L’Aquila, dall’ideologia dell’indifferenza ambientale al progetto del vuoto nella città policentrica

La ricostruzione della civitas aquilana, in quanto rifondazione dei caratteri costituitivi della città, si pone ormai a scala di sistema territoriale locale e di regione urbana policentrica, che mette in primo piano, come invarianti strutturali, nuove relazioni di integrazione e complementarietà fra la ricostruzione degli spazi pubblici urbani e della qualità urbana e la riqualificazione […]

La ricostruzione della civitas aquilana, in quanto rifondazione dei caratteri costituitivi della città, si pone ormai a scala di sistema territoriale locale e di regione urbana policentrica, che mette in primo piano, come invarianti strutturali, nuove relazioni di integrazione e complementarietà fra la ricostruzione degli spazi pubblici urbani e della qualità urbana e la riqualificazione multifunzionale degli spazi aperti. I modelli di città a cui ci si riferisce non sono più le metropoli o le città tendenzialmente monocentriche (Parigi, Londra), quanto piuttosto le regioni urbane policentriche (Rhein-Ruhr, Randstad Holland, la Berlino attuale), nelle quali i diversi poli mantengono una loro specifica identità. Nella città policentrica che si va prefigurando a l’Aquila il centro storico mostra un chiaro disegno, una struttura. La parte corrispondente agli sviluppi contemporanei, specie quelli del dopo terremoto, si configura come un insieme di “isole urbane nell’arcipelago verde”. Sono quartieri disegnati a livello planivolumetrico, che sorgono qua e là in mezzo alla campagna, dove contemporaneamente seguitano ad essere costruite case isolate indipendenti da un tracciato viario e da spazi aperti. Qui la città ha perso il chiaro disegno che contraddistingueva il centro storico. Gli spazi vuoti all’interno dei quartieri non hanno alcuna qualità architettonica, essendo solo il risultato di disegni astratti, in base ai quali sono stati collocati edifici dalle tipologie edilizie più comuni, senza pensare alla natura dello spazio che li separa. Questi quartieri scaturiscono da una ideologia che, pur avendo saputo rispondere efficacemente all’evento sismico, ha assegnato poca importanza al rapporto tra le persone e i luoghi, in quanto ha escluso dal proprio vocabolario il progetto del vuoto esterno. Lo spazio urbano di questi quartieri è sfocato, costruito per una società che non è chiamata a “sentire” l’ambiente, ma solo a “fruirlo” secondo le modalità e i ritmi frenetici del produrre, consumare e spostarsi da un luogo all’altro. Imbattendosi in una città del genere gli abitanti subiscono un black out e una frammentazione dei sensi e del senso di appartenenza. Come reagire a questa stato di cose e favorire un processo di riambientamento sociale? Promuovendo un sapere che riattivi una interazione tra noi e l’ambiente, che avevamo data per scontata e che invece riemerge, con le sue logiche e il suo sentire, proprio nel pericolo di perderci. A questa ricontestualizzazione del rapporto gli antropologi danno il nome di “mente locale”. In architettura il vuoto non esiste come spazio infinito indifferenziato ma, al pari della materia costruita, dei pieni, esso ha una forma, una struttura. Il suo progetto è una opportunità irrinunciabile per una nuova assegnazione di significati. Esso è un’entità autonoma che si affianca al pieno, conquistando una propria indipendente operabilità teorica. Il vuoto, inoltre, non è qualcosa privo di segni, la rappresentazione del nulla. Al contrario, esso si presenta come un campo variegato, discontinuo, come un corpo dotato di una sua materialità, costruita per detrazioni e negazioni. Il vuoto è dunque misurabile, mobile e mutevole. Alla città policentrica aquilana non le viene contestata la discontinuità della sua realtà policentrica, a patto che le venga riconosciuto, come materia progettabile, il vuoto che, come nel passato, è ancora in grado di strutturare la forma della città. Cogliere le potenzialità di questa inversione nella città contemporanea implica l’uscita da alcune “figure” della città e dell’urbanistica della tradizione, in particolare dalla più importante di esse, la “figura” della continuità dello spazio edificato e dall’idea di “forma conclusa”, verso una visione di dispositivi aperti, assumendo un punto di vista inverso: il vuoto, e non più il pieno, come inizio della riflessione progettuale. Riconosciamo in ciò gli aspetti di una città composta di elementi finiti, di oggetti distanti l’uno dall’altro, separati da una materia diversa (il vuoto) ma progettabile. Dall’altro, le modalità di costruzione di una città ampia e distesa introducono nuove proporzioni tra pieni e vuoti, nuove misure e distanze. Il vuoto diventa l’elemento strutturale e strutturante della forma della città e del territorio. Oggi, la città contemporanea di l’Aquila si presenta insieme come paesaggio artificiale e naturale, in cui il valore simbolico non sta negli edifici, ma nello spazio, nel vuoto, nella distanza, nel nuovo sistema di relazioni. Ciò vuol dire abbandonare i grandi segni architettonici e infrastrutturali sul territorio, per agire localmente sulle aree intermedie, sugli interstizi, sulle sconnessure esistenti tra i pieni, reinterpretando le parti ancora plasmabili e facendole diventare “spazi cuscinetto”, onde stabilire nuove connessioni. In una parola significa “fare mente locale”.

Giancarlo De Amicis

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