La Mole Vanvitelliana di Ancona accoglie fino al primo aprile la mostra Vertigine del reale di Cristiano Berti, artista torinese che da qualche anno vive nelle Marche. Nei suoi viaggi di esplorazione della realtà, Berti predilige situazioni di marginalità sociale che per propria natura sono cariche di potenzialità sovversive del senso comune. Elemento comune è il riferimento costante alla realtà, mai manipolata nei suoi dati di partenza, sempre riletta in una chiave capace di rivelarne le anomalie, le storie nascoste e cadute nell’oblio, le assurdità. La mostra, a cura di Gabriele Tinti, è organizzata da Fuorizona ArteContemporanea in collaborazione con il museo Omero, anche al fine di renderla accessibile al pubblico non vedente.
All’interno della mostra si può visitare “Memorial”: nella Provincia di Torino, tra il 1993 e il 2001, sono state uccise 19 donne che si prostituivano in strada. “Memorial” mostra le immagini dei 18 luoghi in cui sono stati rinvenuti i cadaveri di queste donne. I luoghi fotografati sono stati individuati con una ricerca sui quotidiani di cronaca locale e grazie all’aiuto di testimoni oculari. ‘Memorial’ – spiega l’autore – è un lavoro che vive prima di tutto nella sensazione lasciata da questi luoghi svuotati, spesso definibili come anonimi, e del rapporto che intercorre tra queste immagini di paesaggio e un titolo che allude a qualcosa che è successo. Il titolo dice che siamo di fronte ad una scena vuota, non solo priva di presenze umane, ma priva di senso (poiché dapprima non c’è spiegazione). Quando lo spettatore viene a sapere, leggendo il breve testo che fa parte integrante del lavoro, che si tratta di luoghi di ritrovamento di cadaveri, ne ricava uno shock ed è indotto a riguardare le stesse immagini. Si tratta di un dispositivo molto semplice, ma non per questo meno efficace, capace di cambiare lo sguardo e rovesciare il senso inizialmente attribuito alla serie di fotografie. Da quest’ultimo punto di vista, più ‘tecnico’ se vogliamo, l’oggetto dell’operazione potrebbe essere uno qualsiasi. Ma io credo che ‘Memorial’ ricavi una parte della sua forza comunicativa dal fatto che l’anonimato delle scene fotografate riproduce la condizione di anonimato delle vittime, tutte donne che si prostituivano in strada, quasi tutte donne straniere. Anche senza considerare che in alcuni casi le vittime sono rimaste letteralmente anonime, cioè non è stato possibile identificarle con certezza (almeno a quel che ne so io), si può dire che tutte le donne che si prostituiscono siano anonime, per scelta o per costrizione. Ma qui si entra in ambiti interpretativi che lascio ad altri approfondire”.
Un lavoro di ricerca naturalmente molto lungo e impegnativo: “L’impatto più forte lo ha avuto ovviamente la ricerca dei luoghi, svolta spesso chiedendo aiuto a persone che avevano trovato per prime i cadaveri o li avevano visti perché abitavano nei paraggi, o a giornalisti che erano giunti sul posto per i servizi di cronaca nera. L’ho fatta in compagnia di Piero Ottaviano, che ha poi scattato le foto, e questo l’ha resa più sopportabile. In un caso abbiamo dovuto ripercorrere il sentiero che la donna aveva fatto cercando di sfuggire all’assassino (dopo che questi aveva ucciso il cliente), in un altro siamo entrati in una fabbrica abbandonata (in seguito demolita) infilandoci in un varco della cancellata esattamente come avevano fatto la donna e il suo assassino, così come centinaia di sbandati prima e dopo quella notte. Di tutto questo non c’è traccia nel lavoro esposto, ma non importa”.
Un altro lavoro da vedere è “Happy”, installazione sonoroa con testo scritto, dedicata a una ragazza africana che vive in Italia, attraverso tutti gli eventi che hanno lasciato una traccia sulla sua pelle. “‘Happy’ – spiega l’autore – è un lavoro che io amo molto per la sua astrazione. C’è una donna che parla una lingua incomprensibile, e non la vediamo. C’è un testo che trascrive ciò che dice e scopriamo che racconta brevi storie, tutte legate a eventi che hanno lasciato una traccia sulla sua pelle. Quindi parla di segni, ciò che costituisce da sempre l’arte visiva e il fatto che non ci sia niente da vedere rende la cosa molto poetica, credo. Sono arrivato a concepire il lavoro in questa forma dopo aver fatto una vera e propria mappatura video e fotografica del corpo di Happy e dopo aver pensato, per un po’, di usare Happy come una sorta di grande tavola anatomica parlante, a grandezza naturale. Ma poi ho capito che mi piaceva molto di più lasciare a Happy il suo pudore, renderla invisibile ma non per questo meno presente. Il lavoro prende il titolo dal nome proprio di questa ragazza africana, perché per pura coincidenza diceva qualcosa delle storie che lei racconta: sono storie di una bambina e poi una ragazza e poi una donna felice, nonostante qualche disavventura. Non c’è bisogno di cercare drammi ovunque, e le africane e gli africani non sono tutti sofferenti, piagati o mutilati. ‘Happy’ è all’origine della collaborazione del museo Omero alla mia mostra: è un lavoro che parla di segni che non si possono vedere, quindi perfettamente accessibile a chi non vede”.
Proficua la collaborazione con il museo Omero: “Abbiamo sviluppato una idea di collaborazione che è partita da ‘Happy’, come ho detto, e da ‘Prestige’: un gruppo di bagagli smarriti sui treni, che vengono esposti chiusi dai sigilli delle ferrovie e sollecitano la curiosità dello spettatore: cosa ci sarà dentro? Si capisce che anche questo secondo lavoro funziona bene pensando ad un pubblico che non ci vede. La collaborazione ha preso una forma molto semplice: la trascrizione in braille di tutti i testi che accompagnano i lavori in mostra e l’organizzazione di una visita guidata, prevista per sabato 17 marzo”.
Si potrebbe definire un artista sociale? “Il sociale è dappertutto, posso dire che tutto ciò che faccio come artista abbia a che fare con il sociale. Ma non faccio arte impegnata, o arte di impegno sociale. Il sociale nutre la mia vita di stimoli e occasioni, ma bisogna saper conservare all’arte la sua libertà, che non è quella di lanciare messaggi e tantomeno proclami, ma di quella di scompigliare le carte e lasciarci interdetti”. Tra gli lavori “Rogo Api” , Universal Embassy, Lety. “Vertigine del reale” è realizzata con il patrocinio della Regione Marche, della Provincia di Ancona e del Comune di Ancona e con il supporto di Abet Laminati Spa, Banca dell’Adriatico, Unipol Assicurazioni e NonSoloStampa. (ab)
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