministro dell’ambiente Stefania Prestigiacomo, un affare di famiglia, visto che, ad del Consorzio Coemi, che ha acquistato e trasformato la petroliera Leonis, un colosso da 110mila tonnellate, che deve essere ormeggiata alla piattaforma per raccogliere il greggio estratto, con una commessa da 30 milioni di euro, è Maria, sorella maggiore della ministra e che, ancora, essa è oggi proprietà della società Fincoe, di cui Stefania Prestigiacomo deteneva il 21,5 per cento fino al novembre 2009 , quando l’ha donato alla madre Sebastiana Lombardo, oggi azionista di maggioranza. Alla faccia del conflitto di interessi. Secondo un rapporto di Greenpace intitolato significativamente “Le mani sul tesoro”, il Canale di Sicilia è stato oggetto, negli ultimi anni, di numerose esplorazioni petrolifere. Grandi compagnie come Shell, Eni o Northern Petrolium si sono affrettate a chiedere permessi per trivellare i fondali tra Italia e Tunisia alla ricerca del petrolio, e sembra che lo abbiano trovato, attirando così la bramosia di nuovi “cercatori di oro nero”. In certi casi parliamo di compagnie da capitali irrisori, come la San Leon Energy, detentrice di domande di ricerca al largo della costa occidentale – da Sciacca a Marsala, e proprietaria di un capitale sociale di soli 10 mila euro. In altri casi di compagnie che arrivano addirittura dall’Australia per minacciare i nostri mari, come l’Adx Energy. E il Dlgs n. 128/2010, che vieta l’estrazione di idrocarburi in un raggio di 12 miglia da aree marine protette e di 5 miglia dalla linea di costa, ha fermato solo in parte queste compagnie. Allo stato attuale sono 117 le nuove trivelle che minacciano il mare e il territorio italiano, grazie ai permessi di ricerca di idrocarburi rilasciati fino ad oggi. Solo nell’ultimo anno sono stati concessi 21 nuovi permessi di ricerca per un totale di 41.200 chilometri quadrati. Le attenzioni fameliche delle aziende energetiche internazionali riguardano, oltre al canale di Sicilia, le coste adriatiche di Puglia, Molise, Abruzzo e Marche. L’akllarme è stato lanciato ad agosto da Legambiente, con il dossier “Un mare di trivelle”, presentato durante la navigazione della Goletta Verde tra il Gargano e le isole Tremiti, un’area oggetto di diverse richieste di ricerca di idrocarburi. Pertanto, siamo di fronte ad un vero e proprio assedio del Mare Nostrum da parte delle compagnie straniere, che hanno presentato il 90% delle istanze di ricerca nel mare del nostro Paese, considerato il nuovo Eldorado, grazie alle condizioni molto vantaggiose per cercare ed estrarre idrocarburi. In Italia, nel 2010, sono state estratte poco più di 5 milioni di tonnellate di petrolio (4,4 milioni di tonnellate a terra e circa 700mila tonnellate a mare), pari al 7% dei consumi totali nazionali di greggio. Il petrolio dai fondali marini è stato estratto utilizzando 9 piattaforme e 83 pozzi ancora produttivi. La produzione di petrolio offshore, da trivellazione a mare, si concentra in due zone: a largo della costa meridionale siciliana, tra Gela e Ragusa, dove nel 2010 si è prelevato il 54% del totale nazionale estratto dai fondali marini, e nel mar Adriatico centro meridionale dove è stato estratto il restante 46%. Ed è proprio su queste due zone che si concentra maggiormente l’attenzione delle compagnie per le nuove trivellazioni: una lottizzazione senza scrupoli che non risparmia nemmeno le aree marine protette, come nel caso delle Egadi o delle Tremiti. Sempre in favore delle compagnie petrolifere è attualmente in discussione in Parlamento anche un altro disegno di legge che prevede la ‘Delega al governo per l’adozione del testo unico delle disposizioni in materia di prospezione ricerca e coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi’. Un provvedimento di semplificazione dell’iter autorizzativo che esclude qualsiasi motivazione di carattere ambientale, bocciato all’unanimità dalla commissione Ambiente del Senato nei primi giorni di luglio e che si spera non arrivi all’approvazione, soprattutto ora, con il nuovo e speriamo più attento governo Monti.
Carlo Di Stanislao
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