“Se capire è impossibile, conoscere è necessario”(Primo Levi).“Là dove si danno alle fiamme i libri, si finisce per bruciare anche gli uomini”(H. Heine). Il 27 gennaio 2012 si celebra in Italia come in tanti altri Paesi del mondo, il Giorno della Memoria per non dimenticare la Shoah. Una ricorrenza condivisa e istituzionalizzata che finisce puntualmente sui corsivi dei giornali e di Internet tanto quanto nelle trasmissioni televisive. Un evento che assume ogni anno un significato particolare poiché i testimoni di quell’orrore sono fondamentali ma purtroppo il tempo passa e si avvicina il momento in cui non potremo più ascoltare la voce di chi quella tragedia l’ha vissuta realmente. Con la Legge n. 211 del 20 luglio 2000, la Repubblica italiana ha riconosciuto il 27 gennaio come Giorno della Memoria per ricordare la data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa (1945) e commemorare la Shoah, le leggi razziali, la deportazione, la prigionia e la morte di oltre sei milioni di Ebrei vittime innocenti. Nonché tutti coloro che, pur in campi e schieramenti diversi, si opposero al progetto di sterminio nazifascista, salvando altre vite e proteggendo i perseguitati anche a rischio della propria vita. Punti focali di una ricorrenza annuale oggi celebrata dalle Nazioni Unite e da più di due dozzine di Stati.
L’apertura della mente corrisponde all’apertura di quei “cancelli” con tutte le conseguenze che essa comporta per tutti noi per sempre. Sono centinaia le mostre, i convegni, i progetti, gli incontri e i dibattiti organizzati in queste settimane. Con un unico obiettivo: il ricordo di ciò che fu la Shoah, per tramandare alle nuove generazioni i valori di chi, pagando di persona, contribuì alla speranza di un mondo migliore. Perché è giusto che la parola sia data a loro, ai sopravvissuti ebrei dei campi di sterminio nazifascisti e, poi, comunisti d’Europa e d’Asia. A coloro che in prima persona hanno subito le leggi razziste, le deportazioni, la fame, le violenze e sono stati privati di ogni diritto. Ai loro familiari, i primi custodi di quelle memorie. Ascoltare le parole degli ultimi testimoni di quel periodo buio della storia mondiale, è un dovere. I loro racconti toccanti, drammatici, fanno soprattutto riflettere, ci fanno sentire vicini, solidali e uniti attorno a chi ha capito che quei momenti devono essere custoditi e trasmessi ai giovani affinché non si ripetano mai più sulla Terra e altrove. Ognuno a suo modo, ognuno con il suo tremendo bagaglio di ricordi, molti di loro combattuti fino a pochi anni fa sul se fosse giusto raccontare o dimenticare. Nelle loro storie nessun sentimento di odio, rancore, risentimento, richiesta di vendetta, ma solo il racconto sofferto di ciò che fu. Purtroppo l’antisemitismo non è finito sessantasette anni fa con l’apertura dei cancelli di Auschwitz, perché Israele è sempre in pericolo come Popolo e come Stato. Per gli ebrei l’Olocausto è una tragedia unica e senza precedenti. Nei lager tutti i bambini di età inferiore ai 14 anni e tutti i vecchi, venivano mandati direttamente alle camere a gas.
Deposizioni nei tribunali militari internazionali (Norimberga ed altri), interviste, memorie, disegni, diari, lettere, annotazioni private scritte, atti, lo confermano scientificamente. “Come è possibile che non sia più ritenuto degno di essere figlio d’Italia?”(Ada Carpi e Aldo Neppi Modona). Il dovere della Memoria va esteso a tutto il periodo della persecuzione: dalle leggi razziali del 1938 quando gli ebrei italiani, nipoti di quei patrioti-eroi del Risorgimento (poi, da sopravvissuti, della Resistenza) persero la loro cittadinanza e le possibilità di vivere in una patria che non li riconosceva più come Italiani, alla liberazione dai lager e al ritorno dei deportati (1945). Tale liberazione è ormai assurta a simbolo dell’immane tragedia della Shoah. Non basta annunciare la Giornata della Memoria. Quando si parla di memoria bisogna specificare chi ricorda e cosa ricorda. L’adesione degli ebrei italiani al Risorgimento fu convinta e largamente diffusa. “Gli ebrei vi parteciparono – spiega Renzo Gattegna, Presidente Unione Comunità Ebraiche Italiane – passando dall’attività cospirativa mazziniana, alla Repubblica Romana del 1848, alla spedizione dei Mille, sino alla conquista di Roma del 20 settembre 1870. Con l’unità della nazione, dopo molti secoli, tutti gli ebrei italiani vedevano riconosciuto il loro diritto ad una cittadinanza piena ed essi, divenuti uomini liberi, sprigionarono una grande forza creativa e parteciparono alla vita culturale, spirituale, politica ed economica distinguendosi anche nelle forze armate durante il primo conflitto mondiale”. Una domanda focale attende una risposta: dov’era Dio durante la Shoah e come è potuto accadere che la stessa piccola, civile, pacifica minoranza ebraica, che dette un così alto contributo all’unità della Patria, possa essere stata, solo pochi decenni dopo, tradita, discriminata e perseguitata? “Il regime fascista, con l’emanazione delle leggi antiebraiche sulla razza del 1938 – fa notare Gattegna – sancì il definitivo discostamento dell’Italia dalle idee di libertà, uguaglianza e democrazia fondative della Nazione. Quelle leggi che fecero precipitare gli ebrei in una condizione di disumana discriminazione furono al tempo stesso la dimostrazione della fragilità politica dello stato monarchico che, dopo aver abolito nel 1925 la democrazia parlamentare, giunse a violare per la prima volta nella sua storia i propri princìpi fondanti. Si trattò di un’involuzione e di un regresso per il quale gli ebrei per primi pagarono il prezzo più alto, ma che costò sofferenze e sangue a tutti gli italiani che furono trascinati in rovinose sconfitte militari e furono costretti a subire la feroce occupazione nazista fino all’aprile del 1945”. L’Italia iniziò a risorgere nel 1946, con due eventi di grande valore istituzionale, politico e simbolico.
“La trasformazione da monarchia in repubblica e la creazione e promulgazione, nel 1948, di una Costituzione di altissimo livello civile, giuridico e sociale, fatti questi che le permisero di riconquistare la concordia interna e quella credibilità internazionale che le garantì un posto tra le grandi democrazie occidentali”. Ma che cosa accadde nel frattempo alle vittime delle persecuzioni e delle deportazioni nei campi di sterminio nazisti, a quei pochi che riuscirono a sopravvivere e a tornare nelle loro case? “Nel dopoguerra, per anni, la Shoah non fu raccontata, spesso neanche all’interno delle famiglie. I pochi sopravvissuti, i testimoni diretti, prima di riuscire a parlare attraversarono un lungo periodo di tragica solitudine, di incomunicabilità, a volte di vergogna, presi da assurdi, ma umanamente e psicologicamente comprensibili, sensi di colpa per essersi salvati, a volte per paura di non essere creduti”. L’istituzione del Giorno della Memoria trova la sua ragion d’essere nella necessità di colmare il grave deficit di conoscenza (nella scuola pubblica, nella cultura, nella società) dovuto al ritardo con il quale la Shoah è stata raccontata e studiata in Italia e nel mondo. “La Shoah è stata un’immensa tragedia che ha colpito il popolo ebraico con un tentativo di distruzione totale. I princìpi ideologici che ne furono alla base causarono la persecuzione anche di altri gruppi e categorie; si trattò di una barbarie che agì contro la diversità in generale. Solo quando i crimini commessi emersero in tutta la loro enormità, la Shoah divenne un parametro di riferimento per giudicare il comportamento del genere umano tenuto da persone, gruppi e nazioni negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso”. Auschwitz divenne lo spartiacque simbolico tra civiltà e barbarie al punto che, da alcuni storici, il Ventesimo secolo è stato denominato il “Secolo di Auschwitz”. La Shoah avvenne nel cuore dell’Europa, il continente, allora, più moderno sul piano tecnologico e più avanzato culturalmente. “Non sempre i passi in avanti della scienza e della tecnologia vanno in parallelo con il progresso civile e morale dell’uomo e dei popoli. Il Giorno della Memoria non è un’iniziativa finalizzata a perpetuare conflitti e rancori – rivela Gattegna – ma a formare la coscienza civile delle giovani generazioni. Questo è il modo migliore per ricordare e onorare milioni di vittime, facendo sì che il loro sacrificio non resti vano, ma diventi un monito che contribuisca al progresso dell’umanità”. Dunque, il Giorno della Memoria consente di esprimere il sentimento di coesione e di unità che viene rinsaldato con questo contributo offerto dagli ebrei italiani a tutti i loro connazionali. “Crediamo, infatti, che il nostro Paese sarà più libero e migliore solo se, attraverso la conoscenza e la comprensione della propria storia, rimarrà consapevole che la conquista della democrazia costituisce un passo fondamentale ed un bene prezioso da consegnare con orgoglio alle nuove generazioni”. In effetti il germe dell’odio e dell’intolleranza viene coltivato nell’ignoranza e nell’oscurantismo. Conoscere la storia è il rimedio per prevenire il ripetersi di tragedie come la persecuzione e lo sterminio delle vittime del nazifascismo e del comunismo. Perché gli ebrei furono perseguitati anche da Stalin nelle Repubbliche Socialiste Sovietiche (Urss) e nei paesi del blocco comunista. Le foreste d’Europa e d’Asia e i gulag siberiani sono pieni di corpi che attendono Giustizia. Allo Yed Vashem di Gerusalemme mancano all’appello tre milioni di nomi di ebrei sterminati in Europa e non solo! I giovani hanno il diritto di conoscere gli avvenimenti che hanno segnato la storia e la cultura dell’Italia e dell’Europa, e il dovere di comprendere gli eventi del passato per non commettere gli stessi errori nel futuro. Nel calendario ebraico la prima giornata della memoria (yom hazikkaron) è il Capodanno, quando il Signore ricorda tutte le sue creature con misericordia. Poi c’è il ricordo dell’uscita dall’Egitto che gli ebrei fanno a Pesach, di Sabato (la Pasqua) e anche in tutti giorni. E alla vigilia di Purim, il ricordo di Amalek, nello Shabbat Zakhor, il Sabato in cui “ricorda” è un imperativo. Quindi il ricordo della distruzione del Tempio e di tutto il resto, nei giorni di digiuno stabiliti, in cui gli ebrei commemorano e chiedono al Signore di ricordare cosa è successo al popolo eletto. C’è poi il ricordo della Resistenza al nazifascismo e delle guerre recenti di Israele e delle loro vittime. Ma in questa Giornata della Memoria, per essere chiari, siamo soprattutto noi cristiani-cattolici (anche i mussulmani) che dobbiamo ricordare le “premesse” della Shoah nei secoli passati e cosa è realmente accaduto prima, durante e dopo l’Olocausto. “Gli ebrei – fa notare lo storico Gadi Luzzatto – hanno salutato generalmente con gioia e partecipazione l’emancipazione civile ottocentesca (ricordiamolo, però, concessa sempre dall’alto) e ne hanno constatato con amarezza il repentino fallimento nel 1938 e poi con maggior durezza hanno affrontato la prova della persecuzione dopo il 1943. La demografia ci dice che gli ebrei del secondo dopoguerra in Italia sono diversi da quelli del 1861 o del 1945: in decrescita quelli italiani, numerosi quelli immigrati dal bacino del Mediterraneo (Libia, Egitto, Turchia, Libano e in seguito dalla Persia).
A lungo ufficialmente “apolidi”, sono tutti portatori di esperienze storiche spesso dure, di sradicamento e spaesamento, e hanno vissuto in Italia la stessa sorte fatta di diffidenza e di relativamente non amichevole accoglienza che troppo spesso questo paese riserva agli immigrati. Soprattutto, sono figli di un vissuto differente: ragionare insieme della memoria del Risorgimento, della Resistenza antifascista, a volte della stessa Shoah può essere molto impegnativo e costituisce un terreno di sfida aperta per la costruzione di un’identità nazionale riconoscibile e, nuovamente, di un condivisibile concetto di cittadinanza”. Eventi commemorativi nazionali ed internazionali per loro natura rilevano le lezioni universali che vi si possono trarre. Convegni, film, tavole rotonde, libri, foto, testimonianze, conferenze, reti accademiche e Internet, sono utili per ricordare l’Olocausto del popolo ebraico. Ma non basta il 27 gennaio. La memoria della Shoah non può limitarsi alla commemorazione ufficiale, cerimoniale, protocollare e cinematografica in un solo giorno. Occorre (far) visitare ai giovani i luoghi dell’abisso per rendersi effettivamente conto del male assoluto sceso sulla Terra durante la seconda guerra mondiale. Occorre far capire agli “storici” negazionisti ed ai mistificatori come l’universo concentrazionario e di morte (nazifascista dei lager e comunista dei gulag) fosse il risultato di una pianificazione politica di menti umane normali (non aliene, fino a prova contraria) e non folli. Visitare Auschwitz in Polonia significa vedere l’ordinarietà industriale del male che è il contrario della vita, della pietas e del rispetto dell’uomo. Occorre organizzare viaggi e percorsi culturali direttamente nei luoghi dello sterminio che sono molti in Europa. Non solo ad Auschwitz. Bisogna visitare lo Yed Vashem (www.ucei.it/giornodellamemoria/) il museo-memoriale dell’Olocausto a Gerusalemme in Israele, dove sono anche esposte le mappe del campo di sterminio nazista di Auschwitz-Birkenau. Le piantine originali, con i dettagli della costruzione di Auschwitz sono l’illustrazione grafica dello sforzo tedesco di attuare sistematicamente la soluzione finale. Per mostrare come le attività apparentemente convenzionali di gente ordinaria hanno portato alla costruzione del più grande campo di sterminio degli ebrei d’Europa. Si può anche cominciare con una pedalata nei luoghi della Memoria di Roma, dalle Fosse Ardeatine al Museo della Liberazione di via Tasso fino al Portico d’Ottavia. Una pedalata in ricordo di Settimia Spizzichino, unica donna romana tra quelle deportate il famigerato 16 ottobre del 1943, a essere sopravvissuta ai campi di sterminio di Auschwitz e Bergen Belsen oltre che alle atrocità del dottor Mengele nel terribile blocco 10. I ciclisti convogliano inizialmente al Largo Martiri delle Fosse Ardeatine con visita al mausoleo che commemora l’eccidio del 24 marzo del 1944 quando i nazisti fucilarono 335 civili inermi come rappresaglia all’azione partigiana di via Rastella. Segue una sosta in via Licia 56, nella casa che fu di Giacchino Gesmundo, professore del Liceo Cavour morto in quella drammatica circostanza. Poi le biciclette si dirigono in via Tasso dove ha sede il Museo della Liberazione. Dove si ricorda la figura di Elvira Sabbatini Palladini, a lungo direttrice del Museo e moglie di Arrigo Palladini, partigiano duramente provato dalle torture subite in quella che fu la sede della Gestapo durante l’occupazione nazista. Ultima tappa al Portico d’Ottavia, in Largo 16 Ottobre, dove viene ricordata la deportazione degli ebrei romani iniziata proprio in quel tragico giorno del 1943. Durante la retata furono catturati 1043 ebrei. Tornarono in 16, nessun bambino, 15 uomini e una sola donna: Settimia Spizzichino, che passò la vita a raccontare alle nuove generazioni l’orrore dei campi di sterminio anche grazie al suo libro di memorie Gli anni rubati. L’iniziativa vuole ricordare la figura straordinaria di Settimia Spizzichino e farsi promotrice di un messaggio di speranza per il futuro. Che sulla spensieratezza e sulle ali di una pedalata in bicicletta possa emergere la convinzione e la fiducia di poter uscire da tutti i tunnel del nostro mondo, quali la miseria, il razzismo, la violenza e il terrorismo. Per commemorare la Shoah, l’annientamento del popolo ebraico e l’orrore dell’antisemitismo-antisionismo, ricordiamo Giovanni Palatucci, morto in Germania a 36 anni nel campo di sterminio di Dachau a pochi giorni dalla Liberazione. Ricordare è utile alla ricostruzione di una memoria condivisa europea, elemento base per l’affermazione dei principi costituzionali e dei diritti di cittadinanza. Il Giorno della Memoria rappresenta uno strumento di conoscenza indispensabile per educare alla pace, alla tolleranza e alla fratellanza. Le vie, le piazze e le targhe intitolate a Palatucci onorano la memoria dell’uomo per il quale è in corso il processo di beatificazione. Palatucci salvò la vita a più di 5mila ebrei.
È un dovere etico e morale, onorare lo sconosciuto commissario di Polizia, dirigente dell’Ufficio Stranieri di Fiume, poi Questore, ritenuto “negligente ed inaffidabile” dai diretti superiori e dalle gerarchie ministeriali. Ma che la prima Conferenza mondiale ebraica svoltasi a Londra nel 1945, accertò avere salvato la vita a più di 5mila ebrei e che, per questo, nel 1990 (anno dell’Istituzione del Memoriale Ebraico dell’Olocausto) fu insignito alla memoria del massimo onore tributato dagli ebrei: il titolo di Giusto tra le Nazioni. A questa figura straordinaria di italiano e al tragico scenario in cui lo stesso si è trovato ad operare tra il 1938 ed il 1944, è dedicata la nostra Dodicesima Giornata della Memoria. L’importanza di organizzare su tutto il territorio iniziative e cerimonie, anche in sede istituzionale, nasce non solo dalla Legge ma dal dovere di partecipare a momenti comuni di riflessione per rammentare a tutti, soprattutto alle giovani generazioni, quanto accadde al popolo ebraico ed alle minoranze etnico-religiose europee. Purtroppo la storia del Novecento ha registrato una serie di crimini contro la pace e contro l’umanità, da quelli dei nazisti a quelli perpetrati dal comunismo, entrambi regimi negatori di libertà. Come ci ricorda il massimo storico dell’Olocausto,“il ricordo non può mai essere imposto, ma solo trasmesso; e quello del genocidio resta vivo”. Sono state organizzate manifestazioni ed incontri per commemorare la Shoah, moltissimi dei quali coinvolgono i ragazzi delle scuole di ogni ordine e grado. Si segnalano le iniziative patrocinate dal Comitato di coordinamento per le celebrazioni in ricordo della Shoah (www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/giorno_memoria_2012/). Per diffondere un clima orientato al rispetto reciproco, nelle diversità di culture e religioni e per contrastare ogni manifestazione di razzismo e antisemitismo è necessario, oggi più che mai, l’impegno di tutti, anche attraverso la consapevolezza di ciò che è stato. Durante la cerimonia per l’anniversario dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, nell’irreale scenario del campo sotto la neve, ricordiamo con sgomento la descrizione di Primo Levi, soprattutto il suo monito a considerare i “campi di distruzione come un sinistro segnale di pericolo”. Essi, secondo Levi, sono alla fine di una catena che inizia con una convinzione che giace in fondo agli animi come un’infezione latente: una convinzione più o meno consapevole secondo la quale “ogni straniero è nemico”. Una convinzione che, quando diventa idea fondante di un sistema di pensiero, ha nel lager la sua coerente ed estrema realizzazione. La memoria non è un patrimonio cristallizzato, ma è quel filo che lega saldamente il passato, il presente e il futuro. E lo condiziona. Ricordare il passato significa strapparlo all’oblio e tenerlo sempre come monito affinché gli errori commessi non si debbano ripetere, affinché lo “straniero”, il diverso, non debba mai più essere odiato, affinché l’ignoranza ed il pregiudizio non conducano ancora all’intolleranza e all’odio. È stato proprio in fondo a questo percorso che milioni di esseri umani hanno trovato in Europa e in Asia i campi di sterminio nel XX Secolo. Non bisogna stancarsi di ripetere, soprattutto ai giovani, che tutti gli esseri umani sono uguali (appartenenti all’unica razza umana) e che tutti hanno diritto al rispetto, alla dignità e alla libertà. La difesa di questi valori è un dovere di tutti e in particolare di chi ricopre incarichi di responsabilità nell’educare le nuove generazioni, affinché attraverso la consapevolezza delle proprie radici e la riflessione sul significato della propria esistenza, possa essere sradicata dalle coscienze quell’infezione latente di cui parlava Primo Levi, e possa essere infine proclamata la vittoria del Diritto sulla sopraffazione e la vittoria della Civiltà sulla barbarie. Perseguitati dopo l’introduzione delle leggi razziali, espulsi dalle scuole all’inizio dell’anno scolastico del 1938, gli ebrei diventarono presto in Italia cittadini di seconda categoria: furono licenziati dai pubblici impieghi, radiati dagli albi professionali. Alle grandi discriminazioni si sommarono le umiliazioni di ogni giorno come il divieto di frequentare locali pubblici, con la scritta:“vietato l’ingresso ai cani e agli ebrei”.
Le comunità ebraiche dovettero addirittura stampare degli elenchi telefonici propri, poiché gli ebrei erano stati cancellati dagli elenchi pubblici. Il 30 novembre del 1943 il ministro Buffarini-Guidi emanò l’Ordine di Polizia n.5 in cui veniva annunciato che tutti gli ebrei, residenti nel territorio nazionale, sarebbero stati inviati in appositi campi di concentramento. Poi iniziò la deportazione di donne, vecchi e bambini. La maggior parte decise di restare, ignara di quello che gli sarebbe successo, alcuni fuggirono in campagna o si unirono ai partigiani. Altri, con le loro famiglie, tentarono di raggiungere la Svizzera e gli Stati Uniti d’America come la famiglia di Tullia Zevi che ricordiamo con affetto nel primo anniversario dalla scomparsa. Molti furono rispediti indietro alla frontiera, i più fortunati riuscirono a passare il confine pagando cifre altissime ai contrabbandieri. Per tutto il 1944 ci fu una vera e propria caccia all’uomo, con uno stillicidio di persecuzioni e deportazioni da parte delle SS e dei fascisti. Con la liberazione i sopravvissuti per anni rimasero in silenzio, cercando di negare anche a sé stessi la verità su ciò che avevano vissuto. Come negare che tra i cittadini di una città ormai estranea, c’erano anche i delatori che per pochi denari avevano denunciato gli ebrei nascosti? Benedetto XVI, nella sua visita alla sinagoga di Roma, ha riaffermato categoricamente “l’impegno della Chiesa cattolica e il suo desiderio di approfondire il dialogo e la fraternità con il Giudaismo e con il popolo ebraico, secondo la ‘Nostra Aestate’, il conseguente magistero e in particolare quello di Giovanni Paolo II”. Dalla scuola i bambini non devono essere tolti “neppure per la costruzione del Tempio”, insegna il Talmud. È possibile una memoria condivisa incardinata nella pedagogia ebraica (“mi-dòr ledòr”, di generazione in generazione) e cristiana? Negli ultimi tremila anni le fantasie dei bambini ebrei e cristiani hanno lasciato il segno nelle nostre città. Sappiamo del fascino esercitato da alcuni episodi biblici, ma non sappiamo con quali occhi giudicassero la trasformazione antropologica in atto. A dodici anni dalla sua istituzione ufficiale in Italia, il Giorno della Memoria ha ancora un significato oppure il suo contenuto si è ormai svuotato?Che efficacia possono avere oggi i racconti quando anche gli ultimi testimoni stanno scomparendo e la memoria cede definitivamente il passo alla storia? I riti e le commemorazioni pubbliche sono solo retoriche scadenze di un evento passato o sanno essere interrogazione sul presente e sulle sue contraddizioni? Come si pongono le nuove generazioni nei confronti della persecuzione e dello sterminio degli ebrei europei e quale può essere il ruolo della scuola, oltre il dovere della memoria? Sono questi alcuni dei principali interrogativi su cui bisogna riflettere. La “sfida” è nuovamente lanciata a chi sul territorio rappresenta le Istituzioni e si deve barcamenare fra retorica e realtà presente. Prima ancora che tentare di dare risposte o fornire spunti di riflessione su tali quesiti, bisogna far conoscere e ricordare la Storia degli ebrei che vissero in prima persona la persecuzione e l’annientamento, oltre che fisico, morale negli ultimi duemila anni nel Mediterraneo, in Italia e in Europa. Storie come tante in quel periodo di persecuzioni che ci aiutano a comprendere allo stesso tempo i meccanismi dell’esclusione, dell’intolleranza e della violenza razzista ma anche a riflettere sulla presenza, se pur minimale rispetto alla foga nazifascista, dei giusti e di quanti seppero dire di NO, mettendo in pericolo la propria vita pur di aiutare le vittime ingiustificate della furia di Hitler, Stalin e Mussolini. Fare il punto sulla nostra memoria, sull’intreccio fra oblio, rimozione e ricordo, e sulla necessità dell’elaborazione di un passato che non abbiamo ancora saputo guardare in faccia fino in fondo, questo è il nodo principale del Giorno della Memoria. Purtroppo l’antisemitismo non è finito. Il 2009 è stato il peggiore anno dalla fine della seconda guerra mondiale per gli episodi di antisemitismo nell’Europa occidentale. Nel 2009 si sono registrate centinaia di violenze nei confronti di ebrei, in particolare in Gran Bretagna, Francia e Olanda.
La ragione è che l’antisemitismo da odio alla religione e alla fede ebraica si è spostato a odio per Israele, l’Ebreo dei popoli. Il risultato è sempre lo stesso. Perché a essere colpite sono le persone, gli ebrei. Anche se la Germania celebra il Giorno della Memoria del 27 di Gennaio sin dal 1996, la spinta a fare lo stesso in molti altri Paesi è arrivata solo dopo il decisivo Forum Internazionale sull’Olocausto tenutosi a Stoccolma nel 2000, dieci anni dopo che la caduta del comunismo aveva permesso un’esplorazione senza censure della storia. In molti paesi comunisti, lo studio e la commemorazione della Shoah erano stati limitati e le questioni ebraiche soppresse. Al Forum di Stoccolma, i leader di 46 nazioni promisero di promuovere l’educazione e la ricerca sull’Olocausto, e di “incoraggiare forme appropriate di commemorazione dell’Olocausto, inclusa un’annuale Giornata della Memoria”. Molte delle nazioni partecipanti scelsero il 27 di Gennaio, data l’importanza di Auschwitz come simbolo dell’Olocausto, e l’Assemblea Generale dell’ONU nel 2005 scelse questa data come il Giorno Internazionale della Commemorazione in onore delle vittime dell’Olocausto. Molti Paesi hanno scelto, invece, date che marcano momenti dell’Olocausto all’interno dei loro territori. In Polonia è il 19 di aprile, anniversario della Rivolta del Ghetto di Varsavia. La Romania ha scelto il 9 di ottobre, il giorno del 1941 in cui il governo rumeno alleato dei nazisti cominciò a deportare gli ebrei. Non è stato facile selezionare i vincitori del concorso “I giovani ricordano la Shoah”. Anche quest’anno la qualità dei lavori pervenuti da tutt’Italia era elevatissima sia dal punto di vista dei contenuti sia per le modalità di espressione che hanno spaziato dalla scrittura al cartone animato, dal disegno all’installazione artistica.
“Il Giorno della Shoah per riprendere il pensiero di Elie Wiesel, costringe tutte le sfere della società a fare in modo che il nostro passato non diventi il futuro dei nostri figli” – osserva Leone Paserman presidente della Fondazione Museo della Shoah. “Dopo Auschwitz si pensava che l’antisemitismo non ci sarebbe più stato purtroppo non è così”. Per questo è importante inserire il concetto di interesse per il Giorno della Memoria e non solo quello di dovere. “Se dieci anni fa la parola memoria era un termine tipicamente ebraico e fortemente legato alla vicenda della Shoah – spiega Victor Magiar – oggi è un termine che appartiene anche ad altre grandi questioni e ha aiutato a costruire consapevolezza e coscienza. Un altro risultato d’importanza fondamentale è il fatto che da un decennio nelle scuole si realizzano importanti attività di divulgazione e di approfondimento. Abbiamo visto anche che l’esperienza dei viaggi nei luoghi simbolo della Shoah, se preceduti da un’adeguata preparazione, rappresentano per i ragazzi una delle esperienze più formative e più forti. L’impatto sulle nuove generazioni di tutte queste iniziative è molto forte. I ventenni di oggi sanno della Shoah cose che i coetanei delle generazioni precedenti ignoravano. E sapendo cos’è la Shoah comprendono le ragioni profonde del vivere in una società democratica e libera: capire la Shoah immunizza da rischi di demagogia o intolleranza e crea giovani cittadini democratici. La soddisfazione di riscontrare una costante crescita d’attenzione e di coscienza civica, soprattutto nei giovani, grazie alla narrazione della vicenda della Shoah, ci obbliga a un salto di qualità: non solo raccontare quanto accaduto ma fare sì che il racconto serva a capire come ciò è potuto avvenire, quale sia stata la logica che ha generato questa tragedia, perché solo questo ci può aiutare a prevenire che avvenimenti di questo genere abbiano a ripetersi. La stessa naturalezza con cui oggi, davanti ai nuovi timori delle società europee, alla grande confusione e demagogia sui temi del razzismo, dell’immigrazione e del terrorismo, possono prevalere indifferenza, irresponsabilità, paura. Quando si analizza un disastro si scopre sempre che questo avviene perché l’opinione pubblica non ha vigilato e le istituzioni pubbliche non hanno fatto il proprio dovere. Se la Shoah è stata un punto di svolta nella storia, il Giorno della Memoria deve essere un momento apicale, una sorta di vedetta da cui osservare la nostra esperienza storica e la nostra società. Noi tutti, non solo gli ebrei, siamo come sentinelle che non devono vigilare sul passato ma proteggere il futuro. Non dobbiamo diventare guardiani della memoria, non siamo conservatori di un museo”. L’intenzione va rivolta al futuro, grazie anche al nuovo libro di Pierluigi Battista “Lettera a un amico antisionista”(Rizzoli). “Il tentativo di annientamento degli ebrei d’Europa perpetrato dal nazismo e dai suoi alleati, nel segno di una ideologia criminale che si abbatté anche contro altre categorie, teorizzando la supremazia di uomini su altri uomini e portando l’Europa e il mondo a una immane catastrofe – fa notare Gattegna – è una parte della nostra storia collettiva che scuote le coscienze, spingendo le persone a chiedersi come possa essere potuto accadere. Molti saggi e opere letterarie hanno posto questioni filosofiche e teologiche in merito alla tragedia della Shoah, quale abisso nella storia umana. Per questo, il monito che la Shoah rappresenta è valido per tutta l’umanità, e da esso nasce l’imperativo: dobbiamo conoscere quel che è stato, perché non dobbiamo permettere che accada di nuovo”. L’orrore per quanto avvenuto fu alla base della fondazione di una Europa incentrata sui valori del rispetto dei diritti umani e della dignità di ogni persona. “E proprio partendo dalla cesura storica che la Shoah rappresenta, fu promulgata nel 1948 dalle Nazioni Unite la “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”, il cui primo articolo, “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali, in dignità e diritti”, ne è il significativo fondamento”. L’Europa è culla e depositaria del bagaglio morale, filosofico e culturale che quegli eventi, tragicamente, ci hanno lasciato. “E in un momento di crisi quale è quello che stiamo vivendo, è molto importante tenere presenti le radici e i valori sui quali si fonda il vivere nel nostro consesso civile. Perché la crisi può essere anche una risorsa, una opportunità e una occasione di riflessione e di verifica. Al contempo occorre, senza allarmismi e con fermezza, tenere d’occhio le storture e i veleni, anche razzisti e xenofobi, che i momenti di difficoltà possono far emergere.
Per questo oggi più di ieri dobbiamo prestare attenzione, operando per prevenire la deriva nazionalista e razzista di alcune frange della società, in Italia e all’estero”. Per molti secoli gli ebrei sono stati perseguitati perché legati tenacemente alla propria identità, e hanno dunque una plurisecolare esperienza dell’essere minoranza, molto spesso discriminata quando non perseguitata. “La nostra storia può fungere dunque da esempio, per quei gruppi ed etnie che faticano a integrarsi e che ritengo costituiscano, per le moderne società plurali e multiculturali, un vero patrimonio. Il Giorno della Memoria, che è stato istituito con una Legge dello Stato che coinvolge, ed è fondamentale, il mondo della scuola, in questi anni ha contribuito a generare in tanti giovani gli anticorpi contro il pregiudizio, a diffondere una cultura dell’accoglienza, del rispetto delle diversità. E anche, ci auguriamo, a stimolare la voglia di conoscere, di studiare, di approfondire la storia”. Determinanti sono gli incontri con i testimoni della Shoah. “È grazie alla loro disponibilità, che a volte comporta per essi impegni non poco gravosi, che è possibile tramandare una esperienza diretta di quanto avvenne nei campi di sterminio nazisti, e per questo desidero indirizzare loro il mio caloroso ringraziamento e un affettuoso abbraccio”. Nel 2012 cade il venticinquesimo anniversario dalla scomparsa di Primo Levi, lo scrittore torinese che con le sue alte testimonianze ha contribuito a descrivere e decifrare la barbarie dei campi di sterminio. “I suoi libri sono un patrimonio di tutto il mondo, e uno degli strumenti di conoscenza di maggior valore. “Se capire è impossibile, conoscere è necessario”, ha scritto. È con un pensiero rivolto a lui, fondamentale testimone e divulgatore dell’odissea e della tragedia degli ebrei italiani, che intendo salutare le iniziative e le celebrazioni del Giorno della Memoria 2012”. Non possiamo celebrare il Giorno della Memoria semplicemente ricordando, sia pure con tutto il cuore e la migliore buona volontà. L’illusione che la storia del mondo marci nel progresso, ci ha illuso che “mai più” non fosse un auspicio, ma una constatazione. Invece, è una tragedia durissima. L’Onu, nato sulle ceneri della Shoah, è stato innanzitutto fondato per garantire che la politica o l’incitamento per il genocidio siano proibiti su tutto il pianeta Terra secondo la Legge internazionale. Le convenzioni dell’Onu contro il genocidio lo prevedono. Ma nella realtà, abbiamo visto cos’è accaduto in Cambogia, in Darfur, in Rwanda, abbiamo visto i tentativi di genocidio in Tibet e in Bosnia. Quanto all’incitamento all’odio razziale e tra le generazioni, ormai è cibo quotidiano, e basterebbe un tribunale internazionale ad hoc per giudicarlo come di dovere. Ma chi lo fa? “Ricordare per non dimenticare” è lo slogan più diffuso in questi giorni. Eppure c’è chi non si accontenta, c’è persino chi protesta contro una Memoria data per scontata, che rischia di offuscare il diritto individuale alla singole memorie. Una Memoria sbandierata per ripulire le coscienze collettive e che, in alcuni casi, ha persino prodotto una classe di “professionisti della Memoria”.
Tra i “ribelli della Memoria”, spiccano i nomi di due personaggi diversissimi tra loro, ma uniti dal rifiuto della museificazione della Shoah, e della dolorosa esperienza ebraica più in generale. “Sono la storica francese Annette Wieviorka, classe 1948, docente del Centre National de la Recherche Scientifique, la più autorevole istituzione accademica d’Oltralpe, e lo scrittore di Tel Aviv, Etgar Keret, classe 1967, che negli anni Novanta ha dato il via a una new wave della letteratura israeliana” – rivela Anna Momigliano. Annette Wieviorka, che ha ripetutamente denunciato la “riduzione della Memoria a una ideologia”, se non addirittura a un’industria, scrive su “Pagine Ebraiche”, il mensile dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane:“Sono appena rientrata da una riunione della giuria del concorso annuale per la tutela dei valori espressi dalla Resistenza e contro la deportazione in Francia. Si tratta di una grande iniziativa che coinvolge molte scuole francesi e tutte le organizzazioni di ex deportati. La giuria è composta da 40 persone e fra di loro ho contato tre anziani, che rappresentavano il mondo di chi era in grado di portare una testimonianza e una conoscenza diretta sul tema. Tutti gli altri componenti erano rappresentanti di enti pubblici e di fondazioni private, direttori di musei, docenti di vario genere. Tutte persone degnissime, ma che traggono la loro esclusiva legittimazione dal fatto di aver ottenuto un impiego in questo settore. Sono funzionari della Memoria, appositamente retribuiti. E la Memoria rischia di ridursi a un’ideologia, se non addirittura a un’industria”. Non nasconde che, talvolta, una Memoria troppo esibita può nascondere il tentativo di esorcizzare un confronto con la coscienza storica o politica. “Possiamo osservare che sulla Memoria si dimostrano non a caso particolarmente sensibili governi e istituzioni ansiose di far dimenticare qualche imbarazzo del passato (per esempio una politica di estrema tolleranza nei confronti di Arafat e del terrorismo palestinese, o radici che affondano nel terreno avvelenato dell’estrema destra antisemita). E possiamo osservare che in occasioni di importanti contatti istituzionali le istanze che provengono dal mondo ebraico e le disponibilità che provengono dal mondo politico tendono a incrociarsi sul terreno della Memoria”. Con tutto un altro tono, e altre motivazioni, lo scrittore israeliano Etgar Keret estende l’attacco a una Memoria troppo istituzionalizzata (e spersonalizzata) non solo alla Shoah, ma anche alla storia recente e alle guerre dello Stato di Israele. Keret, che in questo è stato il precursore di una serie di giovani scrittori iper-individualisti e intimisti, rivendica prima di tutto il diritto a una memoria personale, legata al vissuto reale più che alla lettura che le istituzioni offrono di questo vissuto. “La gente si è arrabbiata molto” – racconta lo scrittore in un’intervista al mensile The Believer. “Parlare della Memoria, di Rabin, dell’Olocausto o delle vittime di guerra, è una sorta di monopolio nazionale. Eppure i miei genitori sono sopravvissuti dell’Olocausto, ho votato per Rabin, ho creduto in lui, e il mio migliore amico è morto durante il servizio militare. La Memoria è anche mia, ma se tento di appropriarmene a modo mio la gente si arrabbia”. C’è poi la memoria cinematografica. Il “cinema della Shoah” è da molti anni oggetto specifico di attenzione critica da parte di studiosi e osservatori in tutto il mondo. Prima di tentare una riflessione sullo “stato dell’arte”, facciamo un rapidissimo excursus storico per rintracciare alcune tipologie nel tempo. Nulla come il cinema risveglia la memoria e il vissuto di ciascuno. “Sin dall’inizio, documento e fiction si intrecciano strettamente – spiega il professor Mino Chamla – certo il documentario presenta modalità che appaiono assai ben scandite e distinguibili nel corso degli anni. Dopo le riprese effettuate dagli stessi nazisti, e destinate a essere riesumate variamente più tardi, è quanto filmato in presa diretta dagli Alleati, a Est e a Ovest, alla liberazione dei campi, a occupare la scena, anche se nella maggior parte dei casi queste pellicole dovranno aspettare almeno una trentina d’anni per venire proposte al pubblico nella loro – peraltro sempre relativa – integralità”. “Memory of the Camps”, girato da Sidney Bernstein dopo l’arrivo di inglesi e americani nel campo di Bergen-Belsen, ebbe la consulenza di Alfred Hitchcock, specialmente per quel che riguarda la scelta decisiva di fare riprese in campi lunghissimi, e testimonia la veridicità dei luoghi e dei tempi. “È il film, per intenderci, nel quale i buoni cittadini tedeschi dei dintorni vengono portati a vedere quel che era accaduto nel campo, e questo, com’è stato notato, non soltanto a scopo punitivo-educativo, ma anche e soprattutto per rafforzare quell’aura di autenticità che si voleva perseguire”. A partire dagli anni Cinquanta sono i film di montaggio a prevalere, “film cioè che per definizione assemblano variamente materiale di provenienza eterogenea, con l’intento retorico (nel senso buono del termine) di mostrare la natura criminale in generale del regime nazista, a partire dal sistema concentrazionario”. L’apice è costituito dal pur breve (e proprio la brevità è uno dei suoi elementi di forza) “Notte e nebbia” (Nuit et brouillard, di Alain Resnais, 1956), con il forte commento di Jean Cayrol e con incredibili conseguenze già “mediatiche” negli anni a seguire. “Si pensi alla scena di Anni di piombo (Die bleierne Zeit, di Margarethe von Trotta, 1981) nella quale giovani tedeschi, alcuni dei quali destinati a intraprendere la strada del terrorismo, vedono il film, ne restano scioccati e ne discutono, soprattutto per quel che riguarda “le colpe dei padri”. Ma si devono notare, a proposito di Notte e nebbia, almeno due cose. C’è il fatto, innanzitutto, che non si tratta già più di puro montaggio, con scene a colori, sui luoghi coinvolti, che si alternano a quelle di repertorio in bianco e nero. Ed è pure molto significativo che nel cortometraggio di Resnais non si parli praticamente mai di ebrei, quasi a indicare con forza il valore universalmente umano della vicenda”. Con gli anni Ottanta matura anche nel cinema l’era del testimone, ed è appunto il film di testimonianza e memoria a emergere con forza, “anzi a divenire un genere quasi codificato”. Ma all’origine sta subito “un capolavoro assoluto e fuori dalle righe” come “Shoah” di Claude Lanzmann (1985). “L’invenzione narrativa si intreccia sin dal principio, per il cinema della Shoah, con la ripresa documentaria dal vero. E questo è vero alla lettera, qualora si pensi alla fiction drammaticamente docu (ma comunque fiction) di Wanda Jakubowska, vera ex deportata polacca che realizza ad Auschwitz il suo film, “L’ultima tappa” (Ostatni etap, 1948), collaborando strettamente con molti altri sopravvissuti. E c’è un evidente parallelo con la prima ondata, in quegli stessi anni dell’immediato dopoguerra, di diari e testimonianze della persecuzione e della prigionia; l’ondata, cioè, di Primo Levi e di tanti altri che, allora, nessuno volle ascoltare”. Abbiamo poi una lunga fase, tra anni Cinquanta, Sessanta e primi Settanta, “in cui il tema della Shoah è affrontato, nel cinema di finzione, americano e non solo, con maggiore o minore coraggio, ma comunque sempre “di lato”, come ingrediente narrativo tra altri, e spesso come mero elemento di spettacolarizzazione”. Vanno ricordati, anche per il modo sempre più esplicito col quale vengono affrontate le tematiche, film come “Kapò” di Gillo Pontecorvo (1960) e soprattutto alcune straordinarie pellicole realizzate nell’Europa orientale, come “La passeggera” di Andrzej Munk (Pasazerka, Polonia, 1963), “Il negozio al corso” di Jan Kadár e Elmar Klos (Obchod na korze, Cecoslovacchia, 1965), e altri ancora. “Dov’è senz’altro notevole il fatto che nel cinema, all’Est, il discorso sulla catastrofe occorsa al popolo ebraico durante la seconda guerra mondiale è molto più esplicito che nelle parallele celebrazioni ufficiali degli stessi anni negli stessi paesi, quando gli ebrei in quanto tali spariscono e divengono soltanto vittime come tutte le altre”. Alla fine degli anni Settanta comincia un’epoca decisamente nuova e di distacco dal passato, con ricorrenti film-evento: dal televisivo “Holocaust” (Usa, 1978, vincitore di 8 Emmy Awards, tra cui Migliore Miniserie, e di 2 Golden Globe, tra cui Miglior Attore Tv Michael Moriarty), al decisivo “Schindler’s List”, a “La vita è bella”, e moltissimi altri capolavori minori. “Una copiosa letteratura si è sviluppata contemporaneamente a quest’ultima fase, ed è cosa che è già significativa di per sé, come se soltanto a partire da una produzione cinematografica matura sull’argomento si potesse passare a una vera ricognizione critica, anche retrospettiva e anzi risalente alle origini. Questa letteratura critica è spesso, innanzitutto, repertorio e catalogazione, in quello che è forse il più puro stile, peraltro benemerito, degli studiosi soprattutto americani, con una spiccata tendenza, cresciuta negli anni e a tratti alquanto fastidiosa, a cadere in una sorta di bizantinismo classificatorio tale da mettere in evidenza ogni possibile intreccio tra argomenti, generi e sottogeneri. Ma c’è anche, in questa letteratura, molta e mai sopita vis polemica, ad esempio in termini di critica della “riduzione a spettacolo” e di attenzione al fenomeno della americanizzazione della Shoah”. Fenomeno quest’ultimo che va ben oltre l’ambito cinematografico, ma che indubbiamente nel cinema trova un suo terreno particolare d’elezione. “Ed è pure evidente come l’americanizzazione della Shoah non debba necessariamente comportare soltanto elementi negativi. Soprattutto, e non può essere altrimenti, gli studiosi hanno in qualche modo portato al dibattito e quasi codificato i problemi classici relativi a un “cinema della Shoah”, e cioè quelle grandi questioni che si impongono con necessità all’osservatore”. E quali sono questi problemi classici? “Per primo, c’è senz’altro il problema della “rappresentazione vera”, con tutto il suo seguito di realismo, realtà storica, accurata ricostruzione, attenzione ai particolari ecc. Ma subito dopo vengono questioni come quella dell’orizzonte di pre-comprensione che sta dietro a un film come a qualsiasi altro prodotto creativo: di cosa si vuol parlare quando si filma la Shoah; quali sono i preconcetti, le finalità e i più generali orientamenti ideologici alla base dell’ispirazione e della realizzazione; ma anche quel che si sceglie di rappresentare e come. Infine, last but not least, è certamente la rilevanza data alla dimensione ebraica dell’evento che costituisce un topos critico di urgenza sempre maggiore col passare del tempo”. A modo di esempio il prof. Mino Chamla prova a leggere attraverso quest’ultimo paradigma, quello appunto dell’ebraicità dell’Evento, alcuni “film evento” degli ultimi decenni. “Olocausto (Holocaust, Tv, di Marvin Chomsky, 1978) è, com’è stato notato, un programmato e pantografato riassunto, attraverso la storia di una famiglia ebraica tedesca, di tutto quel che ha subito il popolo ebraico nel periodo 1933-45, dalle Leggi di Norimberga all’imbarco di tanti sopravvissuti per la Palestina. In altre parole, si tratta (da parte di un regista che poco prima, peraltro, aveva realizzato “Radici”, alla ricerca dunque di altre tormentate genealogie) di offrire, attraverso il mezzo popolare per eccellenza della televisione, davvero una prima esplicita ricostruzione (narrativamente sapiente anche se storicamente debole) dell’intera vicissitudine nel suo impatto complessivo sul popolo che ne è stato la vittima designata. E si capisce come Olocausto abbia costituito un vero e proprio trauma soprattutto per gli spettatori tedeschi. Schindler’s List (di Steven Spielberg, 1993) è invece, in modo dichiarato e nonostante il protagonista non ebreo del titolo, un tentativo di leggere la Shoah come un evento che si inserisce fino in fondo in una prospettiva storica ch’è pure fortemente ebraica, in senso molto identitario, come bene indicano l’inizio e la fine del film, e dunque la collocazione della vicenda tra la tradizione, anche e soprattutto “religiosa”, e il moderno inveramento del Sionismo e dello Stato d’Israele. La vita è bella (di Roberto Benigni, 1997) rappresenta bene, da questo punto di vista, un’intenzione molto lontana e quasi opposta, rispetto a quella spielberghiana, con una marcata ri-universalizzazione del dramma, sia pur partendo esplicitamente dalla “questione ebraica”, e anzi dalla questione razziale nell’Italia fascista. I protagonisti (tra l’altro, una famiglia “mista” che irride, già con il suo stesso esserci, questioni e leggi razziali di ogni ordine e grado) sono persone qualunque esposte alla violenza insensata della storia, prima ancora che portatori consapevoli di una qualche comunanza di destino storico e meta-storico. Molto diverso pare, da questo punto di vista, un film spesso accostato (per una serie di ragioni delle quali la quasi contemporaneità risulta tutto sommato la meno importante) a La vita è bella, e cioè “Train de vie” (di Radu Mihaileanu, 1998), dove tutto, dal titolo all’«umorismo sognatore e difensivo» alla dimensione collettiva della vicenda, rimanda a una forte e “segnata” connotazione ebraica – fino all’estremo dell’incontro/confronto con un’altra cultura “forte”, e senza nazione, dal punto di vista identitario, come quella degli zingari. “Il pianista” di Polanski (2002) sarà invece, alla fine di questo breve excursus, il ritorno alle ragioni dell’individuo, un film soloista [ok?], come è stato definito, dove appunto la sopravvivenza anche casuale del singolo viene in primo piano, sia pure in un contesto storicamente accuratissimo, e quindi fatalmente molto “ebraico”. E siamo pressoché agli antipodi di quell’Olocausto da cui eravamo partiti…”. Dunque, anche da questo punto di vista, ci manca fortissimamente quel “Film sulla Shoah” che Kubrick aveva in progetto di realizzare nei suoi ultimi anni di vita. “Tuttavia, la vera, grande e anzi somma questione alla quale si deve ritornare è pur sempre quella della rappresentazione, in tutte le sue declinazioni possibili. Ed è la grande questione anche perché è, spesso e volentieri, assolutamente fraintesa e mal posta. In effetti, il cinema è, in senso lato, una forma di narratività particolare; il cinema è anche un peculiare ritorno alla realtà fisica, come voleva Siegfried Kracauer; il cinema è forse davvero, infine, per dirla con Gilles Deleuze, omologo al pensiero e alla filosofia “creativa”; ma, insomma, il cinema non è mai mera rappresentazione. Semmai, è appunto il cattivo cinema a essere, o a tentare di essere, pura rappresentazione, mentre quello “importante” ed epocale non lo è mai, né può esserlo”. È proprio la storia del “cinema della Shoah”, che potrebbe riceverne un po’ di luce. “Quando si parla dell’irrappresentabile per eccellenza, non si tratta principalmente di un presunto sviluppo del linguaggio cinematografico, o anche di un adeguamento progressivo della forma al suo contenuto. Anzi, da questo punto di vista si potrebbe ricorrere a una formula quasi provocatoria, e cioè che: il cinema della Shoah è passato, nel corso del tempo, da un non sapere rappresentare a un sapere e volere non rappresentare.
In realtà, la non-rappresentazione, a volerla chiamare così, per i film soprattutto più recenti, va ricollegata strettamente a uno sfondo complesso, senza aver cognizione del quale è impossibile, letteralmente, capirci qualcosa – a meno che, appunto, ci si voglia accontentare di qualche delirio cinefilo sullo “specifico filmico” o simili”. In altre parole? “Dietro i grandi film che hanno fatto discutere, negli ultimi anni, c’è proprio il contesto della “memoria della memoria”, o anche, semplicemente, quel pressante problema dell’interpretazione della Shoah che, da almeno 25-30 anni, incalza tutti, o comunque tanti, ebrei e non ebrei, quasi ossessivamente, spingendo a rivedere via via tutte le categorie riguardanti la storia, la memoria, il pensiero, l’etica, anche la rappresentazione, in senso lato, e quant’altro, intorno all’Evento. Né si può dir molto, anche se si vorrebbe, sulle relative questioni di periodizzazione, tra “era del testimone” e suo ineludibile destino a essere “oltrepassata” (senza troppo danno, si spera, per la memoria, e quindi per noi), tra guerre d’Israele e costruzione dell’identità europea, tra lo svariante intensificarsi del vissuto ebraico della Shoah e l’immonda risposta costituita dal proliferare, negli ultimi decenni, di negazionismi e revisionismi assortiti – anche se, molto spesso, in tutto questo, non è facilissimo rintracciare la vera direzione dei rapporti di causa-effetto, azione e reazione ecc”. Ma anche i film sono un riflesso e insieme una manifestazione degli atteggiamenti, nel tempo, nei confronti della Shoah, e insomma del dibattito pubblico (anche quando coinvolge, all’apparenza, pochi specialisti) su questi temi. “Che i film siano poi, a volte, occasione ancor più notevole di reazione, emotiva e riflessiva, nonché di dibattito e di estensione dello stesso, si spiega facilmente con il fatto che si tratta appunto del linguaggio più potenzialmente popolare, non certo per una sua presunta essenza, quanto per le sue infinite possibilità nei termini della comunicazione a più livelli – ed è chiaro allora che, quando diciamo cinema, intendiamo qui, sbrigativamente, anche moltissima televisione “di qualità”, mentre escludiamo totalmente, e pour cause, altri, più recenti linguaggi multimediali.
Insomma, i film nascono da quel che si agita loro intorno, e a loro volta tornano a esercitare, potentemente, quasi sempre, un profondissimo feedback su quello sfondo”. Per questo possiamo parlare di film-evento, ben oltre quanto potesse accadere, ancora qualche decennio fa, a partire da un film che toccasse l’argomento dello sterminio nazista degli ebrei durante la seconda guerra mondiale. “Così, per esempio, Shoah di Lanzmann non è soltanto l’opera, già solo per questo straordinaria, di un uomo non proveniente dal cinema che pretende di riproporre in modo nuovo, attraverso un mezzo cinematografico utilizzato con inaspettata e quasi istintiva sapienza, la memoria dell’Evento. Shoah ricrea la Shoah con la testimonianza, e anzi crea quest’ultima in una versione nuova e dirompente, senza alcun intento meramente documentario, ma piuttosto con una forte operazione che è, insieme, ri-nominazione delle vittime, narrazione straziante senza consolazione finale, e vero e proprio “pensiero della Memoria”; il tutto a monte e a valle di quell’era del testimone, appunto, che Annette Wieviorka ha evocato a definire tanti nuovi orientamenti nei confronti della “cosa”, e prima di tutto nel mondo ebraico, che hanno caratterizzato gli ultimi decenni”. Shoah non è soltanto il poema, la vetta suprema, sul piano espressivo, della testimonianza filmata riguardante la Shoah, ma “è pure una sorta di inaggirabile unicum per chiunque, dopo, abbia cercato di capire qualcosa sull’argomento e sulle sue possibili interpretazioni. Da un punto di vista più strettamente “filmico”, Shoah è insieme il prototipo e il modello insuperabile per ogni film di testimonianza sulla Shoah che sia venuto dopo. Anzi, Shoah è il meta-testo che ha indicato agli altri di che cosa si dovesse parlare se si voleva parlare di questo. E questo vale sia, in generale, quando si tratti di raccogliere in modo sistematico, finché si è in tempo, le testimonianze filmate dei sopravvissuti, alla maniera della Foundation voluta da Spielberg; sia quando si tratti di raccogliere qualche testimonianza con intento ben diversamente “consolatorio” (ma non per questo di per sé disprezzabile) rispetto a Lanzmann, come è il caso di “The Last Days” (di James Moll, 1998); sia infine quando si tenti una ricostruzione “forte” della memoria testimoniata, con soluzioni espressive se non del tutto vicine a quelle di Shoah, certo consapevoli della sua lezione, come nell’italiano “Memoria” (di Ruggero Gabbai, 1997)”.
Shoah ha veramente reinventato dalle fondamenta la testimonianza relativa alla Shoah, compresa, oltre alle vittime, quella dei carnefici e degli spettatori, “secondo l’ormai classica tripartizione proposta da Raul Hilberg che, non a caso, è anch’egli protagonista-ispiratore del film, quando ancora la sua fama internazionale non era allo zenit. E non si tratta affatto di “rappresentazione”. Piuttosto, davvero Lanzmann vuole riportare alla luce il trauma originario, imponendo spesso alle vittime non soltanto di ricordare, ma anche di riprodurre i gesti di allora – non senza, spesso e volentieri, una necessaria crudeltà. In un libro recentissimo interamente dedicato a Shoah, Aline Alterman ne ha proposto una lettura tanto radicalmente cinematografica che filosofica, in cui ci si aggira tra reminiscenze del cinema noir classico (la fine, cioè l’esito negativo, è noto sin dal principio), volti di levinassiana memoria e traumatismi da “storia dei vinti” di Walter Benjamin – laddove nella “dialettica alternante”, Visages-Dires- Silences, ancora proposta dalla Alterman, sembra compendiarsi un ventennio di discussioni sul film”. Certamente si può essere più o meno d’accordo con letture come questa, ma non si può non riconoscerne la necessaria radicalità e il rinvio continuo a un contesto amplissimo di vissuti, riflessioni, collocazioni nella storia, ben oltre un film, per quanto importante “senza contare in quale misura Shoah abbia poi costituito fonte di ispirazione e insieme inesauribile arsenale di spunti contenutistici e formali per il cinema successivo
anche di fiction. Ma anche “Schindler’s List” merita, in questo contesto, un ripensamento critico, che, tra l’altro, liberi un po’ il film dalla fatale “imbalsamazione epocale”, nel bene e nel male, di cui è stato fatto oggetto nel corso del tempo. In effetti, non si tratta soltanto di rilevarne il già citato, forte, esplicito e per noi anche coraggioso carattere identitario ebraico. Ancor più interessante è quel che, dietro l’apparente spettacolarizzazione a tutto tondo – a prima vista un trionfo, appunto, della rappresentazione “ben fatta” –, sembra essere la ratio più profonda, e perciò nascosta, dell’opera, e cioè proprio una riflessione radicale sui limiti, insieme, della rappresentazione e della responsabilità morale di noi contemporanei nei confronti della Shoah”. In tale prospettiva, “Schindler’s List” è davvero “un film potente costruito a partire da una serie di dissimulate, forse, ma non per questo meno esibite impotenze: l’impotenza a ricostruire un “quadro generale degli eventi”; l’impotenza a parlare davvero dei morti, i sommersi di Primo Levi – scegliendo anzi di parlare proprio e soltanto di (pochi) salvati, appunto la “lista di Schindler”; l’impotenza a cogliere e rappresentare l’essenziale, come se un essenziale poi ci fosse; l’impotenza a fare vera chiarezza sul sistema concentrazionario e dello sterminio nel suo complesso; l’impotenza a raccontare la morte, tutta la morte, per quantità e per qualità; l’impotenza a dar conto di cosa sia stato veramente, per ciascuno, il sopravvivere alla Shoah”. Sono emblematici la celebre bambina col cappottino rosso, prima in fuga e poi cadavere, sotto lo sguardo attonito e impotente di Schindler, e il pianto finale del protagonista, per non aver potuto salvare più vite. “Ma è soprattutto la sequenza dell’incursione di Schindler ad Auschwitz, per riprendersi le sue donne e i suoi bambini dirottati là per errore, che si fa metafora del film e delle necessità che forse lo muovono: scendere nell’Inferno, nell’anus Mundi di Auschwitz, per prendersi la responsabilità della scelta nel mentre stesso in cui si guarda impotenti a tutto il resto”. È una metafora che fa giustizia, una volta e per sempre, anche di qualunque discorso intorno a una completa e compiuta rappresentazione della Shoah. È esagerato dire tutto questo? Significa attribuire troppe “buone intenzioni” a Spielberg, che in fin dei conti è (o è stato) il re dei cinematografari hollywoodiani contemporanei? “Forse. Ma se si assume fino in fondo il rischio dell’interpretazione, allora si può sostenere questo e altro, e anche navigare controcorrente rispetto a personaggi come David Mamet, che parlò di “pornografia emotiva”, o come, nientedimeno, il Claude Lanzmann di Shoah e l’Art Spiegelman di Maus, entrambi critici aspri e implacabili, da subito, di Spielberg e della sua definitiva “americanizzazione dell’Olocausto”.
Certo, analoghi discorsi e andirivieni interpretativi potrebbero e dovrebbero essere fatti su e per qualsiasi altro film della Shoah”. La vita è bella, dopo Schindler’s List, più di ogni altro si è meritato nel mondo intero il titolo di film-evento sull’argomento. “È un film che, sostanzialmente, non piacque affatto, alla prima visione, a chi scrive, ben oltre un significativo giudizio di Roman Polanski che ne parlò come di un film “brutto ma importante”, o qualcosa del genere. In effetti, pur giudicando assolutamente buone e non bassamente commerciali le intenzioni di Benigni, appariva del tutto irrisolta la cifra stilistica del film, e beninteso non nel senso banale della commistione di comicità e tragedia, o in quello della forse neppure ricevibile domanda:“si può ridere della/sulla/nella Shoah?”. Piuttosto, era il cortocircuito di favola e realismo (soprattutto, com’è ovvio, nella seconda parte, quella “nel campo”) che lasciava fortemente perplessi, e ancor più l’insistita focalizzazione sulla vicenda del padre e del bambino, a scapito di tutto il resto, fino a rendere vere e proprie “comparse”, per esempio, [taglierei] le altre vittime – con un effetto estetico-morale, si vorrebbe dire, a tratti assai discutibile e anche “sgradevole”. Ebbene, a distanza di qualche anno il film pare da rivalutare, al di là dell’immediata risonanza mediatica, non soltanto perché ha comunque alimentato l’interesse e l’attenzione del “vasto pubblico” sull’argomento (in modo forse ancora più intenso di Schindler’s List), ma soprattutto perché ha reso di fatto un po’ più ricco il dibattito contemporaneo intorno alla Shoah e alla memoria della stessa, disseminandovi, perché no?, i propri e peculiari spunti interpretativi – compresa, è certo, la sempre aperta interrogazione intorno al significato ebraico e universale della Shoah”. Ancora una volta la “rappresentazione” in quanto tale, c’entra molto poco. Il prof. Chamla osserva, poi, come “nella didattica, vacca sacra, o forse semplicemente un idolo, dei nostri tempi, intesa troppo spesso come finale ed esigente destinazione di qualunque discorso serio intorno a “storia e memoria”, e massimamente quando si tratta della Shoah, sia davvero ora che si utilizzi il “cinema della Shoah” non (o almeno non soltanto) come inerte documentazione, quanto invece come contributo importante all’interpretazione e all’intreccio sempre rinnovato tra conoscenze, interpretazioni, appunto, e vissuti, di ieri e di oggi. Pretendere di utilizzare un film come documento “assoluto” e autosufficiente, col suo contenuto di rappresentazione, per insegnare qualcosa a studenti di qualunque età, è cosa assai frequente ai nostri giorni, ma non per questo, e soprattutto per la “memoria della Shoah”, meno oscena e immorale. I film devono essere continuamente “rilavorati”, per poter essere utilizzati nell’insegnamento della memoria; ci vuole un travaglio di cui, in tutta onestà, non sembra affatto capace la stragrande maggioranza degli insegnanti, troppo irretita in un acritico flusso mediatico e troppo pronta a utilizzare un “bel film” per uscir d’obbligo nel Giorno della Memoria o in altra ricorrenza. La memoria richiede sempre continua rielaborazione e molto, moltissimo lavoro di prospettiva.
E proprio come recita il titolo di un libro recente sul “cinema della Shoah”, giocando sulla ricchezza e l’ambiguità delle parole, si tratta pur sempre di proiettare l’Olocausto dentro il presente”. In Italia, tuttavia, occorre una legge, generale ed astratta quanto si vuole, ma altrettanto efficace contro chi nega la Shoah. Sembra inutile ribadire ogni volta che ci sono state le camere a gas in Europa. Che i forni crematori durante la Seconda Guerra Mondiale hanno industrialmente vaporizzato milioni di corpi, per volontà politica di Adolf Hitler e compagni. Che c’è stato lo sterminio degli ebrei nel cuore dell’Europa. Che la Shoah ha effettivamente avuto luogo. Che non si deve lasciar scivolare il mondo in uno stato psicotico in cui sia possibile insinuare il dubbio che l’annientamento di oltre sei milioni di ebrei abbia avuto luogo. Qualcuno ha giustamente osservato che la risposta a chi nega l’annientamento non può essere solo una risposta basata su cifre, dati, documenti, prove e testimonianze. Lo sterminio non è solo una questione di numeri, argomenti o di storia. Uno dei tratti che caratterizzano il negazionismo è quello di ritenere ogni testimonianza diretta di un ebreo una menzogna (Hitler definisce l’ebreo un “maestro nell’arte di mentire”) e dunque lo sterminio un’invenzione della propaganda sionista mondiale. Ora, la testimonianza è l’essenza della nostra civiltà giuridica occidentale. Chi sono oggi i negazionisti che mutano pelle? Chi sono quelli che dichiarano che le camere a gas non sono mai esistite? Chi sono coloro che tentano di organizzare ed insegnare una menzogna così enorme? La loro “verità” è quella di Hitler. I negazionisti pensano che Hitler ha fatto quello che ha potuto, ma che la guerra totale contro gli ebrei deve ancora essere portata a termine. Che cosa vuol dire negare che le camere a gas abbiano avuto luogo? Vuol dire assumerne la necessità nel domani. Magari servendosi delle tecnologie nucleari. La negazione di quel che ha avuto luogo è il “dover essere” dell’antisemitismo assoluto. I negazionisti, cioè gli hitleriani della seconda e della terza generazione dopo la Shoah, sono andati costruendo il luogo della loro negazione nell’ombra propizia dell’accademia di periferia. Hanno approfittato di un atteggiamento eccessivamente difensivo, di un racconto affidato alla memoria, alla testimonianza, all’archivio e al lavoro degli storici, come se si trattasse solo di passato. Non anche, e soprattutto, di futuro. E hanno fatto buon uso dell’argomento sulla unicità di Auschwitz che lo ha relegato ad un indicibile, impensabile e dunque inesistente inferno sulla Terra. Argomento devastante che deve essere rovesciato: è un dovere etico pensare e dire Auschwitz e tutti gli altri campi di sterminio nazisti. I negazionisti odierni, i nazisti universitari, hanno prosperato nelle accademie di provincia, in quelle italiane non meno che in quelle tedesche e francesi, dove il nazismo è stato ed è definito una “follia” a chiacchiere, dove è mancato l’interesse e il bisogno di interrogarsi seriamente sul nazismo come fenomeno politico in trasformazione. Così i negazionisti hanno trovato e trovano complicità, udienza e audience, si avvalgono di un’orchestrazione mediatica senza precedenti, traggono profitto da una politica nazionale e nazionalistica (variante sommessa della politica fascista e nazista) che parla con violenza in tutta Europa e nel Mediterraneo, che ha il gusto per il marchio e lo statuto speciale, che punta l’indice contro il diverso, lo sfigato, il rifiuto della società, sia esso straniero sia esso apolide sia esso concittadino. Il nazismo è una politica che va ancora indagata e messa a fuoco: questa “moda” non è passata, superata e separata. Al contrario ha un rapporto di collusione con le politiche criminali foriere dei futuri conflitti.
Le camere a gas e lo sterminio degli ebrei d’Europa hanno avuto luogo! Questo luogo non è in questione. Piuttosto in questione è il luogo di chi lo nega: questo può essere il tema di un Master di primissimo ed altissimo livello! Perché un mondo in cui viene messa in dubbio l’esistenza delle camere a gas, è un mondo che già consente la politica del crimine, la politica come crimine. Illustrare con dovizia di argomentazioni pseudo-scientifiche la tesi della Shoah come invenzione e leggenda, solleva definitivamente il problema della possibile risposta legale al negazionismo. In Italia, com’è noto, la negazione della Shoah non costituisce di per sé una forma di reato, diversamente da quanto avviene in altri Paesi più civili, come Inghilterra, Austria o Germania. Sull’opportunità dell’introduzione, anche in Italia, di una siffatta fattispecie penale, le opinioni sono divergenti. Non capiamo le riserve riguardo a una tale riforma normativa. Le libertà di pensiero e di ricerca non c’entrano assolutamente nulla. Anche un bambino capisce la differenza tra negare l’esistenza del Duomo di Teramo e contestare la storicità della Shoah. Nel primo caso, si è semplicemente detta una fesseria, nel secondo, si è inteso deliberatamente oltraggiare la memoria delle vittime e dei loro familiari. E si è voluto evidentemente fomentare il ripetersi di atti di violenza e sopraffazione. Il messaggio è chiaro. La legislazione italiana vigente contro l’istigazione all’odio razziale giustificherebbe un procedimento penale, senza concedere quella grande pubblicità gratuita per il condannato, senza dare fiato alle trombe della negata libertà d’espressione e senza stimolare quella non poca solidarietà già modellata, scolpita e sparata su Internet e sulla stampa locale. Molte volte abbiamo visto degli oscuri personaggi diventare delle specie di eroi popolari, almeno in alcuni ambienti, per avere trascorso qualche ora in compagnia di accademici e premi Nobel della materia! Non basta, quindi, invocare una risposta da parte delle Autorità accademiche che, come si sa, possono fare piuttosto poco sul piano disciplinare. Il rischio, infatti, è quello di creare precedenti. Bisogna forse vigilare sui contenuti di tutte le lezioni accademiche irradiate su Internet? Qualcuno dirà: basta la web camera! Ahinoi, arma a doppio taglio. Che fare, dunque? Perché un Ateneo deve essere periodicamente messo alla berlina come un’Università del negazionismo? Qualcuno ha consigliato d’intentare una causa civile per danni all’immagine, chiedendo un risarcimento economico al dipendente che ne leda la reputazione. Non crediamo che basti essere colpiti nel proprio portafoglio, per risolvere il problema. In Italia occorre una legge contro chi nega la Shoah. L’assenza di sentimenti e di empatia verso il popolo ebraico e Israele (ma anche verso la Palestina democratica e i profughi palestinesi), è un film già visto, spalleggiato da ricercatori pronti a riscrivere la storia ad uso e consumo di futuri rivoluzionari del Gran Califfato. La vita quotidiana è intrisa di violenza spurgata fuori a ritmi parossistici senza soluzione di continuità. È il segnale tangibile dell’estrema debolezza della nostra civiltà occidentale che sa rispondere alle tragedie umane e naturali, grazie a Dio ed alle leggi, ma di rimessa. Il linguaggio pubblico e istituzionale corrente è ufficialmente intriso di violenza. Le prime vittime sono i giovani e la verità della testimonianza delle vittime che subirono la Shoah.
La scienza non può che reagire immediatamente. I ben noti canoni dialettici di matrice marxista e fascista, figli della stessa madre, attingono all’orrida ed oscena accademia negazionista, espressione di una sottocultura e di un’ideologia politica in cerca d’autore. Questa violenza contro la verità e contro la testimonianza, chiaramente sotto il candido manto buonista dei canoni “scientifici” più paludati, genera effetti devastanti e degradanti di forte impatto emotivo su tutti i giovani assetati di conoscenza e di libero pensiero critico. L’aggressività, a volte mielosa ed accattivante, si nutre dell’ignoranza di alcuni, sotto una densa cortina fumogena di solidarietà e comprensione per il caso umano in specie; è mutevole e ci interroga, com’è naturale che accada, sulla natura del nostro “essere” e del nostro “divenire”. La violenza è multiforme, camaleontica e caotica, alla ricerca di nuove forme di espressione e di adattamento. Ne ricerchiamo vagamente le cause e le radici nei problemi che assillano il mondo, senza soluzione. Di cosa stiamo parlando? Dei veri guasti e dei grossi pericoli che stiamo vivendo come Civiltà Occidentale e come Stati di diritto, abdicando la ricerca della verità, tra persecuzioni di cristiani e di cattolici in tutto il mondo, decapitazioni, commercio di esseri umani per espianto di organi, milioni e milioni di aborti, genocidi, Hiroshima culturale, guerre e carestie di matrice ignota. Una verità sacrificata sull’altare di poteri oscuri che i negazionisti individuano facilmente nella matrice sionista, rifiutando a priori il confronto scientifico accademico che li farebbe sfracellare al suolo. In Italia e in Europa, senza una legge che condanni la negazione dell’evidenza dei fatti e delle testimonianze sulla Shoah, le università si svuoteranno di cervelli. Ma non a causa dei tagli alla ricerca pubblica: siamo ancora nella peggiore crisi economica dal 1929. Bensì perché l’Accademia italiana sta perdendo una “partita” storica: la sconfitta delle ideologie (fascismo e comunismo) ha lasciato un vuoto cosmico incolmabile nella formulazione di nuovi metodi di ricerca e di analisi scientifica della verità oggettiva fenomenica, laicamente intesa, davvero alternativi rispetto a vecchi modelli marxisti sempre gravidi di sorprese non sempre piacevoli. Chi non è cattolico, cristiano, ebreo o mussulmano come reagisce? Come può. L’autoreferenzialità e la pubblicità non hanno nulla a che spartire con la ricerca scientifica. L’assenza preoccupante di premi Nobel italiani dovrebbe insegnare qualcosa perché dimostra a che punto siamo arrivati. Abbiamo toccato il fondo. L’Olocausto è un fatto storico incontestabile, imbattibile sul piano scientifico. Ma per parlare della storia più terribile dell’umanità (finora), si cerca di negarla proponendo tesi assurde. Il libero approccio accademico è perfettamente legittimo nella misura in cui non violi il patto di fedeltà alla verità. Non del vincitore, ma dell’umanità che ha sconfitto il male sulla Terra nel 1945. È legittimo finanziare con soldi pubblici la ricerca di storie alternative? La funzione più nobile di una libera accademia dovrebbe essere quella di stimolare il confronto scientifico finalizzandolo alla ricerca della verità. Senza timore. L’Università non è un teatro di scena o di posa. È un’agorà della verità. Non si può e non si deve aver paura di studiare la verità, la “X” dove scavare! La Shoah è la più drammatica verità che la razza umana abbia mai affrontato nella sua storia. È la chiave di volta per capire di che pasta siamo fatti.
La più complessa e vergognosa Storia del mondo irradiata nello spazio cosmico. Certamente ancora molto c’è da studiare, analizzare, capire, sviscerare nelle testimonianze, nelle cause e negli intrecci politico-ideologici più o meno oscuri, che ne hanno favorito l’attuazione industriale dell’inferno sulla Terra. L’industria nazista della morte di oltre 6 milioni di ebrei (cifra per difetto), senza contare tutte le altre vittime innocenti, non può essere semplicemente liquidata come “oggetto complesso, assurdo, incredibile, impossibile, opinabile”. L’uomo è un essere potenzialmente malvagio. Qui gli extraterrestri, fino a prova contraria, non c’entrano nulla. Hitler era un uomo malvagio. Una mente diabolica è capace di tutto. Anche di peggio. È accaduto nella nostra Storia che da una finestra dell’inferno si affacciasse un essere sterminatore che, grazie a Dio, siamo riusciti a ricacciare all’inferno. Viviamo, dunque, in un tempo di “pace relativa”, forse per miracolo cosmico. Un tempo per riflettere e fare ricerca. Purtroppo, ahinoi, potrebbe accadere di nuovo. Il problema, dunque, dovrebbe essere quello di concentrare tutti i nostri sforzi nella prevenzione, bloccando all’istante i dittatori del futuro e le loro idee catastrofiche. Una Democrazia come l’Italia deve e può permetterselo. L’Università può fornire gli strumenti e i cervelli giusti per farlo, perché quello che conta è non far passare il messaggio, molto più subdolo ed inquietante, per cui la malvagità sia un’invenzione e che ciò che occorre colpire è il vittimismo, una forma di piagnisteo messo in piedi dal “perdente sionista” che non ha potuto scrivere la storia, perché non sa reagire altrimenti alla sua cattiva sorte. Come Civiltà Occidentale che affonda le proprie radici nella cultura giudaico-arabo-cristiana, laica, libera e democratica, non possiamo, non dobbiamo e non vogliamo permetterlo. Il regime nazista ha ordito la più orribile e scientifica macchinazione di morte per vaporizzare il popolo ebraico sulla Terra (lo sanno anche i nostri vicini cosmici se esistono e se hanno captato le onde radiotelevisive e di Internet) e per seminare l’odio razziale in tutte le altre ideologie della storia. Anche nel terrorismo globale di matrice islamica. Questa è la verità. I giovani ne sono consapevoli oppure, disorientati, pensano che sia soltanto un orribile “incubo sionista” raccontato dai loro nonni per spaventarli? O la nostra Civiltà avrà il coraggio della difesa e della controffensiva (bisogna tutelare il valore assoluto della testimonianza oggi sotto attacco) versus le tesi negazioniste ed oscurantiste, o finiremo di esistere quanto prima. Il diritto, la libertà e la scienza sono patrimonio dell’umanità. E i saperi non possono abdicare al confronto ed alla lotta verso coloro (rispettando la persona) che fanno proprie le tesi che negano la verità oggettiva della storia.
I dispositivi portatili (iPad, tablet, iPhone ed altri) aiutano in questo: i media sono accessibili a tutti in tempo reale. Faremmo bene a combattere ogni forma di ideologia maligna sul nascere invece di abituarci alla superfetazione del male. Per quanto raccapricciante possa sembrare il fenomeno, la tv e Internet stanno producendo un effetto perverso sull’umanità: poiché fa più “notizia” il male rispetto alle sovrabbondanti “non notizie” del bene, la morale e l’etica personale e pubblica stanno pericolosamente mutando. Il livello di attenzione è già stato superato? Se non si provano più emozioni verso il nostro prossimo in difficoltà (verso gli “sfigati”), se l’indifferenza alle sofferenze di una persona prende il sopravvento sul primo dovere di prestare soccorso, se non riconosciamo più le manifestazioni della malvagità umana che sta contaminando tutto il genere umano, allora siamo già a un preoccupante punto di non ritorno che, di fatto, riaprirà prima o poi quell’immonda finestra infernale sul mondo intero, generando altri mostri della storia. Il male non ha vinto finora perché come cristiani (in senso lato) non lo abbiamo permesso. Occorre contrastare il male culturalmente, liberando modelli positivi emulativi nella società, sui mass-media, nell’Accademia, nella cultura del lavoro, nella Chiesa. Si produrranno effetti a cascata in grado di arginare il profluvio di notizie e talk-show negativi che ammorbano il mondo senza offrire soluzioni ai problemi delle persone. In fondo, il negazionismo lo possiamo leggere come un altro effetto perverso della sindrome di Scampia. Si litiga su tutto in famiglia e poi nella società, nella politica, nelle associazioni, nell’Accademia, nella Chiesa e finanche nelle istituzioni, proiettiamo quelle frustrazioni che non siamo riusciti a combattere privatamente. L’inventata struggente spiegazione che vogliono farci digerire è sempre questa: la periferia non funziona! La logica agghiacciante della sindrome di Scampia, può giustificare la cultura antisemita, antiebraica, antisraeliana ed antisionista dominante in Europa, nel Mediterraneo e nel resto del mondo? L’espertume accademico inorridirà: il mondo accademico italiano difende la libertà della scienza “periferica”, territoriale, non ha tempo di occuparsi di “politica”! Semmai il problema va ricercato nei tagli del governo alla ricerca che obbligherebbero a percorrere queste vie alternative di visibilità. Ma se i fatti dell’Olocausto sono noti, se il bestiario dei negazionisti è arcinoto, se la degenerazione dell’umanità fu vinta per scelta politico-militare degli Alleati, sconfiggendo l’ideologia nazifascista, che cosa bisogna inventarsi per arrestare la piaga del negazionismo? Che cosa può fare l’Accademia italiana per sconfiggere il male?Le Università di provincia corrono il rischio, in quanto territoriali e decentrate, ossia lontane dai grandi centri del sapere globale quasi sempre sotto osservazione, figlie o meno dell’Accademia, di diventare l’utile e sicuro luogo di coltura dei teorici delle nuove rivoluzioni? In tal caso le infezioni dovrebbero essere contenute con un sano piano di quarantena. Non negando la libertà d’insegnamento. Più i giovani vivono nella desolazione, più prevalgono gli istinti primordiali di sopraffazione. E l’anima ha bisogno di valori universali, punti di riferimento per la giusta rotta. Se non sappiamo dove andiamo, poco aiuta cantare l’Inno nazionale. Dobbiamo impegnarci a risanare le nostre Università con la buona ricerca, ripulendole dallo squallore desolante delle finte libertà e verità negate.
Perché l’Accademia, soprattutto quella territoriale, è una cosa sola con il mondo della ricerca scientifica internazionale. È universale. Dunque, tutto quello che si produce risuona nel mondo nel bene e nel male. I luoghi infetti depressi e fetidi vanno sanati. L’accanimento terapeutico è inutile perché non vi può essere una “scienza di periferia” diversa da quella universale. Ben venga la Riforma dell’Università se premierà la buona scienza della verità e del merito, senza aumentare inutilmente le tasse. Perché l’Università pubblica, come Internet, dovrebbe essere libera e gratuita. La conoscenza non ha prezzo se è al servizio del bene comune. Per questi motivi non vi può essere neutralità nella lotta contro la malvagità che alberga nell’Uomo. La neutralità è un’assurda invenzione del negazionismo, una via amorale molto comoda anche tra i media, una pia illusione proditoriamente abusata anche da un certo giornalismo dilettantistico che si è imposto sui quotidiani e su Internet. Dove sono finite le grandi inchieste finalizzate non alla distruzione della persona, ma all’accertamento dei fatti e delle verità sulla complessa e multiforme realtà in cui viviamo dopo la Shoah? Oggi tutto è spettacolo, delazione e dietrologia. Per alimentare il male, si è disposti a tutto pur di raccontarlo amoralmente ed asetticamente senza esprimere raccapriccio e disgusto. Eppure certi fatti non si commentano da soli. Un’ipocrisia che davvero non trova giustificazione alcuna. E che prefigura la colpevole assenza di criteri di giudizio e di confronto sulla Shoah, sulla storia del popolo ebraico e dello stato di Israele. In Italia, in Europa, nel Mediterraneo e nel mondo islamico, che cosa sta accadendo? Chiaramente le forme e le ragioni politiche di occultamento e di travisamento della verità sull’Olocausto (e sull’utilizzo del famigerato gas Zyklon B) fanno parte della storia. Oggi la parola negazionismo, abusata espressione giornalistica, non rende giustizia alla più perniciosa ideologia del XXI Secolo che amalgamerà nuovamente il male nel mondo. Bisognerà inventare un nuovo termine. Per la cura raccomandiamo una visita al mausoleo dell’Olocausto in Gerusalemme (Israele), lo Yad-Vashem (www.yadvashem.org) unitamente alla visione ed all’ascolto delle testimonianze delle vittime sopravvissute alla Shoah, raccolte nella grande Videoteca universale, accessibile su Internet, della Fondazione (http://college.usc.edu/vhi/) creata nel 1994 dal regista Steven Spielberg (Shoah Visual History Foundation), ed alla scoperta di tutti i campi di concentramento d’Europa e d’Asia. Oggi Israele brevetta senza sosta nuovi servizi di pronto soccorso e di evacuazione di massa, sperimenta catene mediche e paramediche veloci, dota gli ospedali di grandi sotterranei anti-nucleari (cioè a prova di bombe H a fusione, non soltanto di bombe a fissione). La popolazione compie esercitazioni per il caso, unico al mondo, come minacciato a chiare lettere in televisione, sui giornali, su Internet, all’Assemblea Generale dell’Onu che nemmeno ha sussurrato una risposta, di una distruzione di massa, ovvero di un improvviso nuovo sterminio degli ebrei.
Ogni famiglia nello Stato ebraico riceve dal postino come normale posta brochure aggiornate su cui (illustrate con pacifiche immagini di papà, mamma e bambini) si descrive l’eventualità di attacchi missilistici e nucleari. Il Paese degli ebrei è divorato dalle spese di difesa militare, di scudi spaziali. L’Europa che fa? È orribile scriverlo nel Giorno della Memoria, dopo che già molti ne sono trascorsi da quando la minaccia all’esistenza stessa di Israele è diventata quasi un mantra di pubblico dominio. Queste oscene esternazioni, spesso unite ad affermazioni che negano la stessa esistenza della Shoah, sono uscite dalla bocca di leader, imam, militanti del terrorismo, che percorrono sicuri la strada verso la nuclearizzazione di Israele. Che l’Onu dovrebbe prevenire. Tra l’altro i missili Shahab (raggio fra i 1300 e i 2000 chilometri) possono pioverci addosso, anche qui in Italia, in qualsiasi momento! Gli Hezbollah libanesi, secondo alcuni analisti, avrebbero una potenza balistica di 60mila missili di ogni gittata. Hamas a Gaza, oltre a schiere di terroristi suicidi di ogni dove, assemblano armi sempre più perfezionate capaci di raggiungere Tel Aviv. All’origine dello sterminio degli ebrei in Europa vi fu una struttura psicologica e propagandistica che delegittimò la stessa esistenza degli ebrei. Oggi un eventuale attacco a Israele sarebbe sempre più strutturato con gli stessi elementi, le stesse accuse di complottismo, di sete di sangue, di vorace passione per il potere e per il danaro che hanno consentito e promosso il genocidio degli ebrei descrivendoli come esseri subumani, indegni di vivere. Anche perché è ormai semplicemente impossibile sostenere che l’attacco a Israele sia legato alla critica alla sua politica quando si verifica, come successo nel 2009, che gli attacchi agli ebrei europei hanno superato quelli immediatamente precedenti alla seconda guerra mondiale. L’antisemitismo non è cresciuto a causa della critica allo Stato d’Israele, è la delegittimazione dello Stato di Israele che è cresciuta a causa, e di concerto, con l’antisemitismo, sempre più nutrito dall’integralismo islamico. Anche questo dobbiamo denunciare. Ma è questo il compito di chi ha negli occhi le immagini del bambino del Ghetto di Varsavia con le mani in alto. Vogliamo che non succeda “mai più”? Dobbiamo meritarlo. Saremo in grado di riconoscere i segni di un futuro più spaventoso olocausto? Oggi dipende da ciascuno di noi. Solo così capiremo perché Dio ha permesso tanto.
Nicola Facciolini
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