Parlare di violenza sulle donne come emergenza o attraverso stereotipi può essere controproducente, quel che serve oggi è mettere in discussione lo scenario culturale in cui avviene. Ne è convinto Stefano Ciccone, presidente dell’associazione e rete nazionale “Maschile Plurale”. Costituitasi come rete e associazione nel 2007, l’esperienza della rete affonda le radici in diversi piccoli gruppi nati già vent’anni fa. Rispetto al passato, spiega Ciccone, in questi anni c’è stata una certa emersione del fenomeno, ma il rischio di relegarlo a fatti isolati è quanto mai presente. “Più ne parliamo come emergenza, come questione di cronaca nera enfatizzando i casi più efferati, e più paradossalmente la marginalizziamo perché raccontiamo la violenza sempre come un fenomeno estremo, isolato e attribuibile solo ad alcune tipologie precise di devianza, mentre è importante riconoscerne il carattere strutturale, diffuso e condiviso”.
Rischioso anche tentare di tracciare il profilo dell’uomo violento. “Se lavoriamo sull’identikit – spiega Ciccone – pensiamo sempre che il sospettato sia qualcun altro, perché non corrisponde al nostro profilo. Se invece proviamo a ragionare su una serie di meccanismi che generano la violenza, vediamo che molti di questi, invece, ci riguardano”. Una sorta di trappola in cui cadono spesso i media, continua Ciccone. “In genere, nei telegiornali si raccontano casi di violenza attribuendoli ad una patologia individuale, alla depressione o all’alcolismo. Non riconosciamo mai una radice culturale. Lo facciamo solo quando l’autore della violenza ha un’altra cultura. Uno degli ultimi casi che mi ha colpito è stata l’uccisione di una ragazza rumena avvenuta poco tempo fa in Emilia-Romagna. Una ragazza di 23 anni uccisa dal suo compagno italiano di 57, aiutato da altre persone. Il titolo sui giornali era ovviamente omicidio passionale. Quando è una donna italiana che viene uccisa da un rumeno, invece, invochiamo subito le leggi straordinarie per l’espulsione dei rumeni. Forse è banale, ma dentro questo esempio non c’è solo la dinamica della rappresentazione razzista, c’è anche il fatto che continuiamo a dire agli uomini italiani di non preoccuparsi perché questo problema non li riguarda”.
In errore, secondo Ciccone, cade anche chi lavora alle campagne informative contro la violenza. “Abbiamo una rappresentazione di donne come soggetti deboli e che hanno bisogno di tutela. Tutte le campagne contro la violenza mostrano donne vittime, con lividi, schiacciate in un angolo. Quella rappresentazione mi dice che le donne sono dei soggetti che hanno bisogno di essere protetti da qualcuno. Mentre si parla ancora poco di chi è l’artefice della violenza e del perché avvenga”. Per questo, occorre ripensare anche e in parte le campagne. “Facciamone una che parli agli uomini – spiega Ciccone -, evitando l’operazione ambigua e pericolosa di fare appello agli stereotipi tradizionali. Spesso nelle campagne si dice che la violenza non è un fatto culturale ma frutto di un disordine. Il problema è dire che la violenza è frutto di un modello, di un immaginario, di una idea di sessualità. Se non mettiamo in discussione il modello culturale non togliamo acqua alla violenza e alle sue radici”.
Oltre al lavoro fatto sui territori dai vari centri antiviolenza, “fondamentale e straordinario”, per Ciccone serve lavorare maggiormente sulla prevenzione. Ad oggi non mancano i gruppi di uomini e i momenti di confronto. Tuttavia per Ciccone si tratta di uno spazio di riflessione ancora esiguo e si potrebbe fare molto di più nelle scuole. “Gli interventi sono inadeguati, anche quelli sugli uomini. Si tratta di interventi di nicchia e spesso poco consapevoli dell’aspetto culturale della violenza che è invece quello che dobbiamo enfatizzare”. Di esperienze di aiuto agli uomini violenti ce ne sono, come a Torino, dove da anni è attivo un numero di telefono di ascolto sul disagio maschile. “Si basa sulla prevenzione della violenza – chiarisce Ciccone -, quindi di ascolto di uomini che esprimono un disagio che potrebbe diventare un comportamento violento. Un ascolto volontario e libero, orizzontale e paritario”. Un’altra esperienza è quella di Firenze dove sono attivi anche percorsi terapeutici per uomini “maltrattanti” che abbiano esplicitato il problema, non di rado accompagnati da centri antiviolenza. Altre esperienze degne di nota in Emilia Romagna, o a Milano, nel carcere di Bollate, con uomini condannati per motivi di violenza di genere. Esperienza che sta nascendo anche a Roma, sia nel carcere di Rebibbia che in quello di Regina Coeli dove sono in corso due percorsi differenti con detenuti e percorsi con persone in misure alternative. (ga)
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