Ieri alle 18.00 a L’Aquila si è tenuto lo spettacolo “Noi/Altri”, che ha avuto per protagonista Moni Ovadia.
Davanti al Teatro Comunale, un paio d’ore prima che il sipario si alzasse, l’artista ha prestato la sua immagine ad un progetto promosso dall’associazione culturale L’Impronta per i giovani.
Durante il servizio fotografico l’attore ha scherzato, cantato, mettendo a proprio agio gli astanti, tuttavia il tempo correva e il vento pungeva, l’ ho avvicinato quindi con la promessa di non trattenerlo molto e con la segreta speranza di riuscire a stimolare la sua verve affabulatoria. Sono stato accontentato, dopo qualche scambio di battute Moni Ovadia dilaga, l’azzurro freddo dei suoi occhi si accende, la voce profonda si fa appassionata, non occorrono troppe domande perché lui anticipa ogni possibile quesito, d’altra parte, gli artisti hanno antenne un po’ più lunghe rispetto alla norma.
Vuole parlarci dello spettacolo “Noi/Altri” ?
E’ un recital, musica e narrazione, ed è incentrato sul rapporto tra la musica colta, soprattutto la classica del ‘900, quella ebraica del centro-est Europa e quella rom.
La musica viene intesa infatti come linguaggio universale, in grado di trascendere i confini, le attribuzioni, le filologie, in quanto sorge dall’interiorità degli uomini. Vi erano grandi musicisti che andavano ad ascoltare, ad esempio, la musica rom così come quella klezmer, traendone poi ispirazione per le loro composizioni, essa appartiene quindi all’animo profondo delle genti, è appunto universale, unisce . Una canzone napoletana è in grado di commuovere ovunque essa venga cantata, la stessa cosa vale per Beethoven o per il blues, pur nascendo dalle radici di un popolo si tratta di una forma d’arte che travalica i confini, permettendo di respingere i nazionalismi e il razzismo.
Lei ha sempre dedicato, infatti, gran parte della sua poliedrica attività artistica alla riscoperta e la difesa delle radici dei popoli, della loro identità, e quest’ultima è intimamente legata a quello che è il territorio, in quanto questo viene appunto rielaborato dalle varie culture. Vedendo ora questa città, come pensa che la comunità aquilana possa riprodurre la propria identità in un territorio che è certamente molto e d’improvviso cambiato?
La questione è di sicuro molto complessa. Noi abbiamo un’identità che è in realtà plurima, in quanto essa è indubbiamente legata al luogo, ma al contempo è universale, è l’identità di essere umano, ed è condivisa. A Roma, per esempio, dirigo una scuola di musicisti i quali, oltre a suonare, agiscono, performano sulla scena come attori. Alcuni di essi sono dei ragazzini provenienti da famiglie non italiane o comunque miste e con una di loro ho un rapporto speciale, una sorta di sintonia, quasi di risonanza empatica. Si tratta di una ragazza di madre cinese e papà romano.
Sua madre si esprime come una cinese di prima generazione, in maniera quasi stereotipata, lei invece, quando parla, sembra proprio una tansteverina “burina” (ride n.d.r.), poi però non puoi non restare sorpreso dal suo bellissimo volto eurasiatico. Questo dimostra che la nostra identità è innanzitutto universale, alla quale poi si aggiunge quella del luogo, ma nulla viene trasfuso per magia, l’identità è unarelazione, non uno stato, per questo ha un rapporto stretto con l’universalità. L’Aquila è una città ferita e non soltanto dal terremoto, ma anche dai farabutti che vi hanno speculato sopra, da tutti i politici senza scrupoli che hanno colto l’occasione di “lustrarsi il distintivo” su quello che è il futuro di questa città, che ha quindi un solo modo per riscattarsi, e si chiama cultura.
È questa che costruisce poi l’identità specifica dei luoghi. Se noi togliessimo a L’Aquila la sua lingua, la sua storia, il talento della sua gente, cosa rimarrebbe? Cos’è che costituisce l’animo di un luogo, forse una fabbrica!? Solo la cultura può davvero riscattare ogni forma di sofferenza, di dolore, bisogna investire su di essa. Sono convinto che per far tornare a risplendere questa regione ed in particolare questa città, che ne ha pienamente diritto, occorre un enorme investimento culturale, che va ben oltre le new town tanto decantate. Spetterà poi agli aquilani decidere il da farsi dal punto di vista pratico, attraverso una gestione partecipata delle risorse, come avviene ad esempio in Brasile, che oggi rappresenta la sesta potenza economica al mondo. Questo accade proprio perché il paese investe sulla ricerca, sulla cultura, non è il risultato di una qualche formula magica, è semplicemente il buon senso che ce lo dice!
Sandro Coletti
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