Si sono già scontrati a metà gennaio, ai Golden Globe ed il francese ha prevalso, ma a Scorsese è andato il premio per la migliore regia. E si affronteranno ancora il 26 febbraio, al Kodak Theatre di Los Angeles, nella notte degli Oscar, con il l’americano in pole-position, con una nomination in più: ben 11 in totale.
Due film che ci riconciliano col cinema narrante ed incantato, diversi fra loro, ma frutto di un lavoro corale davvero raro al giorno d’oggi.
Seguirne il duello riscalderà il cuore di noi cinefili italiani delusi dal fatto che restano in gara per il tricolore i soliti Dante Ferretti e Francesca Lo schiavo (già premiati nel 2005 per The Aviator e nel 2008 per Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street) ed Enrico Casarosa, per il cortometraggio d’animazione La Luna, che ai Golden Globe del 2010, con UP, ha fatto guadagnare alla Disney-Pixar il quarto premio consecutivo in quattro anni.
Anche perché sebbene Casarosa sia genovese, a vent’anni si è trasferito a New York per studiare animazione ed ora vive a Los Angeles e dal 2002 fa parte del gruppo di maghi del disegno dei Pixar Animation Studios. Pertanto e italiano solo per metà.
Così mentre ci immelanconiamo al pensiero che, negli anni ‘70 c’era Bozzetto ed ora più nulla, neanche in questo campo, riusciamo a recuperare un po’ di brio pensando alla sfida fra i due film che più di altri hanno caratterizzato la passata stagione.
Certo vi sono anche The Help, The Descendants (Paradiso amaro), Midnight in Paris, Moneyball (L’arte di vincere), The Tree of Life, War Horse, Extremely Loud & Incredibly Close, ma The Artist ed Hugo hanno qualcosa in più, che crea il piacere incomunicabile di un film, qual piacere ineffabile che ha ben descritto Castellaneta ne “Le donne di una vita“ (Mondadori, 1993), che fa dire allo scrittore: “Sebbene del cinema conoscesse perfettamente gli inganni e gli artifici, Stefano era tuttavia un consumatore insaziabile. La sua capacità di goderne era rimasta intatta negli anni, sicché ogni volta che nella sala si faceva il buio, sprofondato nella sua poltrona di platea egli provava la sensazione di cominciare un viaggio in qualche territorio dove non era mai stato, a volte con piacere infantile, più sovente rassegnato ad annoiarsi, sapendo che anche un brutto film gli avrebbe regalato qualcosa, perché ogni volta, davanti alle immagine che scorrevano sul grande schermo, la sua inquietudine si placava. Anche il tempo veniva cancellato e con esso gli avvenimenti del mondo esterno,ciò che contava era quello che si svolgeva nella pellicola e dentro la sua mente, era come ritrovar un antico se stesso, una maniera tranquilla di giudicarsi insieme al proprio passato, commisurando le sue personali esperienze alla storia che accadeva sotto i suoi occhi”.
E due incantevoli viaggi sono quelli narrati in The Artist e in Hugo, il primo di un 45enne autore che viene dalla Tv e dalla pubblicità e all’attivo, prima di questo, aveva un solo lungometraggio, realizzato più di più di 15 anni fa; il secondo, che è un maestro riconosciuto e che ha scritto la storia del cinema di questi ultimi anni.
Dalla premiére mondiale al Festival di Cannes, “The Artist” è divenuto un evento che è riuscito a mettere d’accordo tutti, dal pubblico più compiacente alla critica più intransigente, un film muto e in bianco e nero, ambientato nella sfavillante Hollywood degli anni Venti (1927, per la precisione)m, che ha divertito e commosso le platee di tutto il mondo.
Un film originale e antico, con un racconto indietro nel tempo ma non vetusto (come apparso invece quello di Alenn, in Midnight in Paris), in cui l’autore, Michel Hazanavicius, racconta di un brillante divo del muto (lo straordinario Jean Dujardin, nei guai per accusa di “maschilismo”, dopo la partecipazione ad uno dei sette episodi di “Les infideles”, film francese dedicato all’infedeltà maschile vista da sette registi) che, non rassegnandosi all’introduzione del sonoro, si vede pian piano marginalizzato dall’industria, che invece punta tutto su un’attricetta (la scoppiettante Bérénice Bejo), che proprio lui aveva scoperto e da cui si sente irrimediabilmente attratto.
Come ha giustamente scritto la sempre acuta Daniela Castelli, come i grandi film che Hollywood non sa più darci, con il loro carico di emozione pura e glamour assoluto, The Artist compie il suo miracolo lasciando lo spettatore contento e stupito, con la voglia, probabilmente, di rivederlo ancora una volta.
In mancanza della voce lo sguardo torna protagonista e il cinema, “che è diventato piccolo, come diceva Gloria Swanson, ma qui riacquista le sue giuste dimensioni.
Il film ha vinto di tutto (anche il Darryl F. Zanuck al suo produttore Thomas Langmann e, a metà dello scorso gennaio, il premio annuale della London Film Critics Circle) e molto giustamente.
Ma, nella Notte degli Oscar, io credo prevarrà la pellicola di Scorsese, dove la magia dell’esperienza cinematografica è esplicitata e ribadita ad ogni istante e lo stesso trattamento è riservato al mistero e all’avventura, fotogramma dopo fotogramma.
Un film non solo su un povero orfano che vive nascosto nella stazione di Paris Montparnase e che si occupa di far funzionare i tanti orologi ferroviari e coltiva il sogno di aggiustare l’uomo meccanico che conserva nel suo nascondiglio e che rappresenta tutto ciò che gli è rimasto del padre; ma un collage riuscitissimo di tipi umani, immagini di una cartolina animata da un illusionista, innamorato della Settima Arte.
Cominciamo dall’uso del 3D, che nelle mani del regista diventa un potentissimo strumento narrativo e un comunicatore di emozioni (cosa ad esempio inseguita, ma non raggiunta, da Tim Burton in “Alice”), perché è un 3D che entra nella storia e nella psicologia dei personaggi, allo stesso livello di accesso fisico ed emotivo del bambino protagonista, intrufolandosi in cunicoli dove solo un bambino può entrare, stravolgendo le proporzioni del mondo secondo la percezione infantile, esplorando dall’interno gli ingranaggi che Hugo cerca di aggiustare, compreso quello dell’automa che è un vero simbolo dell’uomo novecentesco, per la prima volta disposto ad esporre i propri meccanismi interiori (di qui la nascita della psicoanalisi), eppure malinconico e oscuramente impenetrabile, nonché dipendente dalla propria emotività, simboleggiata nella storia dalla chiave a forma di cuore, che sola può metterlo in moto.
E, ancora, altro aspetto fondamentale del film, è l’elogio della dimensione artigianale che va di pari passo con quella tecnologica, a dimostrazione che non molto è cambiato dagli inizi della storia del cinema ad oggi, nonostante tanta (e spesso ingombrante) tecnologia.
Inoltre, dicevamo, la dimensione cinefilia, con un vistoso, commosso ricordo di tutto il cinema, da quello degli esordi di Georges Méliès al più recente (il David Copperfield di Polanski, l’Amélie di Jeunet e poi Tim Burton e Terry Gilliam).
E poi, ancora, un omaggio alla letteratura popolare, in primis i lavori immaginifici di Jules Verne, che Scorsese, i da sempre a cercato di far propri, con i film, con la sua battaglia per il restauro cinematografico, con la invariata passione di archivista, con l’ amore per l’aspetto manuale e meccanico del cinema, che è fantasia, ma fatta anche di bottega e bulloni.
Scorze è il più autentico esempio di artista che concentra la sua attenzione agli elementi materiali del cinema, la loro indagine costruita per accumulazioni e variazioni e che, infine, consente di tornare all’essenziale, alla materica alternanza di luce e buio (si vedano gli scritti di Guido Lombardi su “Filmcritica” del 1971), superando ogni unitile artificio ed ogni barocchismo, senza però rinunciare alla meraviglia e all’incanto.
Come sappiamo, nel corso degli anni, le industrie cinematografiche, date le specifiche necessità del commercio, hanno prodotto una netta separazione tra regista ed autore cinematografico, quest’ultimo inteso secondo la politique des auteurs della Nouvelle Vague francese.
In molti casi, specie nelle cinematografie di largo consumo, il regista interviene solo nella realizzazione del prodotto filmico, occupandosi della direzione della recitazione degli attori, del taglio delle immagini, della scelta delle inquadrature e dell’illuminazione; è una figura professionale inserita in un contesto più ampio che tiene conto di molte altre professionalità, dal direttore della fotografia all’operatore, dallo scenografo all’attore.
Con Scorsese invece, ora e sempre, il regista è e resta l’autore del film, con una poetica ed una volontà che si rintracciano nella scrittura, interpretazione, collocazione e montaggio.
In definitiva siamo con coloro che affermano che l’ultima fatica di Scorsese supera decisamente il pur superbo film di Michel Hazanavicius, se non altro per l’omaggio commosso e “pensato” alla magia dei cinema ed alla sua complessità.
Trasposizione di The Invention of Hugo Cabret, romanzo illustrato dell’americano Brian Selznick, costato 170 milioni di dollari, “Hugo” è un film per famiglie che incanta ed induce a pensare e con un cast di tutto rispetto, dove accanto a un bravissimo Asa Butterfield, nel ruolo del protagonista, spicca la performance di Sacha Baron Cohen, capace di immedesimarsi perfettamente nel personaggio, in un modo che non pensavamo possibile per il celeberrimo trasformista di “Borat”.
Ma anche questo è possibile al cinema, se a farlo è un “grande”.
Carlo Di Stanislao
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