Pericolo islamico (vero o presunto)

Gli egiziani hanno votato oggi in massa nelle prime elezioni dalla caduta di Hosni Mubarak; una partecipazione che ha colto di sorpresa gli stessi organizzatori, costretti a prolungare di due ore l’apertura delle urne per fronteggiare la marea dei votanti. Le elezioni sono considerate una pietra miliare per il nuovo corso in Egitto ed il […]

Gli egiziani hanno votato oggi in massa nelle prime elezioni dalla caduta di Hosni Mubarak; una partecipazione che ha colto di sorpresa gli stessi organizzatori, costretti a prolungare di due ore l’apertura delle urne per fronteggiare la marea dei votanti. Le elezioni sono considerate una pietra miliare per il nuovo corso in Egitto ed il tutto il mondo arabo e molti egiziani sperano che possano aprire un’era democratica, dopo trent’anni di dittatura. Con le elezioni inizia infatti il vero processo di transizione che, attraverso una laboriosa sequenza elettorale di sette mesi, dovrebbe portare alla definizione dell’assetto politico-istituzionale del nuovo Egitto che prevede la redazione della Costituzione, la formazione dei due rami del parlamento, l’elezione del presidente della Repubblica e il definitivo passaggio del potere dal Consiglio supremo delle Forze armate (Scaf) a un governo di civili. Il voto, che si prospetta come il più giusto e limpido nella memoria dell’Egitto, è però già stato scosso da tumulti per le strade e la popolazione appare divisa e confusa sulla direzione che prenderà il Paese. Le ultime settimane hanno visto nuovamente la popolazione protestare al Cairo, nell’ormai celebre piazza Tahrir, come in altre città, per chiedere l’immediato passaggio di poteri dalla giunta militare a un governo civile. La repressione sui manifestanti è stata forte e almeno 41 persone hanno perso la vita. Favoriti i Fratelli musulmani, principale gruppo politico, che dovrebbe raccogliere la più parte dei consensi insieme agli alleati islamici. Intanto si nota, da parte dei vari osservatori, che a nulla sono valse l’anticipazione delle elezioni del presidente della Repubblica e men che meno l’incarico di formare il governo al tecnocrate Kamal Ganzouri, già primo ministro (1996-99) di Mubarak, dal quale aveva poi preso pubblicamente le distanze. E nessun effetto ha prodotto lo spietato downgrading dell’Egitto da parte di Standard and Poor’s. La parola d’ordine è rimasta inchiodata alla richiesta delle dimissioni del maresciallo Hussein Tantawi e di un immediato passaggio dei poteri dalle Forze armate ai civili su cui si è protesa anche l’ineffabile benedizione della Casa Bianca, mentre l’Alto rappresentante della politica estera dell’Unione europea Catherine Ashton non ha saputo fare di meglio che condannare l’eccessivo uso della violenza contro il popolo, dichiarare che l’Ue fosse molto preoccupata e chiedere che venissero svolte indagini indipendenti sugli abusi commessi. La Giunta militare non solo non molla, ma ha ancora molte carte da giocare e il vero quesito da porsi riguarda semmai l’altezza alla quale porre l’asticella del controllo che esse riusciranno a riservarsi sul futuro potere civile.
Certo è che non sono disposte a farsi da parte, né a subire la sorte riservata dal turco Erdogan alle proprie forze armate. Semmai, come hanno sacrificato Mubarak, non è escluso che possano alla fine accettare qualche altro sacrificio. Il clima, nel Paese, dipenderà dalle relazioni fra la Frattellanza Mussulmana e le Forze Armate, tenendo conto che la prima, da decenni la forza politica e sociale più organizzata del paese, dalla caduta di Mubarak in avanti, ha esaltato la sua grande capacità camaleontica, osservando una linea di condotta più protesa a mediare con la Giunta militare (in vista di un risultato elettorale che ne sanzioni il peso determinante nei futuri equilibri politici del Paese) che a rendersi partecipe delle manifestazioni di piazza. Quanto alla difficile situazione in Siria, ieri 28 novembre, decine di migliaia di manifestanti pro-regime, sono scesi in piazza stamani a Damasco, per esprimere il loro sostegno al presidente Bashar al Assad e condannare la decisione della Lega Araba di imporre sanzioni al Paese. La tv di Stato ha mostrato in diretta le immagini del massiccio sit-in svoltosi in piazza delle Sette fontane, nel centro moderno della capitale. Dopo aver sospeso la Siria circa un mese fa, la Lega Araba ha imposto, sabato, sanzioni economiche contro il regime e i suoi rappresentanti, come strumento di pressione perché cessi la repressione che, secondo un bilancio datato dell’Onu, ha causato da marzo ai primi di novembre, oltre 3.500 morti per lo più civili. E sempre ieri, è giunta anche la prima reazione ufficiale di Damasco alle sanzioni economiche decise dalla Lega Araba: il ministro dell’Economia siriano ha affermato che le misure restrittive “danneggeranno ogni cittadino arabo”. In un’intervista pubblicata stamani da as Safir, giornale libanese vicino alle posizioni di Damasco, il ministro Muhammad ash Shaar ha affermato: “Si tratta di sanzioni che, oltre a colpire la cittadinanza siriana, danneggeranno ogni cittadino arabo che ha affari con la Siria”. Tra le sanzioni previste figura soprattutto la sospensione di ogni relazione tra i governi arabi e la Banca centrale di Damasco. “
Non vogliamo provocare altra sofferenza al popolo siriano”, ha spiegato domenica in conferenza stampa il primo ministro del Qatar, Hamad bin Jassim Al Thani, illustrando come da oggi la Lega non avrà rapporti con la Banca Centrale siriana e bloccherà i finanziamenti dei governi arabi per i progetti in Siria. Per lo sceicco “oggi è un giorno triste”, in quanto spera che i suoi fratelli siriani firmeranno il protocollo “per rilasciare i detenuti e sgomberare le città dai miliziani schierati a difesa del presidente Bashar Al-Assad. “Stiamo cercando di evitare qualsiasi intervento straniero”, ha continuato il ministro del Qatar, riferendosi alla minaccia di un intervento anglo-americano nel Paese. Secondo il ministro degli Esteri britannico, William Hague, la decisione presa dalla Lega è “senza precedenti” e dimostra il fatto che “il fallimento ripetuto del regime di mantenere le sue promesse non saranno ignorate… coloro che commettono questi abusi di potere saranno chiamati a renderne conto”. La Gran Bretagna, appena una settimana fa, non ha escluso un “intervento armato” nel Paese. Intanto, il quotidiano governativo russo “Izvestia”, che ha citato un rappresentante dello Stato maggiore della Marina russa, ha scritto che il Cremilino invierà, entro dicembre, tre navi da guerra in Siria. Secondo la stessa fonte, comunque, le navi hanno in programma di visitare anche Beirut, Genova e Cipro e la decisione di Mosca non avrebbe niente a che fare con le sanzioni imposte alla Siria da parte della Lega Araba, perché si tratterebbe di una visita “programmata nel 2010” e non legata all’attuale situazione siriana. Per intanto Damasco ha deciso l’allontanamento forzato di padre Paolo Dall’Oglio, gesuita che opera in Siria da quasi 30 anni, scatenando le ire del Vaticano. Il monaco, che vive presso la comunità monastica Mar Mousa, si è distinto in questi mesi per aver promosso un tentativo di riconciliazione nazionale, di rifiuto della violenza e di apertura al dialogo con le forze di opposizione. Il Vaticano ha precisato questa mattina che la situazione non è stata ancora risolta ed attorno ad essa ma si sta lavorando senza sosta. E, sempre oggi, il portavoce del Quai d’Orsay, Bernard Valero, ha riferito la proposta della Francia che vorrebbe che la Turchia partecipi giovedi’ al Consiglio dei ministri degli Esteri europei, per discutere della situazione in Siria, ricordando che la Lega Araba esporra,’ davanti al Consiglio le misure prese per fermare la repressione del regime di Damasco. Per quanto attiene all’Iran, l’Aiea ha conferma che esso sarebbe sul punto di concludere la sua ricerca per l’uso militare dell’energia nucleare, cioè che a breve disporrà di ordigni nucleari. E, nonostante le dichiarazioni ufficiali di segno contrario, Israele sembra sia in procinto di realizzare una azione militare sul modello del raid su Osirak del 1980. In due parole stiamo dicendo che sta per arrivare un conflitto di proporzioni non calcolabili. Molti esperti dicono che il possesso della bomba serve a Teheran per altre ragioni: sostenere militarmente il progetto del “grande Iran” assorbendo le province sciite di Irak, Pakistan ed Afghanistan ed assorbendo nella propria orbita i paesi sciiti come il Barhein ed i movimenti similari libanesi, siriani e sauditi. L’arma nucleare e la forte ascesa economica, sostenuta dalla rendita petrolifera, consentirebbero a Teheran di giocare un ruolo da grande potenza prima egemonizzando il mondo islamico non arabo (Pakistan, Indonesia, Bangladesh e forse Turchia) e dopo anche quello arabo. Insomma una riedizione del progetto del grande califfato in salsa iraniana. In questo quadro si capisce il perchè della retorica propagandistica contro Israele, ma di qui a scatenare un conflitto nucleare ne corre perchè la cosa sarebbe del tutto controproducente ed azzererebbe proprio quel progetto di califfato di cui si diceva. Dunque, questo dovrebbe rendere assai cauti sull’ipotesi di un intervento preventivo. Il fatto è che Israele Israele non è in grado né di avvalorare, né di smentire L’Aiea e deve muoversi in condizioni di incerta conoscenza. Ovviamente, nelle valutazioni di Tel Aviv pesa un fattore: se dovessero sbagliare sarebbero morti, in ogni caso. Oggi, inoltre, lo stato ebraico è nelle pesti perchè non ha saputo risolvere politicamente la questione palestinese: nel 1967 Dayan vinse troppo e questo ha dato agli israeliani una velenosa sensazione di sicurezza, per cui il linguaggio più efficace con gli arabi resta quello degli sganassoni. E la campagna di Natale contro Gaza nel 2006 ne è la dimostrazione più evidente. Hanno ragione i consiglieri USA: la migliore difesa per Israele è una politica di buon vicinato e collaborazione con i palestinesi, sia perchè questo toglierebbe dalle mani di tutti gli arruffapopolo ed avventurieri presenti nel mondo islamico un argomento efficacissimo, sia perchè un attacco ad Israele diventerebbe anche l’attacco ad un paese arabo ed islamico come lo stato palestinese che, anche fisicamente sarebbe intrecciato con esso. L’islamismo avanza nel cuore del mondo arabo, come dimostra la vittoria del partito “Giustizia e Sviluppo” in Marocco, un giorno fa. C’è già chi parlas di pericolo scriscia<nte ed apparenta gli islamici marocchini, con sbagliata semplificazioneal partito Akp turco di Erdogan, o ai Fratelli musulmani o al tunisino Ennahda di Gannouchi. Ma, in realtà, anche in questo il Marocco è un unicum, poiché “Giustizia e Libertà” è attivo dagli anni 60 ed ha esercitato il proprio ruolo all’opposizione parlamentare, rispettando la Costituzione, i suoi principi e le regole del gioco. Non ha niente a che vedere con la storia politica degli altri movimenti citati ed anzi incarna una democrazia islamica in ascesa grazie alla sua maturità politica, una maturità che gli altri partiti confessionali non hanno avuto per la loro storia. Certamente la fase che sta vivendo tutta la sponda Sud del Mediterraneo, anche grazie alle rivolte che hanno cacciato i dittatori, sarà senza dubbio segnata da una valorizzazione e riconferma delle origini e dell’identità con all’apice il riferimento Islam: unico valore unificante e confortante al momento per queste popolazioni deluse e frustrate dalle ingiustizie. Tuttavia non bisogna dimenticare che questa “fase Islam” è più politica che religiosa. È un Islam populista che, una volta al potere dovrà rimboccarsi le maniche, perché la parola “Inshallah” (se Dio vorrà), se è bastata a creare speranze e rialzarsi, non basterà nel far attendere ancora di riempire quel piatto chiamato sviluppo che tutti si aspettano davvero. Ci vogliono ben altre ricette, dunque, e il Pjd Del Marocco sa bene la responsabilità che lo attende. Nel suo programma di 118 pagine c’è giustizia sì, qualche riferimento all’identità islamica, ma c’è soprattutto un dettagliato piano sullo sviluppo e sulla lotta alla corruzione. Il dramma vero del Paese e del Mondo Arabo più in generale. È importante ricordare che i paesi arabi non vanno confusi con l’insieme del mondo musulmano, sia perché alcuni paesi e territori arabi comprendono significative minoranze cristiane, sia perché ci sono paesi islamici (come, solo per citarne alcuni, la Turchia, l’Iran, l’Afghanistan o il Pakistan) che non sono arabi, pur essendo a prevalenza mussulmana. Esiste, quindi, una certa differenza fra mondo arabo e mondo islamico e questo ha importanti riflessi anche culturali. Certamente, come ci ricorda Laura Guazzone nel bel volume “Il dilemma dell’Islam. Politica e movimenti islamisti nel mondo arabo contemporaneo”, edito nel 1995 da Franco Angeli, promettendo la restaurazione del “vero Islam” a società traumatizzate dalla modernizzazione e beneficiando dello scontento popolare verso i regimi in carica, fin dagli anni ottanta i movimenti islamisti si sono affermati come principale forza politica nel mondo arabo. Ma questo solo a certe condizioni, perché gli che analizzano sia il caso di paesi, come Egitto, Tunisia e Algeria, in cui la competizione politica si è trasformata in scontro aperto con gli islamisti, sia il caso di quei paesi, come Giordania e Libano, in cui la partecipazione politica degli islamisti ha contribuito sinora ad un nuovo, più democratico consenso nazionale, dimostrano che non sepre, né in tutti i casi, l’islamismo e i regimi che lo incarnano, si sono resi rei di sovvertire gli Stati, reprimere le minoranze, intensificare i conflitti regionali, contrastare con ogni mezzo l’Occidente, né di aver costituito una costante minaccia per la pace mediorientale. In Islam e democrazia, scritto nel 1992, ma pubblicato dieci anni dopo dalla casa editrice Giunti, Fatema Mernissi, attraverso la forma del saggio, riflettere sul rapporto fra oriente ed occidente a partire dall’interpretazione degli avvenimenti storici e dei processi culturali con i quali si è chiuso il XX secolo e attraverso un excursus nella storia e nella cultura islamica, mostra come la libertà di pensiero, la partecipazione politica e la concezione individualistica che è alla base dello Stato di diritto sono parte del patrimonio musulmano, nonostante esse siano state aspramente combattute fin dall’inizio della storia politica islamica. Nell’individualismo, in particolare, l’Islam avrebbe visto il fantasma dell’epoca pre-islamica, del paganesimo brutale e violento diffuso nei territori arabi prima dell’espansione del monoteismo islamico: un’epoca rimossa e condannata, secondo l’autrice, perché caratterizzata dal disordine e dalla devozione a feroci dee che esigevano sacrifici umani. Alla stessa frattura con l’era pre-islamica l’autrice riconduce la limitazione dell’immaginazione individuale che trova la sua principale espressione nella diffidenza per le arti figurative e nel divieto religioso di riprodurre la figura umana. Secondo Mernissi la mancata elaborazione di una cultura individualistica all’interno dell’islam sarebbe la causa dell’arretratezza del mondo arabo e della sua incapacità di accedere al progresso scientifico e tecnologico. Certo, l’autrice non manca di riferirsi ai danni prodotti dal colonialismo e alle attuali logiche di sfruttamento che segnano i rapporti fra occidente e mondo arabo e tuttavia queste dinamiche rimangono sullo sfondo, oscurate dall’urgenza di un mutamento culturale del mondo islamico che lo liberi dalla scelta obbligata fra tradizione autoctona e modernità occidentale. E, nell’orizzonte della globalizzazione nel quale siamo immersi, siamo tutti parte di una stessa storia, una storia che vuole descrive un occidente brillante e invincibile e di un Islam ripiegato su se stesso, ma che non convince.

Carlo Di Stanislao

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