Non si vedono più le stelle / sulle nostre città, / il cielo è di fogna; / e dentro le vie, nel giorno, / solo urla di mercanti. / Terra di stranieri / l’uno all’altro, case / senza figli e padri: / ognuno è nessuno / sempre più nessuno / pur nell’impossibilità / di essere soli. / E non un angolo almeno, / una riva di fiume / ove amici si ritrovino a cantare.
Ieri, fino a ieri, il territorio sembrava solido e omogeneo. Disponibile per un uomo – l’uomo moderno, l’homo faber et oeconomicus – pronto a dominarlo. ‘In-dividuo’, separato nella sua identità particolare2, ma capace di rinvenire comuni denominatori e stipulare contratti a fondamento di Stati e Mercati. Preoccupato di consegnare modelli condivisi, istruendo ed educando. Nella complementarietà delle ‘agenzie’. La famiglia – custode la donna – offre gli affetti, la scuola prepara classe dirigente e tecnici, la parrocchia assolve ai bisogni religiosi (rigorosamente confinati nel privato). Esseri alieni sono considerati i religiosi, riveriti se gestiscono opere prestigiose, ammirati se capaci di compensare l’eccesso di mondanità della chiesa e così rispondere all’esigenza – mai del tutto sopita – di un’umanità meno scaltra. L’insieme risuonava come un’andante melodia, facilmente trasmissibile. Per un continuo progresso!
Oggi, nel tempo della ‘modernità liquida’3, tutto sembra vacillare. L’io perde forza, capacità di governo verso se stesso e verso gli altri (ma da tempo aveva compiuto quel parricidio che segna gli inizi della modernità, vera radice della sua ‘mortale’ insicurezza). E perde, quest’io smarrito, la sua unità: diventa “un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili”. Il mondo è appena un drappeggio attorno all’io. Alla terra si sostituiscono la cripta sotterranea e il dondolio sul mare. Il viaggio è senza porti, una “deriva perpetua”. Così diventa difficile crescere e far crescere: padri e figli, rischiano di restare perennemente adolescenti, come dei rizoma con le radici all’aria e il fusto sotto terra – fermo il tempo, vuota la memoria. Senza terra sotto i piedi, è sempre più sfuggente l’incontro, difficile ascoltarsi o lottare insieme (dispersi come si è in mille rivoli corporativi). Vaganti in un ‘cielo di fogna’ (l’etere televisivo e il suo entrar dentro e svuotare testa e cuore), assordati da ‘urla di mercanti’ (“sempre e solo mercato”, grida prepotente il neoliberismo), ci si ritrova ‘stranieri l’uno all’altro’. Per quanto sta accadendo in profondità, prima che per la multietnicità ormai presente in ogni territorio. Questa, infatti, fa maturare (in positivo) un senso nuovo di rispetto per la pluralità che, scoperta a tutti i livelli, rivendica di essere riconosciuta come tale (impedendo superficiali sincretismi). Al tempo stesso però (è il risvolto negativo, proprio di un’epoca di smarrimento e frammentazione), perduti riferimenti sicuri, si teme il conflitto e ci si difende ancor prima di rischiare l’incontro, oscillando tra ‘solitudine’ e ‘fortezza’ (con artigli di disprezzo contro immigrati e poveri). E anche le chiese e i conventi diventano molte volte, più che ‘rive ove cantare’ l’esodo, rifugi immunizzanti (nella commistione tra sacralità devota e nuove forme di religione civile).
2. Nella crisi una sfida e una chance: “essere uomini diversi da come siamo stati”
Una situazione disperata, quella che stiamo attraversando? Dalla storia impariamo che ogni tempo ha le sue luci e le sue ombre e che i tempi di profondi cambiamenti, di crisi, di pluralismo possono diventare un kairòs, un tempo di grazia, perché – interpellati alla radice del vivere e dell’essere uomini – siamo provocati ad elaborare forme, relazioni e significati più autentici. A diventare “uomini diversi da come siamo stati”. A sviluppare rapporti che ci aiutino ad essere, non “artificiali fiori di serra che subito appassiscono”, ma “fiori di campo capaci di resistere a pioggia e vento”. A guardare la storia nel suo compimento ultimo, che dà senso al presente e lo volge al futuro, senza dimenticare nessun uomo, senza dimenticare i vinti e gli oppressi di ieri e di oggi.
Oltre ogni angusto moralismo, inutile nostalgia, rigidità ideologica, dobbiamo trovare un orizzonte che aiuti a crescere ancora come uomini nelle terre plurali del nostro tempo. Nella ‘pazienza’, senza la presunzione di ricette pronte e facili, immediate (che non si addicono al massimo ‘capolavoro’ che è il compiersi della forma di uomo). Nella ‘resistenza’ e nella ‘lotta’, ma “senza lasciarci corrompere il cuore dall’astio e dall’amarezza”. Con la forza propria di una ‘verità altra’ rispetto a quella ‘logica’ che tutto riduce all’identità, una ‘verità intera’ (nell’intreccio di corpi e parole, ‘geometria’ e di ‘intuizione’): grembo capace di accogliere ogni differenza18 e appello della vita, in cui “ciò che è più da pensare è il più difficile da pensare.
Per questo occorrono atti improntati a fedeltà coraggiosa e a mite creatività, rotture costruttive (atti e rotture che trovano significative analogie con ogni fondazione di vita consacrata). Uscendo dalle logiche dominanti e al tempo stesso resto restando nella storia di tutti con un respiro ‘altro’, che possiamo evocare con quell’insieme di scelte e di atteggiamenti che Dietrich Bonhoeffer chiamava il ‘senso della qualità’.
Dal punto di vista sociale … significa rinunciare alla ricerca di posizioni preminenti, rompere col divismo, guardare liberamente in alto e in basso, specialmente per quanto riguarda la scelta degli amici intimi, significa saper gioire di una vita nascosta e avere il coraggio di una vita pubblica. Sul piano culturale l’esperienza della qualità significa tornare dal giornale e dalla radio al libro, dalla fretta alla calma e al silenzio, dalla dispersione al raccoglimento, dalla sensazione alla riflessione, dal virtuosismo all’arte, dall’esagerazione alla misura.
Grembo, questo, capace di far crescere ancora uomini nell’orizzonte dell’interezza, di un’interezza polifonica, di un’individualità totale, come la definisce Massimo Cacciari:
Ecco l’idea dell’individualità totale: io sono un individuo, ma totale. Nella mia individualità c’è questa comunità di assolutamente distinti che si riguardano essenzialmente. E se mi riconosco come individualità totale, non posso non riconoscere come essenziale a me il volto dell’altro. Il rapporto con l’altro è ontologicamente fondato, sottratto a ogni causalità, necessario.
3. Come famiglia, scuole, parrocchie possono farsi grembo di uomini polifonici
Come intendere, in questa prospettiva, il compito di quelle che restano le principali agenzie educative, il compito cioè delle famiglie, delle scuole, delle parrocchie?
Quanto abbiamo detto finora impegna ad un chiarimento preliminare e trasversale.
Quando genitori, insegnanti, parroci sono troppo insoddisfatti, cupi, opachi, oppure strumentali e superficiali, non c’è artificio che possa far superare questo ispessimento antieducativo, frutto di omologazione più o meno inconscia al clima dominante. Tecniche e attivismi anzi aggravano l’incapacità educativa, perché illudono, distraggono, deviano. Facendo ancor più mancare quella dissonanza con il nostro tempo, necessaria (come abbiamo visto) per riprendere forza e luce educative attraverso un orizzonte altro, l’orizzonte dell’uomo polifonico, aperto dal varco della ‘qualità’ (che Etty Hillesum chiama ‘varco verso Dio’). Per questo, piuttosto, va curata la propria interiorità (da non confondere con l’intimismo). E vanno coltivati un interrogarsi intessuto di sapienza e di stupore, un pensare alto e intero, un dialogare franco e leale.
Solo in questo cercare sereno e responsabile, ancorato al respiro più profondo della vita e della storia, la famiglia potrà coltivare relazioni sane e forme d’uomo significative. E i genitori sapranno consegnarsi ai figli con serietà e gratuità, offrendo quelle tracce corporee necessarie per far crescere uomini capaci di stare in piedi, senza fuggire la terra, e di incontrare l’altro, senza fuggire l’alterità. Per questo è importante insegnare, con l’esempio e la parola, la sintassi della vita nell’orizzonte dell’interezza (“età, sapienza e grazia”), accompagnando le nuove generazioni a scoprire (e riscoprendo gli adulti per primi) le verità iscritte nei vari tempi della vita. Vigilando con fiducia e aiutando quelle purificazioni che fanno crescere, confidando nella forza dell’amore.
Accanto alla famiglia si colloca la scuola. Oggi attaccata nella sua identità di luogo formativo, con forti tendenze a renderla azienda, a scomporre il sapere tra moduli e progetti. Con insane parole d’ordine (flessibilità, informatizzazione…). In questo contesto, la scuola potrà ancora formare uomini saldi e polifonici solo se gli insegnanti (e accanto a loro genitori responsabili) sapranno, per un sussulto di dignità, resistere alle mode dominanti e continuare l’alta tradizione della ‘paideia’ (greca e umanistica) che si sviluppa nella fatica e bellezza dell’architettura disciplinare del sapere. Per essere un luogo – fisico e non virtuale – in cui uomini in carne e ossa, pur diversi per storia ed età, parlano, dialogano, si confrontano, non in maniera generica e casuale, bensì collocando creativamente il loro rapporto dentro l’alveo della cultura, ovvero della grande tradizione occidentale (e non), della sua storia, delle sue conquiste di civiltà, dei suoi drammi e dei suoi conflitti, delle sue eccezionali intuizioni e delle sue scoperte esaltanti. Dove relazione e cultura si incontrano … connessi secondo delicati equilibri che fanno dell’educazione un tempo diverso da ogni altro kairòs dell’esistenza.
E, tra case degli uomini e luoghi della cultura, la parrocchia. Essa saprà accompagnare con verità la formazione degli uomini, e formare discepoli del Signore, nella misura in cui sarà evitata la dispersione in mille riti e attività, si offrirà ciò che è essenziale e si resterà accanto alla vita di tutti con amicizia. Nella consapevolezza che non è la stessa cosa una formazione fondata sulle devozioni e una formazione fondata su Parola, Eucaristia, fraternità, poveri. E con ministeri improntati a magnanimità e sapienza, capaci di irradiare il vangelo. Donando all’uomo polifonico il cantus firmus della fede.
Ecco come ancora oggi la Chiesa può educare alla “vita buona” del Vangelo. Ecco come ancora oggi tutti possiamo continuare a proporre ai giovani una vita “buona e bella”. Accettando la crisi come sfida, vivendo i tempi difficili come chiamata a una particolare responsabilità,.coltivando senso della qualità e ponendo segni che rimandano a ciò che è doveroso, possibile, bello.
Maurilio Assenza
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