Uno degli aspetti più sottilmente insidiosi della situazione in cui ci troviamo è che un certo numero di cittadini europei si sta progressivamente assuefacendo all’idea che l’euro possa avere i giorni o i mesi contati. L’insidia sta nel fatto che abituarsi a un’idea, per quanto sgradevole, remota e improbabile, è già un passo verso la sua accettazione. La linea fatidica che separa il dominio dell’inammissibile da quello dell’ammissibile ha proprio qui il suo punto debole, si sa, e le manifestazioni più allarmanti della vita pubblica conseguono il loro primo trionfo quando si guadagnano il diritto a confondersi nella routine, e così facendo trapassano, inavvertite, dal primo dominio al secondo: allora l’allarme smette di lampeggiare, senza che il guasto sia stato riparato.
Fortunatamente sono in pochi ad augurarsi la fine dell’euro, e chi si balocca con la prospettiva del “default allegro” abita ancora i piani bassi dell’opinione pubblica. Eppure non è chiaro se la maggioranza degli europei sia davvero consapevole di che cosa potrebbe comportare una dissoluzione dell’unione monetaria – di qual è, in altri termini, l’esatto valore dell’euro. Non mi riferisco all’aspetto economico. La maniera più corretta di valutare la moneta unica è di vedervi, prima ancora che un fenomeno monetario, il prodotto di una storia. Così facendo si alza un sipario su una scena ben più ampia, e risulta subito chiaro che l’euro non è solo una moneta, ma è la risultanza finora più tangibile del processo creativo che da più di mezzo secolo impegna le nazioni europee: la costruzione di istituzioni sovranazionali sul nostro continente. L’importanza di quest’opera di ingegneria politica può sfuggire solo a chi si conceda il lusso dell’oblio e giochi a fare l’erede viziato di una storia antica e dolorosa, e sarà invece pienamente colta da chi comprende che cosa implica il contrario del diritto sovranazionale, ossia il vuoto normativo nei rapporti fra gli stati. L’equazione, del resto, è semplicissima: se quei rapporti non sono regolati dal diritto (da un diritto vincolante e non puramente formale) la conseguenza è l’anarchia internazionale, e il prodotto più probabile dell’anarchia internazionale è la guerra.
Ora, noi sappiamo piuttosto bene che cos’è una guerra, anche se per fortuna pochissimi di noi hanno avuto la disdetta di sperimentarla. Per evitare di mettere ancora una volta il piede in uno di questi inferni terreni l’unica cosa che siamo riusciti a inventare sono le istituzioni sovranazionali, così come per ripararci dalle tormente abbiamo inventato, molto tempo prima, le pareti e il tetto. Oggi deve bastarci sapere che ogni passo indietro nella costituzione di vincoli legali fra le nazioni è un passo avanti sulla strada che porta al caos e alla guerra. Se saltano i vincoli saltano le garanzie, perché gli interessi delle singole nazioni non combaciano mai perfettamente, sono anzi spesso in conflitto, e quando non esistono regole, o le regole non sono rispettate, tutto diventa di nuovo possibile e ci si avvia a fare per l’ennesima volta la stessa antica scoperta: che dentro l’uomo sonnecchia ancora il lupo, che la civiltà è una “vernice sottile” e così via.
È quindi enorme il granchio che stiamo prendendo quando ci appisoliamo nell’idea che la guerra sia lontana da noi: la guerra è sempre seduta al nostro fianco, ed è sempre una paratia sottile a separarla dai nostri destini personali. Chi si soffermi a riflettere sulla solerzia con cui la Cina si sta armando e poi a quanti progressi si sono fatti nel diritto a livello planetario non potrà fare a meno di preoccuparsi, perché a pochi passi da lui eventualità finora impensate stanno già prendendo corpo. L’equilibrio che regge la pace mondiale è sempre precario e ogni mattone sottratto alle sue fondamenta rappresenta una concreta minaccia: meglio convincersene per tempo, e dedicare le proprie energie a consolidare e completare l’opera ovunque essa vi si presti, invece di abbandonarsi ad assurdi ripensamenti proprio là dove si stanno ottenendo i risultati migliori – in Europa, appunto, dove l’unione monetaria ha già preparato il terreno all’unione politica.
Beninteso, le istituzioni sovranazionali non sono ancora nulla se non si trasferisce in esse una parte delle sovranità nazionali. Come l’esperienza storica della Società delle nazioni insegna molto bene, l’aggettivo “sovranazionale” è il fumo e il sostantivo “sovranità” è l’arrosto. L’importanza dell’euro risiede nel fatto che rappresenta a tutt’oggi il trasferimento più effettivo e cospicuo di potere politico dalle nazioni europee a un organismo giuridicamente sovraordinato. Il suo avvento ha sancito in Europa il passaggio definitivo dal regno delle parole e delle buone intenzioni a quello dei fatti: perché un conto è una dichiarazione di intenti condita da cerimoniali e strette di mano, un altro è la rinuncia alla politica monetaria. Le difficoltà in cui oggi si trova l’eurozona e le pressioni a cui è sottoposta sono per certi versi un ottimo segno: dimostrano che un’unione monetaria non si fa per scherzo, ma si fa sul serio e si fa fino in fondo. O l’unione è completa o non regge. Se non regge si torna indietro, e quando si comincia a retrocedere nessuno può dire quanto indietro si possa tornare, né se sia possibile arrestarsi a un dato punto.
Per questo, e al di là di ogni altra considerazione, quando le nostre dita si sorprendono a giocherellare nella tasca con una moneta da un euro dovremmo provare qualcosa di più della semplice, onesta soddisfazione di possedere una moneta che vale quasi 2.000 delle vecchie lire: dovremmo avere l’impressione di toccare con mano una delle garanzie più solide della pace e del benessere che ancora stiamo godendo, e che ci auguriamo tutti di lasciare in eredità ai nostri figli e ai nostri nipoti.
I nostri ragionieri mentono quando ci dicono che un euro vale un euro: vale incomparabilmente di più.
Michele Ballerin
Movimento Federalista Europeo
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