Quando muore una stella

E’ annegata nella vasca da bagno, probabilmente stordita dai troppi sedativi, in una camera del Bevery Hills Hotel di Las Vegas, sabato scorso, alle 15 e 15 ora locale (mezzanotte in Italia), proprio come molte altre star della musica, da Jimmy Hendrix ad Amy Winhouse. In una vasca da bagno furono travati morti anche la […]

E’ annegata nella vasca da bagno, probabilmente stordita dai troppi sedativi, in una camera del Bevery Hills Hotel di Las Vegas, sabato scorso, alle 15 e 15 ora locale (mezzanotte in Italia), proprio come molte altre star della musica, da Jimmy Hendrix ad Amy Winhouse.
In una vasca da bagno furono travati morti anche la regina del rock Janis Joplin e Jim Morrison, rispettivamente nel ’70 e nel ’71.
E più vicina nel tempo la morte di Michael Jackson, trovato senza vita il 25 giugno 2009 nella villa che aveva preso in affitto a Los Angeles, per non parlare dell’abuso di medicinali che è alla base della morte di Elvis Presley, avvenuta a Memphis il 16 agosto 1977, quando aveva 42 anni.
Withney Houston aveva 48 anni e alle spalle 190 milioni di dischi venduti, con una carriera costellata di successi ed una vita zeppa di drammi.
Il giorno dopo avrebbe dovuto prendere parte alla cerimonia del Grammy Award, l’Oscar della musica, che nel 1986, a soli 23 anni, l’aveva consacrata nuova regina del soul pop mondiale e che, nel corso di una carriera durata 25 anni, aveva vinto più volte.
Cugina di Dionne Warwich e figlioccia di Aretha Franklin, Whitney Huston, aveva mosso i suoi primi passi nei cori della chiesa del New Jersey, dove era nata, scoperta e lanciata da Clive Davis, che la portò immediatamente al successo nel 1985, con brani come “How Will I Know” e ” Greatest Love of All”.
Nel 1986 – come già detto – vince il Grammy e per gli anni successivi dominò incontrastata la scena, tanto da essere ribattezzata “The voice”.
L’apice lo tocca nei primi anni ’90: in particolare nel 1990, con il suo terzo album , “I’m Your Baby Tonight”, che viene presentato addirittura nel castello reale di Monaco di Baviera.
Nel 1992 interpreta, al fianco di Kevin Costner, “The Bodyguard”, un film melenso che nonostante il successo le vale il Razzy quale “peggior protagonista”, mentre la canzone “I Will Always Love You”, tratta dalla colonna sonora, diventa un classico, vendendo ben 45 milioni di copie.
Sempre in quegli anni ci riprova col cinema, anche se non esiti discutibili in “Donne – Waiting to exhale” del 1995, diretto da Forest Whitaker e “ Uno sguardo dal cielo” (1996), interpretato con Denzel Washington.
Ed è proprio allora che inizia la sua discesa all’inferno: il matrimonio sbagliato con Bobby Brown, l’uso sempre più sistematico di droghe e la caduta, inesorabile, verso il baratro sempre più profondo della depressione.
Una discesa rovinosa e progressiva, non riscaldata dai più di 400 premi vinti (tra cui 2 Emmy Awards, sei Grammy Awards, trenta Billboard Music Awards e ventidue American Music Awards )e da una bellezza che, nonostante tutto, resisteva, con quei suoi occhi incredibili ed il suo viso di rara perfezione.
L’ultima volta sul palco per Whitney è stato solo lo scorso giovedì, sempre a Los Angeles, nella festa che anticipava i Grammy, dove ha cantato, con una voce intatta, “Million dollar bill”, il primo singolo (il secondo negli Stati Uniti), estratto dall’album “I Look to You”, settimo ed ultimo disco della cantante uscito nel 2009, scritto per lei da Alicia Keys e che racconta di una donna salvata da un amore che è tornato a bussare.
Ma l’altro pomeriggio nessuno ha bissato alla camera della sua suite e lei, sola e disperata, ha pensato di poter dimenticare una vita fatta di successi ed angosce, con pillole che, in passato, l’avevano aiutata a stordirsi e non penare.
E’ stata trovata morta, sola ed abbandonata in una vasca da bagno, nell’albergo dove Clive Davis, il magnate della discografia che l’aveva lanciata e sostenuta anche quando non era più la stella più luminosa del firmamento pop, aveva organizzato uno dei suoi rinomati party pre-Grammy .
Nella sua edizione di domenica il “Beast”, uno dei settimanali più famosi d’America, muove precise accuse alle forze di polizia che, negli USA, non vogliono in alcun modo aggredire il mercato dello spaccio, perché loro stessi, da questo mercato, traggono lucroso profitto.
Scrive il tabloid: “Abbiamo un’attitudine davvero priva di attenzioni in questo paese riguardo i tossicodipendenti, ma non certo riguardo gli spacciatori. Perché? Perché è proprio lì che ci sono i soldi. L’antidroga si associa con le polizie locali per aumentare gli incassi con Ie confische agli spacciatori. In effetti, continua il giornale, i poliziotti “fanno quel che si chiama “ingrassare i rospi per i serpenti”. In breve, lasciano che gli spacciatori si arricchiscano, accumulino una sufficiente quantità di denaro e di beni (automobili, barche, aerei e gioielli) perché valga poi la pena acchiapparli, e poi li prendono”.
Forse è proprio questo sistema, dice la rivista, a non funzionare ed è a lui che va imputata la morte della Houston.
Comunque io ricordo che, nel 2002, ospite con suo marito (avrebbero divorziato nel 2006) nel talk show di Diane Sawyer, disse: ‘Il peggior demonio sono io. Sono la mia migliore amica e la mia peggiore nemica’ e pochi pensarono allora, che stava dicendo esattamente la verità.
Su Twitter i suoi colleghi ora piangono la sua fine, ma in cuor loro sanno che è proprio il loro mondo che crea delusioni e distruzioni, soprattutto in quelle stelle più solitarie e luminose delle altre, ad averla uccisa.
Ricky Martin le scrive ” Vola Whitney vola”, Enrique Iglesias ricorda ” lavorare con lei è stata un’esperienza che mi ha segnato per sempre” e Gloria Estefan, sconcertata dice: “E’ stata sempre dolce con me, speravo che potesse superare i suoi problemi e vivere una vita felice. Ora sono molto triste”.
La sua dipendenza, il fallimento del suo matrimonio, sua vita privata costellata di pettegolezzi ne hanno fatto uno dei “bersagli designati” della stampa USA ed una vittima predestinata di quel mondo cinico e di cartone che è lo “star system”.
Aveva cercato di esorcizzare i suoi demoni cantando e recitando, perché il sistema-spettacolo USA, ti permette di mettere in scena i tuoi demoni, ma creandotene mille altri.
Fra i molti film che parlano di droga, voglio riguardarmi, in queste ore, “Cristina F.: Noi ragazzi dello zoo di Berlino” (1981), di Uli Edel, perchè la storia della protagonista, Cristina, che si ritrova ogni giorno più sola e, cercando di evadere dalla triste realtà che la circonda, diventa eroinomane toccando, in breve tempo, gli stadi più bassi della tossicodipendenza, ma alla fine riesce a curarsi e a salvarsi, grazie al poco di amore che incontra, mi rimanderà alla vicenda di Withney: bella e famosa, ma senza neanche un briciolo di compassione, in un mondo che uccide, con suo cinismo e la sua finzione.
E poi, ancora, il recente “Amore tossico”, in cui è ancora l’amore a salvare i due giovani protagonisti.
Più che “Trainspotting”, farei guardare ai giovani “Sbirri” di Roberto Burchielli o “Blow” di Ted Demme, per far capire loro che la droga, ogni droga, è solo una via di fuga dal disagio originato da cause complesse il cui denominatore comune è la crisi di riferimenti esistenziali.
Il 9 febbraio del 2011, alcuni lo ricorderanno, è morta per assideramento Elisa Benedetti, 25enne perugina, che da due anni era tossicodipendente, a causa di un vuoto esistenziale fatto di tristezza e solitudine.
“L’abuso di droga è soltanto un’accelerazione, un’intensificazione dell’ordinaria esistenza di ciascun uomo”, ha scritto Philip Kindred Dick, in Un oscuro scrutare.
Ma attenzione è anche un acceleratore e non un correttore di tristezza, solitudine e disperazione.

Carlo Di Stanislao

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