“Quando si esegue un esperimento, se il risultato è conforme alle aspettative abbiamo eseguito una misura, se non è conforme abbiamo fatto una scoperta”(Enrico Fermi). A tre anni dal terremoto di L’Aquila del 6 aprile 2009, a un anno dalla catastrofe sismica giapponese dell’11 marzo 2011, che cosa abbiamo imparato? Quali sono le responsabilità dei geo-scienziati nella diramazione degli allarmi e nella mitigazione degli effetti dei disastri naturali? Se ne parlerà nella sezione speciale dell’European Geosciences Union di Vienna (Egu Spring Meeting), il grande simposio di scienze della Terra in programma dal 22 al 27 aprile 2012 in Austria con la partecipazione di centinaia di scienziati, studenti e ricercatori di tutto il mondo. I grandi numeri dello scorso anno lasciano ben sperare per il pieno successo dell’iniziativa europea. L’intera comunità di scienze della Terra si è da sempre confrontata sul tema dei terremoti, delle eruzioni vulcaniche, degli impatti cosmici e degli tsunami, senza confonderli con i presunti disastri nucleari in assenza di fusione del nocciolo di qualsivoglia reattore a fissione giapponese! In Abruzzo sono stati destinati numerosi progetti alla ricerca di faglie attive, analizzando dati geologici e geofisici. La zona di L’Aquila è una delle poche aree italiane inserite nella classificazione sismica da quasi un secolo, a seguito del catastrofico terremoto del 1915. A 36 mesi dal terremoto di L’Aquila (Mw=6.3; 309 morti; 1600 feriti) tuttavia l’unica lezione finora impartita da quel drammatico evento non sembra concentrata sulle politiche di prevenzione e mitigazione degli effetti delle catastrofi naturali come avviene in tutti i Paesi civili del mondo. La prima vittima è come sempre la verità mentre impazza la “caccia alle streghe”. Senza contare che, a un anno dalla catastrofe sismica giapponese dell’11 marzo 2011 (terremoto e maremoto del Tōhoku, Mw=9.0, 15.703 morti, 5.314 feriti e 4.647 dispersi) si continua a parlare dell’inesistente “disastro nucleare della centrale di Fukushima” quando tutti sanno che è stato lo tsunami la causa principale di tutte le vittime. Che in Italia sarebbero state molte ma molte di più. Il sisma giapponese provocò lo spegnimento automatico di undici centrali nucleari da parte dei sistemi di emergenza. Ma nessuno ne parla. Come nessuno parla della prevenzione sismica nelle scuole, negli ospedali, nelle case e negli uffici nipponici, che ha perfettamente funzionato, evitando il 100% in più di vittime.
Insomma, le nostre città italiane continuano ad essere beatamente esposte alle catastrofi naturali, indifferentemente da quel che accade sulla Terra. Le Tredici Raccomandazioni della International Commission on Earthquake Forecasting for Civil Protection per salvarsi dal terremoto, inequivocabilmente espresse dagli scienziati di tutto il mondo all’indomani del sisma aquilano, attendono di essere applicate alla vigilia dell’Egu Spring Meeting della European Geosciences Union di Vienna (22-27 Aprile 2012, http://meetings.copernicus.org/egu2012/). Ma cosa accadde quel terribile lunedì 6 aprile 2009 alle ore fatali 3:32 antimeridiane? Un terremoto di magnitudo momento 6.3 colpì la città di L’Aquila e molti paesi limitrofi, uccidendo più di 300 persone, danneggiando gravemente un inestimabile patrimonio storico, artistico e culturale, producendo enormi danni economici, morali e psicologici. Le analisi confermano che da oltre due mesi si avvertivano scosse di intensità e frequenza progressivamente maggiori. Studi di pericolosità sismica pubblicati su riviste nazionali ed internazionali, indicavano proprio la struttura di Paganica come un elemento di probabile altissima pericolosità (Boncio et al.,2004; Pace et al.,2006). Nonostante ciò l’evento del 6 aprile sembrò inaspettato alla cittadinanza, ai politici ed agli enti amministrativi locali. A terremoto avvenuto, grazie alla Protezione Civile Nazionale la mobilitazione fu istantanea, integrata e globale. Sin dalle prime ore dalla scossa principale, squadre di ricercatori di molte universita italiane, dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia e del Dipartimento della Protezione Civile, raggiunsero l’area epicentrale cominciando una capillare ricognizione degli effetti del terremoto, delle evidenze di fagliazione e rottura in superficie, dei fenomeni di liquefazione ed espulsione di fluidi, dei movimenti franosi e delle amplificazioni locali. Il rilievo dell’attivita sismica fu implementato attraverso un impressionante dispiegamento di stazioni sismiche mobile, principalmente ad opera dell’Ingv. Lo scambio di informazioni e dati tra i ricercatori operanti sul campo, di fronte alla drammaticità dell’evento, fu pressoché totale e disinteressato, portando alla quasi subitanea identificazione della struttura sismogenetica nella faglia diretta SW immergente di Paganica. Rapporti immediati sull’attività scientifica sono stati divulgati da vari ricercatori e scienziati, e fatti circolare su Internet grazie anche al lavoro disinteressato di alcuni giornalisti. Su questa spinta alcuni professori hanno dedicato giornate di studio che favorissero un ulteriore scambio di dati e opinioni per ottimizzare indagini future. La risposta della comunità scientifica internazionale è stata entusiastica (Egu Fall Meeting di san Francisco ed Agu Spring Meeting di Vienna, annuali, e “workshop” nazionali e internazionali). Sono state elaborate e prodotte diverse “App” sul tema dei terremoti e dei maremoti, programmi ottimizzati per i dispositivi della Apple. Convegni, presentazioni, interviste e relazioni, sono stati articolati in sessioni tematiche affrontando i seguenti argomenti: contesto sismotettonico del terremoto aquilano, sismicità storica, rilievi macrosismici, monitoraggio accelerometrico, dati preliminari di sismologia strumentale; deformazioni co-sismiche e post-sismiche di superficie ed effetti ambientali della sequenza); dati geodetici e di interferometria SAR; dislocazioni sulle faglie principali e trasferimento di sforzo; degassamenti in superficie, effetti idrogeologici, emissioni acustiche, emissione termica; previsioni a medio termine e pericolosità sismica; “strong motion”, effetti di sito ed amplificazioni locali, modellizzazione del moto al suolo e degli effetti locali. In questi tre anni si sono succedute centinaia di comunicazioni orali e scritte, sono stati presentati decine di “posters” di fronte ad un pubblico di scienziati e cultori della materia, di decine di migliaia di partecipanti e lettori di tutto il mondo. I principali contenuti delle presentazioni del famoso Workshop organizzato nel 2009 dai ricercatori dell’Università di Chieti possono essere consultati sul sito www.unich.it/geosis. La sintesi delle conoscenze sulla sequenza sismica, finora la maggiore nell’Appennino centrale dopo quella del Fucino del 1915, indica che l’area principale interessata dalle scosse si sviluppa per circa 45 km lungo la direzione appenninica, al tetto di due faglie dirette, già note in letteratura, ad attività tardo-quaternaria, la faglia di Paganica immergente verso SW e la più settentrionale faglia di Monte Gorzano immergente verso WSW. La prima associata all’evento maggiore del 6 aprile (Ms 5.8, Mw 6.3) è stata attivata per una lunghezza lungo la direzione di circa 20 km e lungo l’immersione di circa 15 km; la seconda è stata solo parzialmente attivata nella zona a sud di Campotosto da tre eventi del 9 e 13 aprile 2009 con magnitudo tra 5.1 e 5.4; per un tratto di circa 13 km lungo la faglia di Paganica gli scienziati hanno rilevato strutture co-sismiche: crepe sistemi di fessure “enechelon” nel terreno, fratture beanti seguibili anche attraverso i manufatti (strade, muretti in c.a., fabbricati), scarpate di faglia ringiovanite con spostamenti di alcuni centimetri, suggerendo, secondo alcuni ricercatori, un collegamento diretto tra la sorgente sismogenetica profonda e la faglia affiorante. Questo quadro geologico è ben consistente con i dati sismologici e con i dati di interferometria radar che identificano la faglia di Paganica come la principale struttura attivata dalla sequenza sismica, in un campo di sforzo distensivo molto omogeneo con asse di massima tensione sub-orizzontale in direzione WSW-ENE. Amplificazioni locali estreme hanno caratterizzato principalmente l’area della conca aquilana contribuendo al danneggiamento di specifiche località. L’opinione dei ricercatori e le conoscenze sul terremoto aquilano sono migliorate e supportate da una mole notevole di dati. Rimane l’amara considerazione che parte di tali conoscenze erano già state acquisite prima del sisma di L’Aquila ma, a causa dell’impreparazione del Sistema Paese (informazione, comunicazione, media, politici, scienziati, Istituzioni e social network) non sono servite a limitare le perdite in termini di vite umane e i danni materiali. La crescita della conoscenza scientifica dovrebbe andare di pari passo con una condivisione-integrazione diffusa e capillare delle informazioni tra tutti i livelli della società civile per un’energica azione di prevenzione, di messa in atto di meccanismi di mitigazione, di messa in sicurezza dei nostri territori e di graduale allerta come avviene in altri Paesi ad elevato rischio sismico (Giappone, Nuova Zelanda e California). Per questo i geo-scienziati non limitano il proprio contributo alla conoscenza teorica, ma cercano altresì di favorire la condivisione con gli Enti territoriali ed amministrativi dei dati geologici e della loro interpretazione in termini di prevenzione/previsione sismica e vulcanica, a breve ed a lungo termine, possibile grazie alla conoscenza delle strutture attive e della loro storia geologica e sismica. In Italia come nel resto del mondo, in termini probabilistici, con il linguaggio matematico. L’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia negli ultimi anni, dopo il terremoto del Molise nel 2002, ha contribuito con l’attivazione di una rete di sensori da far invidia alla famosa astronave Enterprise della saga di Star Trek. L’Aquila risultava l’unico capoluogo regionale nella classe di pericolosità più elevata. Negli stessi anni, alcuni tentativi di calcolo della pericolosità “time-dependent” (Chiarabba et al.) evidenziavano la zona di L’Aquila come una delle aree a maggiore probabilità di forti eventi (Pace et al. 2006; Akinci et al. 2009). Le ricerche avevano messo in luce l’elevata pericolosità dell’area, nonostante fossero basate su approcci diversi e su cataloghi di faglie piuttosto differenti. Dall’analisi dei dati elaborati dopo il terremoto e da informazioni circolate nella comunita scientifica, alcuni ricercatori non possono dire che la faglia che si è mossa durante il terremoto fosse la struttura che ritenevano responsabile di accomodare l’estensione lungo quel tratto di catena Appenninica. I dati sismologici mostrano chiaramente la presenza di una fascia in estensione che si allunga per l’intero Appennino, costituita da diversi segmenti di faglia a direzione NWSE. La sismicità degli ultimi 33 anni si dispone lungo una fascia sismica principale, allungata per tutto l’Appennino. Studi recenti mostrano che la deformazione estensionale si concentra nella crosta laddove avviene il contatto, alla profondità della Moho, tra la placca Adriatica e quella Tirrenica con un tasso di qualche millimetro l’anno. Insomma siamo ben lontani dai collassali “scatti” delle faglie del Pacifico!
Questo tasso di deformazione appeninico è in grado di generare spostamenti medi all’incirca di un metro ogni 300/400 anni sulle singole strutture. Gli scienziati non sanno ancora quanta di questa deformazione sia rilasciata attraverso movimenti cosismici con forti terremoti e quanta da spostamenti asismici. I diversi segmenti che costituiscono la fascia sismica estensionale hanno avuto terremoti recenti (L’Aquila 2009, Umbria-Marche 1997 e l’Irpinia 1980) o storici. La porzione settentrionale della fascia estensionale presenta un numero maggiore di terremoti di moderata e bassa magnitude (M<4) rispetto a quella centrale e meridionale. Anche se i ricercatori notano che gran parte della sismicità è legata alla sequenza del terremoto Umbro-Marchigiano del 1997. In maniera differente, nell’Appennino centro-meridionale i terremoti di fondo, ovvero l’attività normale che gli scienziati registrano ogni giorno lontano da crisi sismiche, accadono principalmente in “cluster” spazio-temporali localizzati o al bordo delle faglie principali o lungo loro porzioni dove non si concentrano gli sforzi. In questo scenario ricostruito dall’Ingv, l’area dell’Appennino centrale (Lazio-Abruzzo) si identifica come “silente” nel periodo 1981-2009, con un numero assai basso di eventi strumentali avvenuto negli ultimi anni e con magnitudo, degli eventi maggiori, inferiore a 4. Il terremoto aquilano è avvenuto al margine meridionale della zona a maggior sismicità che, da nord di L’Aquila, corre lungo l’Appennino settentrionale. La sequenza sismica si è sviluppata lungo due segmenti di faglia paralleli e con una geometria nota. Lungo il primo segmento si è originato il terremoto del 6 aprile 2009 (Mw=6.3) mentre il secondo, posto a nord, si è attivato a distanza di qualche ora e ha avuto come evento maggiore il terremoto di Mw=5.4 del 9 aprile 2009. Subito dopo il terremoto, sono stati analizzati da più gruppi di ricerca i dati geologici e geofisici disponibili in letteratura ed acquisiti sul campo. Per definire le strutture attive sono stati usati: dati geologici, rilievi di campagna nella zona epicentrale e sulle principali faglie note, che hanno rapidamente mostrato la presenza di un fitto campo di fratturazione in superficie ma con spostamenti assenti o minimi sulle singole faglie (rapporto Emergeo Working Group, 2009); dati macrosismici, rilievi volti a definire il grado di danneggiamento nei paesi in area epicentrale ed a verificare gli effetti del terremoto (rapporto Quest Working Group, Camassi et al., 2009); dati sismologici, forme d’onda registrate dalle stazioni sismiche a larga banda ed accelerometriche delle varie reti permanenti e temporanee; dati geodetici provenienti da stazioni GPS permanenti e temporanee delle varie reti esistenti, sviluppo di immagini DInSAR e inversione di dati geodetici. I risultati principali, con i margini d’incertezza noti, indicano che il terremoto del 6 aprile (Mw=6.3) si è originato su una faglia normale immergente verso SW con una lunghezza che è stata stimata tra i 12 km (valore minimo ottenuto dai soli dati geodetici) e i 18 km (valore consistente con immagini DinSAR, dati accelerometrici e distribuzione di aftershocks). Faglia ben individuata in profondità, tra i 10 e i 2 km dalla superficie. Lo spostamento medio sulla faglia in profondita è stata di circa 0.5 metri, con massimi superiori al metro, e assai basso in superficie. La porzione di faglia con il massimo spostamento in profondità (maggiore di un metro) coincide con il depocentro del bacino dell’Aterno e con la zona maggiormente danneggiata. L’ideale prosecuzione verso la superficie degli aftershocks (i cosiddetti terremoti di “assestamento”), e il ravvicinamento delle frange delle immagini DInSAR), coincide con una faglia nota in letteratura, inizialmente proposta da Bagnaia et al. (1992) come Faglia di Paganica, descritta da Ghisetti & Vezzani, 1996-97, cartografata da Vezzani & Ghisetti (1998) e citata da Boncio et al. (2004) come faglia dell’Aquilano.
In questo ultimo lavoro la faglia viene classificata come una faglia di geometria non ben definita, scarsa continuità laterale e incerto ruolo sismogenetico, forse responsabile del terremoto storico del 1461. Sebbene oggi tra gli scienziati ci sia una forte convergenza di opinioni sulla faglia di Paganica (o dell’Aquilano), questa convinzione, nata a seguito dell’evento, non deve far dimenticare che nessun gruppo di ricerca attribuisce un ruolo principale a tale faglia nell’evoluzione tettonica della zona, che era imputata principalmente ad altre faglie più chiare dagli studi di terreno. I dati sismologici e geodetici indicano coma la rottura cosismica non sia arrivata fino alla superficie, in accordo con la distribuzione degli aftershocks. In questo caso appare che il movimento cosismico in superficie sia stato trascurabile così come la modificazione della topografia e che i dati sismologici e geodetici permettono l’individuazione della faglia e le sue caratteristiche in modo univoco, ma solo dopo che il terremoto è avvenuto. Qual è la lezione per il futuro? Subito dopo l’evento sismico sono emersi numerosi interrogative tra i ricercatori poiché il terremoto di L’Aquila si è originato in un’area ritenuta ad alta pericolosità ma su una struttura dal ruolo incerto. Il terremoto del 6 aprile è caratteristico del rilascio sismico nella zona? Se un terremoto di Mw=6.3 si è originato su una faglia ritenuta minore, qual è il ruolo delle altre ben note e studiate faglie quaternarie, che sembrano avere un’espressione e un’estensione maggiore, e perche queste ultime non hanno avuto nessun tipo di movimento, almeno a oggi rilevato, durante la sequenza? La pericolosità sismica in Italia è associata a delle faglie che non i ricercatori non riconoscono prima del terremoto? Qual è il livello di conoscenze dei nostri scienziati rispetto a ciò? A questo punto dovrebbe suonare il classico campanello d’allarme razionale. La prima domanda potrebbe avere una risposta relativamente semplice con le dovute approssimazioni. Se gli scienziati confrontano i risentimenti macrosismici del terremoto del 2009 con quelli riconosciuti per l’evento del 1461, possono ipotizzare che entrambi si originino sulla stessa struttura, forse non con la stessa distribuzione sulla faglia e, quindi, non necessariamente in modo caratteristico. Il depocentro del bacino situato nei pressi di Onna, coincide con la zona di maggior ribassamento come indicato dai dati SAR. Da ciò i ricercatori possono dedurre che la struttura attiva nella zona sia quella nota come faglia di Paganica o dell’Aquilano. In questo caso, come negli altri eventi maggiori avvenuti nell’Appennino durante gli ultimi 33 anni (quelli studiati dai nostri scienziati e per i quali sono disponibili dati sismologici moderni), il riconoscimento della faglia è avvenuto solamente dopo il terremoto, sebbene il movimento lungo la faglia sia consistente con il quadro sismotettonico generale e con le deformazioni in atto (recenti modelli geodetici e campi di sforzo). In tutti i casi (dal Belice all’Umbria-Marche, dal Molise all’Abruzzo) le faglie non hanno avuto espressioni superficiali univoche o coincidenti con i modelli geologici preesistenti (si ricordano i lunghi dibattiti sul terremoto dell’Irpinia). Molti degli eventi storici iscritti nei cataloghi con magnitudo superiore a 6, non hanno una chiara faglia ad essi associata. Si possono formulare solamente ipotesi di lavoro. Le evidenti faglie quaternarie sono comunque attive e responsabili di terremoti anche piu forti di L’Aquila 2009, ma hanno periodi di ritorno maggiori delle ripetitività osservabili nel catalogo storico. Una parte rilevante della deformazione su queste faglie avviene senza rilasciare accelerazioni tali da generare un terremoto forte (“creep”, deformazione asismica). Queste faglie sono in gran parte elementi fossili, esumati durante i processi di creazione della catena Appenninica, forse anche con livelli di “decollement” superficiali, oggi non più attive.
Queste tre possibilità, secondo i ricercatori dell’Ingv, non si escludono necessariamente l’una con l’altra, potendo convergere verso uno scenario più articolato e complesso. Dall’analisi dei dati della sequenza aquilana sembra comunque emergere che la maggior parte delle faglie quaternarie della zona, non ha avuto episodi di attivazione o rilasci di aftershocks. Un’ulteriore difficoltà per capire a pieno il significato di tali faglie è che, sia per l’evento del 6 aprile sia per il segmento settentrionale forse riconducibile all’attivazione della faglia dei Monti della Laga, non vi sono aftershocks nei primi 2 km (o addirittura 5-6 km, nel secondo caso) di profondità, rimarcando la difficoltà di correlare quanto si osserva in profondità dai dati geofisici con quello che si vede in superficie con i dati geologici. Forse gli scienziati sono vicini a una svolta: la maggior parte degli eventi Appenninici, di magnitudo pari o confrontabile con quella del di L’Aquila, produce scarse variazioni topografiche e geomorfologiche cosismiche. Queste sono affette dalle forti modificazioni naturali e antropiche. La vera sfida dei prossimi anni sarà per gli scienziati quella di provare a definire nuovi sistemi e tecniche di osservazione per comprendere l’evoluzione dei settori in estensione, quali faglie siano sismogeniche e quale sia il loro comportamento a medio-breve termine. Il tutto integrando le informazioni che vengono dai moderni dati sismologici e geodetici, in grado di comprendere in futuro il ruolo delle faglie quaternarie e contribuire alle stime di previsioni a breve-medio termine. La vera sfida sarà quella di mettere le nostre città in totale sicurezza, al riparo dai disastri naturali. Nel frattempo, il professor Stefano Gresta è il nuovo Presidente dell’Ingv, ai sensi dell’art. 5 comma 4 dello Statuto dell’Ente. Professore ordinario di Sismologia e professore incaricato di Fisica del vulcanismo all’Università di Catania, nel 1980 si è laureato in Fisica all’Università di Bologna.Dal 1981 svolge le sue ricerche in Sicilia, prima all’Istituto Internazionale di Vulcanologia di Catania, poi all’Università.Relatore di circa 200 Tesi di Laurea, tutor di 15 Tesi di dottorato, la sua attività è testimoniata da oltre 150 pubblicazioni scientifiche. Le sue ricerche sono principalmente focalizzate sullo studio dell’attività sismica dell’area mediterranea; e dei meccanismi eruttivi sui vulcani Etna, Stromboli, Vulcano, Vesuvio, Saint Helens (Stati Uniti d’America).Nel corso della sua attività ha effettuato numerosi soggiorni di studio e lavoro nelle Università di Grenoble, Parigi, Seattle, Berkeley; negli osservatori di Petropavlovsk (Kamchatka), delle Hawaii e della base italiana “Baia Terranova” in Antartide. Responsabile e coordinatore di numerosi progetti di ricerca locali e nazionali di interesse sismologico e vulcanologico, è stato componente della Commissione Grandi Rischi e dei Comitati di Protezione Civile della Provincia Regionale di Catania e della Provincia di Ancona.
Nicola Facciolini
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