Ipazia faro icona e sentinella della ragione della tolleranza e della verità

“Vedendo la casa astrale della Vergine, verso il cielo è rivolto ogni tuo atto, Ipazia sacra, bellezza delle parole, astro incontaminato della sapiente cultura”(Pallada, Antologia Palatina, IX, 400). Egitto, Anno Domini 391. In Alessandria l’astronoma e filosofa Hypatia (370–marzo 415) lotta per preservare tutto il sapere del mondo antico racchiuso nello scrigno della famosa Biblioteca. […]

“Vedendo la casa astrale della Vergine, verso il cielo è rivolto ogni tuo atto, Ipazia sacra, bellezza delle parole, astro incontaminato della sapiente cultura”(Pallada, Antologia Palatina, IX, 400). Egitto, Anno Domini 391. In Alessandria l’astronoma e filosofa Hypatia (370–marzo 415) lotta per preservare tutto il sapere del mondo antico racchiuso nello scrigno della famosa Biblioteca. Oggi, 1597 anni dopo il suo martirio per aver creduto nella libertà dell’acropoli, in piena rivoluzione dei gelsomini non solo sulle coste del Mediterraneo, in un mondo che cambia alla velocità del pensiero, Ipazia conserva intatta la sua impressionante attualità. Perché i nemici della libertà della ricerca sono molti, sotto le mentite spoglie dei laicisti, dei libertini, dei privilegiati, dei “difensori” dei “nuovi” diritti civili della persona, degli sfruttatori, degli intolleranti, degli arroganti del potere. Ipazia, i cui atomi sono ancora tra noi, ci ricorda che, grazie alla pace ed alla libertà della scienza, conquisteremo pure le altre stelle! Nel famoso film “Agorà” il suo giovane schiavo Davus è lacerato tra l’amore segreto per Ipazia e la libertà che potrebbe conquistare scegliendo di unirsi all’inarrestabile insurrezione dei cristiani, convertendosi e guadagnando la causa nella setta dei parabolani. Nella pellicola cinematografica Agorà (Usa-Spagna 2009, 126 min.) del regista cileno Alejandro Amenàbar, girata a Malta tra il 17 marzo e il 30 giugno 2008 e uscita in Italia il 23 aprile 2010, distribuita da Mikado in 200 copie, esattamente un anno dopo il suo passaggio a Cannes, è possibile rivivere la realtà di una civiltà remota che avrebbe cambiato il mondo. Il film storico è ispirato a eventi reali mai portati prima sul grande schermo, anche se nella saga di Star Trek vi sono storie di scienziate di altri mondi e civiltà che richiamano la figura di Ipazia. Agorà è sicuramente un film in memoria di donne coraggiose come l’iraniana Neda Salehi Agha-Soltan. Che, come Ipazia, sono le migliori in quanto disposte a perdere la vita per quello in cui credono. Una qualità ammirevole in qualunque cultura, religione e civiltà. Agorà è anche un film che onora scienziate del calibro di: Henrietta Swan Leavitt (astronoma statunitense che mise in relazione le dimensioni delle stelle con la loro luminosità); Vera Rubin (l’astrofisica Usa, benché ignorata dalla comunità scientifica perché donna, si accorse che mancava all’appello il 90% della massa della nostra Galassia, la Via Lattea, fornendo un contributo essenziale alla scoperta della Materia Oscura); Lisa Randall (la prima donna a conquistare una cattedra al dipartimento di Fisica dell’Università di Princeton, al Mit e ad Harvard: è autrice di uno dei modelli più accreditati di Multiverso). In Agorà è esemplare la fotografia di Xavi Giménez. Esalta il punto di vista del sovrannaturale che scruta dall’alto le tragedie dell’umanità tra spettacolari viaggi orbitali (grazie alle immagini Nasa) e immaginifici epicicli astrali. Il kolossal esalta Ipazia: faro, icona e sentinella della ragione, della tolleranza, della scienza e della verità nella ricerca dei misteri dell’Universo e della Persona. Una scienziata che, grazie anche al cono di Apollonio (con tutte le cautele del caso, viste le poche fonti disponibili) cerca di svelare i misteri dell’Universo e della Persona. Non nel paganesimo, non nel culto, non nel cieco scientismo, ma nella riflessione e nell’osservazione che si coniuga con l’insegnamento neoplatonico. Agorà è un film da far vedere a tutti, anche nelle canoniche e negli estivi cinema all’aperto. Gli spettatori sospendono l’incredulità e pensano veramente di camminare per le strade di Alessandria, una città spettacolare e dalle dimensioni incredibili. Magnifica, antica e impressionante (qui è stato sepolto Alessandro Magno), è uno dei maggiori centri della civiltà greco-romana, il più grande porto del Mediterraneo con il famoso Faro, una delle sette meraviglie del mondo antico. Oggi sede della nuova grande Biblioteca universale, la cui architettura consente altrettanti voli pindarici fino alla città italiana di Teramo (piazza Garibaldi). Ma di quale scontro tra Fede e Ragione, Religione e Scienza parlano agnostici, laicisti e cultori dell’ateismo? Ma quale paura per il Vaticano? Quali pensieri contorti si aggirano nella mente dei nemici della Chiesa? “Agorà – assicura il regista Amenàbar – non è un’offesa al Cristianesimo ma è un film contro tutti i fondamentalismi e non c’è stata alcuna pressione del Vaticano per frenare l’uscita della pellicola”. Siamo tra il IV e il V Secolo dopo Cristo, all’epoca dell’Impero Romano diviso tra Oriente e Occidente. Ipazia “appartiene” alla nobiltà degli intellettuali, la classe superiore nella vita di Alessandria. All’epoca i filosofi pensavano anche alla traiettoria della Luna, del Sole e delle altre stelle ed erano profondamente umanisti: qualità perse dai nostri attuali scienziati, salvo rare eccezioni. Ma in Alessandria avevano anche un loro lato oscuro: la schiavitù. Un’intera classe di persone erano sfruttate. Non erano nemmeno considerati umani, più simili agli animali domestici. Le violente sollevazioni religiose per le strade di Alessandria si diffondono fin dentro la famosa Biblioteca (il cui vero incendio per opera dei romani nel III secolo d.C., portò alla distruzione di 500mila volumi) di Serapide, coinvolgendo i discepoli di Ipazia. Siamo in un contesto di azioni cruente reciproche tra pagani, cristiani ed ebrei con le autorità imperiali romane accerchiate tra più fuochi. Al centro della spietata lotta di potere tra l’Impero romano e la Chiesa. Intrappolata dentro le mura del Sapere, la talentuosa Ipazia cerca di salvare papiri e pergamene del mondo antico. Tra i suoi discepoli, due giovani si contendono il cuore della filosofa: l’arguto e benestante pagano Oreste (futuro prefetto imperiale) e lo schiavo cristiano Davus. Ipazia non credeva agli dei, amava la ragione e la verità, interrogava le stelle, l’universo ignoto e, forse inconsapevolmente, Dio, ossia la Somma Verità. Fu uccisa per invidia come molte donne nella storia, secondo alcune fonti. Ultima erede della cultura antica e, in quanto donna, massima espressione di una lunga evoluzione del pensiero civile e libero che non si rivedrà più fino all’epoca moderna, Ipazia viene travolta dalla crisi di un mondo decadente. Roma non ha mai amato la scienza e gli scienziati. Alcuni fondamentalisti cristiani non sopportarono la sua influenza culturale e politica nella vita degli alessandrini. La Chiesa del tempo, d’altro canto, non poteva permettere l’esistenza di una donna libera e potente, non cristiana, una intellettuale in grado di tenerle testa. Siamo quasi alla fine di un grande Impero che non ha mai saputo e voluto ripensarsi, trovandosi così impreparato di fronte al nascere ed al dilagare di movimenti fondamentalisti sempre più fanatici e intolleranti. Una lezione per l’Umanità che nella Storia spesse volte giustifica ed alimenta “zeloti” fanatici e violenti che nulla hanno a che fare con la civiltà, l’ordine, il diritto, la fede religiosa e, soprattutto, con il Vangelo di Cristo. I tempi in cui visse Ipazia erano molto difficili. Le invasioni barbariche avevano annientato i fasti e le sontuose città dell’Impero Romano d’Occidente. Ora premevano sull’Impero Romano d’Oriente, su Alessandria. La paura, i disordini e le violenze erano all’ordine del giorno. In primis colpivano le autorità romane ed ecclesiastiche che, tuttavia, sembrano dare nel film carta bianca ai parabolani, la setta cristiana che arriva a distruggere la Biblioteca del Serapeo dove Ipazia lavora insieme ai suoi discepoli. In realtà, c’erano due Biblioteche in Alessandria. La prima è bruciata quando è arrivato Giulio Cesare, la seconda nel III Secolo dopo Cristo. Il film Agorà parla di quest’ultima post-datando l’episodio con Ipazia che assiste alla sua distruzione. È l’inizio della fine del mondo antico. Sono tanti i parabolani del XXI Secolo simili a quelli di Alessandria che annientarono e bruciarono libri e persone. Con apparente ostilità implacabile verso l’eresia e il potere imperiale, il vescovo Cirillo, leggendo e interpretando alcuni passi della Sacra Scrittura, nel film attacca senz’appello l’eretica strega Ipazia, dalle cui labbra pende Oreste che non si inginocchia. La filosofa aveva rifiutato di convertirsi nonostante le richieste insistenti e più che logiche dei suoi amici e discepoli. Ipazia è irremovibile. Così tutti l’abbandonano (all’inizio, sotto buona scorta romana) nelle mani degli spietati esecutori. Il regista avrebbe dovuto rappresentare fedelmente la fine di Ipazia. Fin troppo politicamente corretta è la pietà di Davus (“E’ svenuta!”) prima della lapidazione post mortem della donna da parte dei pazzi parabolani che esistevano soltanto in Egitto, imponendo la dottrina della Chiesa con la forza, mentre nel deserto nascevano diversi movimenti ascetici. La gente era convinta che Cristo sarebbe tornato e tutti dovevano essere preparati espiando i propri peccati e svolgendo penitenze per ottenere la salvezza. Il deserto offriva un’opportunità unica di penitenza e così molti anacoreti egiziani e siriani rinunciavano a tutto. Provenivano dalle classi umili, raramente erano persone istruite, ma piuttosto dei mistici che preferivano abbandonare la vita pubblica per aspettare il Cristo trionfante. Aiutavano il prossimo, digiunavano per lunghi periodi, in perfetta castità e povertà, mentre svolgevano atti penitenziali per i peccati dei loro fratelli. Erano anche una formidabile riserva politico-militante e religiosa per i Vescovi. Ma nel supplizio finale Ipazia fu realmente squartata viva. Così illuministi e nemici della Chiesa fin dal 1736 (non solo i poeti) la elessero loro eroina insieme al domenicano Giordano Bruno bruciato sul rogo il 17 febbraio 1600. Il film Agorà è l’occasione per parlare sinceramente e criticamente della celebre matematica e filosofa alessandrina, senza irrazionali scivoloni nell’anticlericalismo più assurdo, antistorico e illogico. La grande Storia non si studia sui sussidiari e sui film ma sulle fonti originali. Come sembra abbia fatto il regista cileno che esplora l’esperienza individuale della popolazione di Alessandria in un’epoca di grande turbolenza. Le testimonianze antiche su Ipazia sono offerte da quattro storici: Socrate Scolastico (Storia Ecclesiastica), Filostorgio (Storia Ecclesiastica), Sozomeno (Storia della Chiesa), tutti contemporanei di Ipazia, e da Damascio, ultimo direttore dell’Accademia platonica di Atene, che scrisse di lei 50 anni dopo il suo massacro. Una rivoluzione aveva preso piede nelle strade della città, alimentata dal declino della civiltà greco-romana e dall’avanzata del Cristianesimo. Simbolo di tolleranza tra le culture, Alessandria sembrava immersa in quel tipo di stravolgimenti che normalmente indicano la fine di una civiltà e l’inizio di un nuovo ordine. A perdere sarà l’Impero, a vincere sarà la Chiesa. I temi toccati dalla pellicola sono notevoli e stimolanti: dalla riflessione su scienza e religione, al dialogo tra le fedi e le culture, ponendo al centro della discussione la vicenda personale della protagonista Ipazia, emblema di donna emancipata ma non trasgressiva, simbolo della conoscenza e della ragione libera da vincoli sociali, politici e religiosi. Tante le concessioni di una pellicola (nel cast stellare: Rachel Weisz, attrice londinese, figlia di una psicanalista austriaca e di un inventore ungherese, diventata famosa per la sua interpretazione del film La mummia); Rupert Evans, Max Minghella, Ashraf Barhoum, Oscar Isaac, Richard Durden, Sami Samir, Michael Lonsdale; fotografia: Xavi Giménez; sceneggiatura: Alejandro Amenábar, Mateo Gil) che, per la prima volta in assoluto, racconta liberamente un momento storico in cui la Chiesa inizia a diventare una potenza e i martiri non sono più soltanto i cristiani ma anche gli ebrei e i pagani. Alessandria era il centro del mondo e della formazione intellettuale in quel periodo. Le persone arrivavano da ogni angolo della Terra per discutere di teatro, filosofia, matematica, astronomia e religione. Come oggi a New York, Londra, Parigi, Berlino, Pechino o qualsiasi altra grande capitale mondiale. Ma nei tempi antichi le persone non viaggiavano, come facciamo oggi, sugli aerei. La grande maggioranza probabilmente si allontanava soltanto di qualche chilometro dalle zone di origine. Così, una città con africani, nordeuropei, latini, indiani e orientali, diventava necessariamente uno dei posti più cosmopoliti della Terra. Non è una sorpresa che differenti filosofie potessero coesistere ad Alessandria perché la gente andava lì per imparare. Ecco perché il film è incredibilmente realistico in un contesto sorprendentemente moderno, alimentato da mondi scientifici, filosofici e religiosi che s’incrociano tra loro. Nell’Alessandria di Ipazia non era semplice distinguere i gruppi sociali, i ricchi dagli intellettuali. Le persone istruite avevano una posizione sociale ed economica che permetteva loro di accedere all’istruzione. C’erano pochi casi di persone nate povere che potevano arricchirsi. La mobilità sociale di cui godiamo oggi in Occidente, non esisteva: le classi erano molto più definite. Un intellettuale era un aristocratico perché era l’unico a poter leggere e scrivere. Proprio in quel periodo si afferma il Clero che accetta i poveri, gli oppressi e gli ignoranti, consentendo loro talvolta di scalare i vertici della gerarchia della Chiesa. Molti imparano a leggere i testi sacri, altri anche a scrivere per poter annunciare a tutti la Parola di Dio. Quelli che lo desideravano potevano fare carriera, sebbene i membri più importanti della Chiesa provenissero quasi sempre da famiglie ricche. La Biblioteca di Alessandria diventa un luogo leggendario di formazione, grazie a una tassa simbolica pagata dalle navi che visitavano la città: dovevano semplicemente lasciare una copia di qualsiasi libro che trasportavano. Un po’ come oggi su Google, eclettica Biblioteca universale. Ma quanti veri santi non cristiani sono esistiti sulla Terra ed oggi sono effettivamente in Cielo? “La Chiesa, sull’esempio di Gesù, vede l’amore per Dio e per il prossimo come un motore potente capace di offrire un’autentica energia che potrà irrigare l’ambito sociale, giuridico, culturale, politico ed economico”(Benedetto XVI – Discorso 12 Giugno 2010). Nell’udienza generale di mercoledì 3 ottobre 2007 Papa Benedetto XVI ha ricordato la figura di San Cirillo d’Alessandria (www.reginamundi.info/padridellachiesa/SanCirilloAlessandria.asp) e siamo certi che tra le pecorelle note al Signore, sicuramente Ipazia ha un posto sicuro nel Suo Cuore. Per il martirio subito. “Considero Ipazia la versione femminile di Gesù – fa notare il regista Alejandro Amenàbar – il suo insegnamento era la tolleranza verso gli altri, la comprensione e il rapporto che aveva con i suoi allievi era simile a quello di Gesù con i discepoli. Non a caso prima di iniziare a girare ho voluto rivedere Il vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini”. Ipazia è una figura perfettamente cristiana. “Agorà è la storia di una donna, di una città, di una civiltà e di un pianeta. L’agorà è la Terra su cui dobbiamo tutti vivere insieme. Abbiamo cercato di mostrare la realtà umana nel contesto di tutte le specie terrestri e la Terra all’interno di un contesto universale, guardando gli esseri umani come fossero formiche e la Terra come una piccola sfera tra tante stelle. Abbiamo giocato cambiando la prospettiva. Talvolta mi piacerebbe guardare da una serratura e vedere il passato esattamente come si è svolto – rivela il regista – anche se questo fosse possibile soltanto per cinque secondi o cinque minuti. È una cosa che abbiamo cercato di fare in questo film: offrire al pubblico la possibilità di guardare il passato per due ore. Questo è un viaggio nel tempo e nello spazio. Agorà è, per molti versi, la storia del passato che si rivolge in maniera indiretta a quello che avviene nel presente. È uno specchio che le persone possono guardare e osservare attraverso la distanza del tempo e dello spazio, per constatare quanto poco sia cambiato il mondo”. Il film è girato in lingua inglese, primariamente per il mercato anglosassone ed americano. “Già in fase di scrittura – spiega il regista – sapevamo che avremmo provocato discussioni accese. Stavamo raccontando un periodo oscuro della cristianità. Eppure non avevamo nessuna intenzione di offendere i fedeli. Anzi, per me l’ispirazione del film resta cristiana: tanto i valori quanto il martirio di Ipazia accostano la sua figura a quella del Cristo. Fernando Bovaira, Mateo Gil e io siamo stati immersi per tre anni nella storia e nei libri di astronomia, completamente coinvolti dall’Egitto di 1700 anni fa. È sorprendente come un mondo così leggendario (la Biblioteca di Alessandria, la Via Canopica e Il Faro) sembri condannato all’oblio, soprattutto al cinema”. Chi ha pensato di trasformare Ipazia da simbolo di scienza, verità e libertà ad eroina femminista sessantottina di guerre sante laiciste, non ha capito nulla. Agorà celebra una figura straordinaria, astronomicamente profetica (via gli epicicli!) che forse anticipò i tempi di Copernico, Galilei e Keplero. Non a caso la pellicola era già pronta per celebrare l’Anno Internazionale dell’Astronomia 2009. Ma come Pitagora, Ipazia non fu compresa dalle menti dell’Impero Romano e della Chiesa. Nell’Alessandria d’Egitto del V Secolo d.C., la figura di una scienziata, per giunta consigliere del prefetto imperiale, così illuminata e seria, non poteva andare bene. Ognuno deve assumersi nella Storia le sue responsabilità, senza eccezioni. La vita di Ipazia fu soffocata nel marzo 415 d.C. in maniera orribile. In attesa della Giustizia di Dio e degli uomini. L’interpretazione dell’attrice, premio Oscar, Rachel Weisz, è magistrale. Il kolossal preparato da un’accurata ricostruzione storica che non trascura i dettagli, ha fatto già molto parlare di sé tra i cristiani, i mussulmani, gli induisti e tutti coloro che credono nella dignità della persona umana. In questo Amenàbar, garanzia di qualità, ha già fatto centro e non solo intrattenimento. Facciamo in modo che il tono assunto da certi dibattiti e libri (ancora prima che Agorà approdasse nelle sale italiane) ceda finalmente il passo all’osservazione critica e oggettiva della Vita di Ipazia nel suo contesto storico, analizzando le fonti. A molti non è parso vero di prendere a pretesto il film e la sconosciuta vicenda di questa donna straordinaria, per ribadire l’incompatibilità fra scienza e fede, fra cattolicesimo e ragione, fra libertà della ricerca scientifica e principi e valori religiosi annunciati dalla Chiesa in duemila anni. Laicisti e scientisti, come accadde con Giordano Bruno, hanno subito alzato la voce contro la Chiesa Apostolica Romana, ben prima che la pellicola uscisse nei paesi anglofoni. Il fatto che il film abbia subito un ritardo nella distribuzione in Italia, è bastato per far gridare allo scandalo. Ma il regista ha squarciato il velo dell’oblio non solo su un periodo oscuro della nostra Storia, ma anche sulla credibilità dei nemici di Cristo. Come rifiutare la Verità? Responsabili di certe polemiche sono i nemici della Chiesa, non gli artisti, non gli autori di questo film. La Chiesa oggi, per tornare a riempire conventi e seminari di giovani, ha bisogno di esempi autenticamente cristiani, anche laici, che professano la Verità. Magari grazie anche all’arte cinematografica che può concedersi certe libertà narrative che non sono, tuttavia, materia di fede semmai di analisi storica. Abbiamo bisogno di autentici testimoni cristiani della Verità. Ossia di persone che non hanno paura di denunciare il male nella Storia e, quindi, nella Chiesa. Allo stesso tempo, però, razionalmente non si può trasferire una vicenda del V secolo d.C. ai giorni nostri, ai movimenti, ai partiti, alle teologie, alle filosofie ed alle ideologie, come se in duemila nulla fosse accaduto. Come se i Padri della Chiesa, i frati mendicanti e predicatori di San Francesco e San Domenico, insieme a tutti i Santi fino a Padre Pio e Madre Teresa di Calcutta, non fossero mai esistiti. La forzata operazione ideologica lanciata dai laicisti atei ed agnostici di ieri e di oggi, alla prova dei fatti si rivela molto debole ed assai poco razionale. Si parli di Ipazia anche nelle canoniche. Si faccia vedere il film. Si dibatta su tutto. Ma, per cortesia e per carità, senza fare troppa confusione, altrimenti rischiamo di trasformare un bellissimo film come Agorà e una figura esemplare di pace, di scienza e di libertà come Ipazia, in un campo di battaglia fra formiche, facendo il gioco del vero nemico dell’Umanità, il Parabolano invisibile, che ama nascondersi tra di noi per tramare contro l’Uomo adattandosi alle circostanze ed agli scenari della Storia. D’altro canto noi cristiani abbiamo moltissimo da farci perdonare. Così nelle altre religioni. Chi ben comincia è alla metà dell’opera: ora bisogna riscoprire le figure femminili di duemila anni di Cristianesimo genuino. Ma anche le eroine del nostro tempo come la giovane Neda. Se la Chiesa ricorda il vescovo Cirillo di Alessandria, evidentemente ha le sue ragioni che invitiamo a riscoprire. Nella Lettera Enciclica Orientalis ecclesiae, pubblicata a Roma la Domenica di Pasqua del 9 aprile 1944 (il sesto del Suo pontificato) Pio XII esalta la figura e le virtù del vescovo S. Cirillo di Alessandria nel quindicesimo centenario della morte. “Sempre con somme lodi – scrive Pio XII – la chiesa esaltò s. Cirillo patriarca di Alessandria quale autentica gloria della chiesa orientale e preclarissimo vindice della vergine Madre di Dio. Queste lodi Ci piace ora in succinto riandare scrivendo di lui, mentre si compie il XV secolo da quando felicemente egli mutò con la patria celeste questo terreno esilio. Fino dai suoi tempi infatti il Nostro predecessore s. Celestino I lo chiama «buon difensore della fede cattolica», «sacerdote degno della massima approvazione», e «uomo apostolico». Il concilio ecumenico Calcedonese poi non solo invoca in aiuto la sua dottrina per ravvisare e ribattere i nuovi errori, ma non esita a paragonarla altresì con la sapienza di san Leone Magno, il quale a sua volta elogia gli scritti di un così grande dottore e ne raccomanda la lettura, precisamente perché appieno combaciano con la fede dei santi padri. Né minore venerazione il quinto concilio ecumenico radunato a Costantinopoli tributò all’autorità di s. Cirillo; e più tardi, a distanza cioè di parecchi anni, quando si dibatteva la controversia delle due volontà in Cristo, di nuovo la dottrina di lui sia nel primo concilio Lateranense, sia nel sesto concilio ecumenico, fu meritatamente e vittoriosamente rivendicata dagli errori dei monoteliti, dei quali a torto alcuni l’accusavano d’essere infetta. E invero, a testimonianza dell’altro santissimo predecessore Nostro Agatone, egli «fu difensore di verità» e risultò «costantissimo predicatore di fede ortodossa»”. Papa Pio XII nella Lettera Enciclica ritiene “pertanto cosa molto opportuna, scrivendone brevemente, di porre la vita integerrima, la fede, la virtù sua sotto gli occhi di tutti, e prima che ad ogni altro sotto gli occhi di coloro i quali, per appartenere alla chiesa orientale, ben a ragione si gloriano di questo luminare di cristiana sapienza e di questo atleta di apostolica fortezza. Ebbe onorati natali, e promosso nell’anno 412, come si ha per tradizione, alla sede di Alessandria, dapprima combatté contro i novaziani e gli altri detrattori e corruttori della genuina fede, tanto con la parola, quanto con gli scritti e la pubblicazione di appositi decreti, mostrandosi d’una vigilanza e d’un coraggio a tutta prova. Poi, al serpeggiare dell’empia eresia di Nestorio per le varie regioni dell’oriente, da quel sollecito pastore che era, subito scoprì i novelli errori che imperversavano, usò ogni mezzo per allontanarli dal gregge a lui affidato, e durante quel periodo di tempo, ma specialmente nello svolgersi del concilio di Efeso, si dimostrò invitto assertore e sapientissimo dottore della divina maternità di Maria vergine, dell’unità d’ipostasi in Cristo e del primato del romano pontefice”. Pio XII evidenzia, poi, l’altra importantissima fonte di conoscenza sul vescovo di Alessandria. “Avendo però l’immediato Nostro predecessore di fel. mem. Pio XI nell’enciclica Lux veritatis magistralmente descritta e illustrata la parte precipua che ebbe s. Cirillo nelle vicende di questa gravissima vertenza, allorché nel 1931 ricorse il XV centenario di quel concilio, reputiamo superfluo il ritornarvi sopra punto per punto”. Quali furono i meriti del vescovo Cirillo? “Non si tenne pago Cirillo di combattere strenuamente contro le dilaganti eresie, di tutelare con alacre diligenza l’interezza della dottrina cattolica e di farla risaltare nella meridiana sua luce, ma quanto più poté si adoperò per richiamare sul retto sentiero della verità i fratelli erranti. I vescovi infatti della regione antiochena non avevano fino allora riconosciuta l’autorità del concilio di Efeso. Ebbene, Cirillo col suo zelo fece sì che dopo lunghi tentennamenti arrivassero finalmente a piena concordia. E dopo che con l’aiuto di Dio poté raggiungere e conciliare siffatta felicissima pace, e difenderla con diligente cura contro quanti la oscuravano e la turbavano, ormai maturo per la ricompensa e la gloria eterna, nell’anno 444, tra le lacrime di tutti i buoni, se né volò al cielo”. Un santo venerato soprattutto dagli orientali. “I fedeli di rito orientale non solo lo collocano nel numero dei «padri ecumenici», ma nelle loro preci liturgiche l’onorano dei più ampi elogi. Così per esempio i greci, nei «Menèi» da celebrarsi il giorno 9 di giugno, cantano di lui: «Illustrato la mente dalle fiamme dello Spirito Santo, quasi sole che dardeggi i suoi raggi, esprimesti gli oracoli tuoi; lanciasti i tuoi dogmi su tutte le parti del mondo fedele, illuminando ogni condizione di persone, o beatissimo, o divino; e mettesti in fuga le tenebre delle eresie, con la potenza e le forze di Colui, che nato dalla Vergine sfolgorò i suoi splendori». Certamente hanno ben ragione i figli della chiesa orientale di rallegrarsi di questo santissimo Padre, come d’insigne loro gloria domestica. Perché su di esso risplendono in modo particolare quelle tre doti dell’animo che parimente tanto illustrarono gli altri padri dell’oriente: cioè una esimia santità di vita, in cui nominatamente brilla una calda devozione verso l’eccelsa Madre di Dio; una dottrina veramente ammirevole, per la quale la Sacra Congregazione dei Riti con decreto del 28 luglio 1882 lo dichiarò dottore della chiesa universale; e una premurosa e indefessa sollecitudine, in virtù della quale infranse con invitto coraggio gli assalti degli eretici, asserì la fede cattolica, la difese, e instancabilmente, fin dove poté, la propagò. Mentre tuttavia di gran cuore Ci congratuliamo che tutti i popoli cristiani dell’oriente onorino con intensa venerazione s. Cirillo, non meno Ci addolora che non tutti convengano in quella desideratissima unità, la quale egli così ardentemente amò e promosse. Tanto più anzi Ci duole che ciò accada a questi nostri tempi in cui si rende necessario che tutti i cristiani, a gara unendo intenzioni ed energie, si stringano nell’unica chiesa di Gesù Cristo, affinché quasi uniti in una sola falange, compatta, concorde, stabile, resistano contro gli sforzi dell’empietà ogni giorno più minacciosi. Per conseguire tale effetto, è assolutamente necessario che tutti, seguendo le orme di s. Cirillo, raggiungano quella concordia di animi, che dev’essere munita di quel triplice legame con cui Cristo Gesù, fondatore della chiesa, volle che essa fosse stretta e tenuta insieme, quasi in superno infrangibile vincolo, da lui stabilito; vale a dire nell’unica fede cattolica, nell’unica carità verso Dio e verso tutti, e infine nell’unica obbedienza e soggezione alla legittima gerarchia costituita dal divin Redentore medesimo. Questi tre vincoli, come ben sapete, venerabili fratelli, sono tanto necessari, che se l’uno o l’altro di essi viene a mancare, non si può più neppure comprendere nella chiesa di Cristo vera unità e concordia”. Pio XII, dunque, esalta le virtù del vescovo Cirillo considerandole potenti ed efficaci contro il maligno di quei giorni orrendi e terribili sulla Terra, a causa di Hitler e seguaci. “Allo scopo di conseguire volenterosamente e di conservare con vigoria questa sincera concordia, desideriamo che, come fu già per i tempestosi suoi tempi, così anche per i giorni nostri il santo patriarca di Alessandria sia a tutti maestro e modello preclarissimo. Volendo incominciare dall’unità della fede cristiana, nessuno ignora l’inconcussa alacrità sua nel sostenerla con somma energia. «Noi – così egli dichiara – che abbiamo per amica la verità e i dogmi della verità, non seguiremo affatto gli eretici, ma calcando le vestigia della fede lasciataci dai santi padri, custodiremo contro tutti gli errori il deposito della divina rivelazione». Pur di combattere sino alla morte questa buona battaglia, era pronto a sopportare qualsiasi più acerba calamità. «Il mio più ardente desiderio – egli scrive – è di patire e morire per la fede di Cristo». «Nessuna ingiuria pertanto, nessuna contumelia, nessun insulto mi muove… sol che la fede ne esca sana e salva». E anelando con forte e nobile cuore alla palma del martirio, vergò queste magnanime parole:«Ho deciso per la fede di Cristo di andare incontro a qualsiasi travaglio, di sopportare altresì qualsiasi tormento, anche quelli che fra i supplizi sono giudicati i più gravi, finché non abbia alla fine sostenuta la morte che gioiosamente accetterò per questa causa».«Perché, se avessimo paura di predicare per la gloria di Dio la verità, per non incorrere in qualche molestia, con qual faccia, di grazia, potremmo presso il popolo esaltare le lotte e i trionfi dei santi martiri?»”. E poiché nei cenobi d’Egitto si agitavano a più riprese acerrime dispute sulla nuova eresia nestoriana, il vescovo Cirillo “da vigilantissimo pastore, avverte i monaci delle pericolose fallacie di tale dottrina, non per aggiungere esca a contrastanti competizioni di parole, «ma perché se mai alcuni, – così loro scrive – v’investissero, possiate non solo scansare voi stessi quei perniciosi errori, ma opponendo alla loro frivolezza la verità, possiate altresì indurre gli altri, da buoni fratelli e con opportune ragioni, a conservare costantemente, qual preziosa perla, la fede, già un tempo trasmessa alle chiese per mezzo dei santi apostoli». Come facilmente riscontreranno tutti coloro, i quali abbiano studiate le lettere ch’egli ebbe a inviare riguardo alla controversia degli antiocheni, mette luminosamente in rilievo che questa fede cristiana, la quale devesi da noi salvare e difendere a tutti i costi, è dottrina trasmessaci per il tramite della sacra Scrittura e dei santi padri, e al tempo stesso ci viene chiaramente e legittimamente proposta dal vivo e infallibile magistero della chiesa. I vescovi della provincia di Antiochia per il ristabilimento e la conservazione della pace pensavano che fosse sufficiente l’affermarsi soltanto sulla professione nicena. Invece s. Cirillo, pur fermamente aderendo al Simbolo di Nicea, richiese ancora dai suoi confratelli nell’episcopato, per il rafforzamento dell’unità, la riprovazione e la condanna dell’eresia nestoriana. Sapeva infatti benissimo che non basta accettare con docilità gli antichi documenti del magistero ecclesiastico, ma che occorre in più abbracciare con fedele sottomissione di cuore tutte quelle definizioni che dalla chiesa in forza della sua suprema autorità di tempo in tempo ci siano proposte a credere. Anzi, non è lecito, neppure sotto il pretesto di rendere più agevole la concordia, dissimulare neanche un dogma solo; giacché, come ammonisce il patriarca alessandrino:«Desiderare la pace è certamente il più grande e il primo dei beni, ma non si deve per siffatto motivo permettere che ne vada di mezzo la virtù della pietà in Cristo». Perciò non conduce al desideratissimo ritorno dei figli erranti alla sincera e giusta unità in Cristo, quella teoria, che ponga a fondamento del concorde consenso dei fedeli solo quei capi di dottrina, sui quali o tutte o almeno la maggior parte delle comunità, che si gloriano del nome cristiano, si trovino d’accordo, ma bensì l’altra che, senza eccettuarne né sminuirne alcuna, integralmente accoglie qualsiasi verità da Dio rivelata”. Dunque, Pio XII esalta la forza del vescovo Cirillo nella difesa della cristianità. “Per questa strenua fortezza nel conservare e proteggere l’unità della fede, s. Cirillo Alessandrino sia a tutti d’esempio. Appena scoprì l’errore di Nestorio, per mezzo di lettere e di altri scritti lo confutò, ricorse al romano pontefice, e nel concilio di Efeso, come suo rappresentante, con ammirevole apparato di dottrina e intrepido cuore represse e condannò l’eresia che si era insinuata, in modo che tutti i padri conciliari, letta nell’adunanza la lettera di Cirillo che suol chiamarsi dogmatica, con solenne deliberazione la dichiararono pienamente consona alla rettitudine della fede. Oltre a ciò, per questa sua apostolica fortezza, fu iniquamente cacciato dall’ufficio episcopale, e sostenne con invitta serenità le ingiurie dei confratelli, il biasimo di un illegittimo conciliabolo, prigionie e angosce non poche. Né questo bastandogli, non esitò, per il coscienzioso adempimento del proprio santissimo ufficio, di opporsi apertamente, non solo ai vescovi che si erano allontanati dalla retta via della verità e della concordia, ma alla stessa augusta persona dell’imperatore. E inoltre, come tutti sanno, ad alimento e sostegno della fede cristiana, compose quasi innumerabili libri, dai quali splendidamente si riverberano la sua luce di sapienza, l’imperterrita sua costanza e la solerzia della sua pastorale sollecitudine”. Allora, dove sono le prove sul presunto coinvolgimento diretto o indiretto del vescovo Cirillo d’Alessandria nel massacro di Ipazia? Può un vescovo omicida fregiarsi di questi titoli e meriti per così tanti secoli? Può la Chiesa aver taciuto, glissato e ignorato la verità su s. Cirillo e su Ipazia? “Alla fede – scrive Pio XII – è necessario che si unisca in bell’intreccio la carità. Per essa veniamo tutti congiunti gli uni agli altri e con Cristo. Essa, ispirata e mossa dallo Spirito Santo, stringe tra loro con infrangibile vincolo le membra del corpo mistico del Redentore. Pertanto questa carità non deve rifiutare di aprire le braccia in fraterno amplesso anche agli erranti che hanno sbagliato la retta strada: cosa della quale è dato scorgere insigne esempio nel modo di procedere, tenuto da s. Cirillo. Egli infatti, per quanto avesse con tutta la forza combattuta l’eresia di Nestorio, tuttavia, animato com’era di accesa carità, afferma di non permettere a nessuno di professarsi più amante di Nestorio, di lui stesso. Né ciò è senza un perché. I traviati, e gli erranti sono da ritenersi come fratelli malati, debbono essere trattati con dolcezza e delicata premura. Sul qual proposito giova rievocare questi prudentissimi consigli del santo patriarca di Alessandria. «La cosa – egli avverte – ha bisogno di grande moderazione».«Perché la durezza del disputare spinge spesso non pochi a impudenza, ed è meglio con dolcezza sopportare le altrui resistenze, piuttosto che a punta di diritto creare loro molestia. Come, qualora si sia ammalata qualche parte del loro corpo, bisogna esaminarla con la mano, alla stessa maniera è necessario soccorrere l’anima caduta inferma, servendosi della debita prudenza a guisa di medicina. Così, essi pure giungeranno passo per passo a un regolare comportamento di spirito». Altrove poi soggiunge:«Abbiamo imitato l’arte dei bravi medici: non subito col fuoco e col ferro spietatamente curano i morbi e le piaghe appena apparse sui corpi umani; ma spalmata dapprima la piaga con leggero fomento, rimettono l’ustione e il taglio al momento opportuno». Era insomma, riguardo agli erranti, animato da compassionevole benignità, tanto da dichiarare esplicitamente «di essere desiderosissimo di pace, e insieme totalmente alieno da rissosi litigi; tale in una parola da accogliere in cuore questa duplice brama: amare tutti ed essere a sua volta da tutti riamato»”. Dunque, il vescovo Cirillo non era un violento. “Questa incline disposizione alla concordia rifulge nel santo dottore principalmente quando, dopo la mitigazione dell’anteriore severità, attese con volenterosa diligenza a indurre alla pace i vescovi della provincia antiochena. Parlando del loro legato, scrive tra le altre cose:«Forse sospettava di dover andare incontro a lotte non piccole per convincerci della necessità di congiungere le chiese in una pace concorde, per eliminare il dileggio degli eterodossi e reprimere la coalizione della diabolica protervia. Ma ebbe a trovarci talmente disposti a tale parere, da non doverne affatto risentire travaglio alcuno. Ricordiamo benissimo il detto del nostro Salvatore:”Vi do la mia pace, vi lascio la mia pace”. Siccome nondimeno alla stipulazione di questa pace erano d’ostacolo i dodici capitoli, da san Cirillo composti nel sinodo di Alessandria – i quali capitoli, perché parlavano di «unione fisica» in Cristo, venivano respinti dagli antiocheni come eterodossi – il benignissimo patriarca, pur non riprovando né sconfessando questi scritti, perché in realtà proponevano la dottrina ortodossa, tuttavia in parecchie lettere spiegò meglio la sua intenzione, in modo da rimuovere qualsiasi anche minima parvenza d’errore, e da appianare più facilmente la via alla concordia. Ciò pertanto egli rese noto ai vescovi, «non già come a oppositori, ma come a fratelli». Giacché a suo giudizio, «per la pace delle chiese e affinché queste a causa delle opinioni dissenzienti non restino separate le une dalle altre, sono tutt’altro che inutili le accondiscendenze». E così felicemente avvenne che la carità di s. Cirillo raccogliesse in abbondanza i desideratissimi frutti della pace. E quando finalmente ne poté scorgere i primi albori e pregustò la gioia del fraterno abbraccio ai vescovi della provincia d’Antiochia risolutisi a condannare l’eresia nestoriana, nella ridondanza della celeste soddisfazione, esclamò:«”Si allietino i cieli ed esulti la terra!” È distrutta la parete interna di separazione; ciò che arrecava mestizia si è quietato; ogni occasione di dissidio è tolta di mezzo, dal momento che Cristo, Salvatore di noi tutti, ha concesso alle sue chiese la pace»”. Pio XII esalta, poi, il Pontificio Istituto di alti studi orientali, quale luogo di conoscenza e unità della fede nella Verità. “Purtroppo, come in quel lontanissimo tempo, così anche al presente, venerabili fratelli, per promuovere quell’auspicabile conciliazione dei figli dissidenti nell’unica chiesa di Cristo, conciliazione alla quale tutti i buoni anelano, senza dubbio una sincera ed efficace benevolenza d’animo apporterà, col favore della divina grazia, il più valido contributo. Questo benevolo affetto infatti riscalda la mutua conoscenza. Per promuoverla e completarla i Nostri predecessori con svariati mezzi vi si adoperarono, nominatamente con la fondazione in quest’alma città del Pontificio Istituto di alti studi orientali. Così pure bisogna tenere nel debito conto tutto ciò che costituisce per gli orientali quasi un geloso patrimonio lasciato dai loro maggiori, e insieme ciò che si riferisce alla sacra liturgia e agli ordini gerarchici, nonché agli altri capisaldi della vita cristiana, a patto ben inteso, che tutto concordi pienamente con la genuina fede religiosa e con le rette norme dei costumi. È necessario infatti che tutti e singoli i popoli di rito orientale in tutto quello che dipende dalla storia, dal genio e dall’indole di ciascuno in particolare, abbiano una legittima libertà che pur tuttavia non contrasti con la vera e integra dottrina di Gesù Cristo. E questo lo sappiano e vi riflettano a fondo, sia coloro che sono nati nel grembo della chiesa cattolica, sia gli altri che con le ali del desiderio veleggiano alla sua volta. Anzi si persuadano tutti e tengano per certo che non saranno mai costretti a mutare i loro legittimi riti e le loro antiche istituzioni con le istituzioni e i riti latini. Gli uni e gli altri debbono essere tenuti in uguale stima e uguale lustro, perché incoronano di regale varietà la chiesa madre comune. Né solo questo; ma siffatta diversità di riti e di istituzioni, mentre conserva intatto e inviolabile ciò che per ciascuna confessione è antico e prezioso, non si oppone affatto alla vera e sostanziale unità. Più che mai ai nostri giorni, dopoché la discordia e le competizioni della guerra quasi dappertutto hanno alienato gli uni dagli altri gli animi umani, occorre che tutti, mossi dalla cristiana carità, siano sempre più spinti a ripristinare con ogni mezzo l’unione in Cristo e per Cristo”. Nella terza parte della Lettera Enciclica dedicata al vescovo alessandrino, Pio XII esalta la condotta di S. Cirillo nei confronti dell’allora romano pontefice Celestino I. “L’effetto peraltro della fede e della carità si rivelerebbe addirittura manchevole e inefficace allo scopo di rassodare l’unità nel Signore nostro Gesù Cristo, se non si appoggiasse a quella inconcussa pietra sopra la quale è stata da Dio fondata la chiesa: vale a dire nella suprema autorità di Pietro e dei suoi successori. La regola di condotta tenuta in questa gravissima controversia dal patriarca alessandrino luminosamente lo prova. Tanto nella sconfitta dell’eresia nestoriana quanto nell’accordo coi vescovi della provincia antiochena, egli si attenne alla più stretta e costante unione con questa apostolica sede. Quando infatti il vigilante presule si accorse che gli errori di Nestorio, con rischio della retta fede di giorno in giorno più pericolosi, s’insinuavano e progredivano per ogni parte, si rivolse al predecessore Nostro s. Celestino I, con una lettera, nella quale tra l’altro si legge:«Poiché Dio, in siffatte questioni, esige da noi vigilanza, e una vetusta consuetudine delle chiese ci persuade a comunicare simili questioni con la santità tua, ti scrivo, indottovi dalla stringente necessità». Alle quali parole risponde il romano pontefice che intende abbracciarlo «come se fosse presente nella sua lettera … molto più che gli sembra di riscontrare in lui i suoi identici sentimenti nel Signore». Perciò il sommo pontefice a questo così ortodosso dottore delegò l’autorità dell’apostolica sede, in forza della quale autorità doveva curare l’esecuzione dei decreti già emessi nel sinodo romano contro Nestorio”. Pio XII ricorda che “il santo patriarca d’Alessandria nella celebrazione del concilio di Efeso tenne legalmente le veci del romano pontefice, il quale inoltre vi inviò i suoi propri legati, e loro raccomandò soprattutto che avvalorassero l’opera e l’autorità di s. Cirillo. Egli pertanto in nome del vescovo di Roma presiede a quel sacro concilio e primo fra tutti ne firmò gli atti. Tanto palesemente splendeva agli occhi d’ognuno la concordia fra la sede apostolica e la sede alessandrina, che nella seconda sessione del concilio, quando pubblicamente fu letta la lettera di s. Celestino, i padri uscirono nelle seguenti acclamazioni:«Giusto giudizio questo. Al novello Paolo Celestino, al novello Paolo Cirillo, a Celestino custode della fede, a Celestino concorde col concilio, a Celestino l’intero concilio rende grazie. Uno Celestino, uno Cirillo, una la fede dell’orbe terracqueo». Nessuna meraviglia quindi se poco dopo lo stesso Cirillo poté scrivere:«Alla rettitudine della sua fede rese testimonianza sia la chiesa di Roma, sia il santo concilio, adunato, per così dire, dall’universalità dell’orbe che si stende sotto il cielo». Oltre a ciò, questa medesima unione costantissima di s. Cirillo con la sede apostolica risulta evidente, se poniamo mente al suo modo di procedere nelle trattative per l’inizio e il rafforzamento della pace coi vescovi della provincia antiochena. Il Nostro predecessore s. Celestino sebbene approvasse e confermasse tutto quello che il presule alessandrino aveva fatto nel concilio di Efeso, giudicò nondimeno di doverne eccettuare la sentenza di scomunica, che il presidente del concilio insieme con gli altri padri aveva pronunziata contro gli antiocheni. «Riguardo a quelli – così il romano pontefice – che sembrano consentire nella stessa empietà di Nestorio… per quanto si legga contro di essi la sentenza vostra, pur tuttavia noi pure stabiliamo quel che ci sembra opportuno. In siffatte cause molte circostanze bisogna considerare, ché la sede apostolica sempre suole tenere presenti…. Se dà speranza di correzione, vogliamo che la vostra fraternità s’intenda per lettera con l’Antiocheno… Giova aspettarsi dalla divina misericordia che tutti tornino sulla via del vero». E s. Cirillo, obbedendo a questa norma, suggeritagli dalla sede romana, cominciò a trattare coi vescovi della provincia antiochena del ristabilimento della pace e del modo di venire a un accordo. Frattanto s. Celestino passò piamente da questa vita. Allora avvenne che del suo successore Sisto III alcuni prendessero a riferire non essergli piaciuto che Nestorio fosse stato deposto. A queste voci il patriarca d’Alessandria tagliò corto con la seguente dichiarazione:«Ha scritto (Sisto) in piena armonia col santo concilio, ha confermato tutte le sue decisioni e sta dalla parte nostra»”. Da tutto quello che Pio XII poté riportare nella Lettera Enciclica “risulta a evidenza che s. Cirillo appieno consentì con questa apostolica sede, e risulta del pari che i Nostri antecessori ritennero per propri gli atti di lui e li onorarono di meritate lodi. Prova ne sia che s. Celestino, non contento di avergli attestato innumerevoli volte la fiducia e la gratitudine sua, gli scriveva tra l’altro così:«Ci congratuliamo della vigilanza che nella santità tua è tanta, da sorpassare ormai gli esempi dei tuoi predecessori, i quali essi pure difesero sempre strenuamente i dogmi dell’ortodossia…Hai scoperto tutte le fallacie della più scaltra predicazione… Ridonda a non piccolo trionfo della nostra fede non solo l’esserti affermato con tanta fortezza sui nostri capisaldi, ma l’avere controbattuto gli avversari così come hai fatto con l’appoggio della sacra Scrittura». Allorché poi s. Sisto III, successore di Celestino nel supremo pontificato, ebbe ricevuto dal patriarca d’Alessandria l’annunzio della pace e dell’unità raggiunta, gli espresse la sua letizia nei termini seguenti:«Ecco che mentre stavamo in ansia, perché vogliamo che nessuno perisca, la santità tua con la sua lettera ci significa reintegrato il corpo della chiesa. Ritornate le sue compagini nelle proprie membra, nessuno più vediamo andare errando al di fuori, perché un’unica fede attesta che tutti stanno al loro posto di dentro. …Al beato apostolo Pietro ha fatto capo la fratellanza universale: ecco qui un ascoltatorio che si confà agli ascoltatori, che conviene alle cose da ascoltare. …A noi sono tornati i fratelli, a noi, dico, che perseguendo per comune desiderio il morbo, abbiamo curato la guarigione delle anime. …Esulta, fratello carissimo, e quale vincitore rallegrati perché i fratelli si sono a noi ricongiunti. La chiesa ha accolto finalmente coloro che ricercava. Poiché se nessuno vogliamo che perisca dei piccoli, quanto più dobbiamo godere della guarigione dei reggitori». Dalle quali parole dell’antecessore consolato, il presule Alessandrino, vindice invitto della fede ortodossa e artefice premurosissimo della cristiana concordia, riposò nella pace di Cristo”. Il motivo della Lettera Enciclica di Pio XII interamente dedicata al vescovo alessandrino S. Cirillo, è presto detto. “Noi pertanto, venerabili fratelli, nel celebrare la memoria quindici volte centenaria di questo avvenimento, niente desideriamo e auguriamo più vivamente, se non che quanti si fregiano del nome cristiano, col patrocinio e l’esempio di s. Cirillo promuovano ogni giorno più il ritorno dei fratelli orientali dissidenti, a Noi e all’unica chiesa di Gesù Cristo. Unica sia per tutti l’intemeratezza della fede, unica la carità che tutti insieme ci saldi nel mistico corpo di Gesù Cristo, unica infine e premurosamente attiva la fedeltà alla sede del beato Pietro. A quest’opera degna e meritevolissima non solo impieghino tutte le loro forze coloro che vivono in oriente, i quali con la mutua stima, col benevolo tratto, con l’esempio dei costumi integerrimi, più facilmente potranno attrarre all’unità della chiesa i fratelli separati, e più degli altri i sacri ministri; ma tutti altresì i fedeli, implorando da Dio con le preghiere l’unità del regno del divin Redentore in ogni parte del mondo, e l’unità dell’universale ovile. A tutti costoro raccomandiamo anzitutto quel validissimo concorso e aiuto, che in qualsiasi iniziativa da intraprendere a salute delle anime, deve essere primo di tempo e precipuo d’efficacia: la preghiera, vogliamo dire, rivolta a Dio con cuore umile e fiducioso. Desideriamo poi che s’interponga il potentissimo patrocinio della vergine Genitrice di Dio, affinché per la mediazione di questa benignissima e amantissima Madre di tutti, il divino Spirito illumini con la sua superna luce l’animo degli orientali, sì che tutti siamo una cosa sola nell’unica chiesa, da Gesù Cristo fondata, e dallo stesso Spirito paraclito nutrita con incessante pioggia di grazie e sospinta verso la santità. A quelli poi che vivono nei seminari o in altri collegi, in modo speciale intendiamo raccomandare la «Giornata pro Oriente». In quel giorno s’innalzino più ardenti preghiere al divino Pastore della chiesa universale, e con crescente premura si stimolino i giovani al desiderio di vedere raggiunta questa santissima unità. Tutti infine coloro che, o insigniti degli ordini sacri, o ascritti all’Azione cattolica e alle altre associazioni, aiutano l’opera gerarchica del clero sia con la preghiera, sia con gli scritti, sia con la parola, promuovano quanto meglio possono la desideratissima unione degli orientali tutti quanti col pastore comune. Faccia Iddio che questo Nostro paterno invito sia ascoltato con buone disposizioni anche da quei vescovi dissidenti e dai loro greggi, i quali, per quanto separati da Noi, encomiano e venerano tuttavia come domestica loro gloria il Patriarca d’Alessandria. Sia per essi questo preclarissimo dottore maestro ed esempio a restaurare di nuovo la concordia con quel triplice vincolo, che egli, come cosa assolutamente necessaria, raccomandò tanto, e col quale il divino Fondatore della chiesa volle che i suoi figli si sentissero avvinti. Si ricordino inoltre che Noi oggi, per disposizione della divina Provvidenza, occupiamo quell’apostolica sede, alla quale il presule alessandrino, spintovi dalla responsabilità del proprio ufficio, si rivolse, sia per difendere contro gli errori di Nestorio con armi sicure la fede ortodossa, sia altresì perché l’ottenuto pacifico consenso dei confratelli prima dissidenti fosse poi ratificato quasi da sigillo divino. Sappiano anche che Noi siamo mossi dalla stessa carità dei Nostri predecessori e che a questo soprattutto con preghiere assidue tendiamo che, cioè, tolti felicemente di mezzo gli ostacoli inveterati, spunti alfine il sospirato giorno in cui l’intero gregge si trovi raccolto nell’unico ovile sotto la concorde e volenterosa dipendenza da Gesù Cristo nostro Signore e dal suo vicario in terra”. Infine, Pio XII “in particolare maniera” si rivolge “a quei figli dissidenti tra gli orientali che, mentre venerano moltissimo s. Cirillo, tuttavia non ammettono l’autorità del concilio Calcedonese, perché in esso fu solennemente definita la duplice natura nella persona di Gesù Cristo. Riflettano costoro che il Patriarca d’Alessandria non si oppone con la sua sentenza alle deliberazioni, le quali di poi al sorgere di nuovi errori furono dallo stesso concilio di Calcedonia stabilite. Infatti apertamente egli scrive:«Non tutto quello che gli eretici dicono, si deve subito scartare e ripudiare: molte cose professano di quelle che noi pure ammettiamo…Ciò vale anche riguardo a Nestorio; sebbene egli affermi le due nature a significare la differenza dell’umanità e della divinità nel Verbo: e invero altra è la natura del Verbo, altra quella dell’uomo: tuttavia non professa l’unione con noi». Similmente giova sperare che anche gli odierni seguaci di Nestorio se, senza lasciarsi prendere la mano da pregiudicate opinioni, sottopongono ad attento esame gli scritti di s. Cirillo, siano per vedersi aperta la strada alla verità, e per sentirsi richiamare con l’aiuto della grazia divina al grembo della chiesa cattolica. Niente altro ormai Ci resta, venerabili fratelli, se non implorare con le supplici Nostre preghiere, durante questo XV centenario di s. Cirillo, sulla chiesa tutta, ma specialmente su quelli che in oriente si gloriano del nome cristiano, il propizio patrocinio di questo santo dottore, domandando soprattutto che nei fratelli e nei figli dissidenti felicemente si compia ciò che egli un giorno congratulandosi scrisse:«Ecco che le membra avulse del coro della chiesa di nuovo si sono tra loro riunite, e nulla ormai più rimane che per discordia divida i ministri dell’evangelo di Cristo». Sostenuti da questa soavissima speranza, sia voi tutti e singolarmente, venerabili fratelli, sia al gregge a ciascuno di voi affidato, in auspicio dei celesti favori, e in attestato della paterna Nostra benevolenza, impartiamo con ogni affetto nel Signore l’apostolica benedizione”. Dove sono le “altre” prove contro il vescovo Cirillo?
Come sostiene Alejandro Amenabar “ciò che sorprende a prima vista in Agorà è la ricostruzione storica dell’antica Alessandria e come le intere vicende (suddivise in due differenti momenti temporali) siano tutte predominate da inquadrature all’interno della sua agorà (la piazza principale della città greca “polis”) che la fanno diventare la protagonista indiscussa degli avvenimenti con al centro la filosofa Ipazia, ultima erede dell’antica cultura greca”. Se c’è molta astronomia nel film, bisogna anche ravvisare alcune incongruenze scientifiche relative alle coniche di Apollonio evidentemente incompatibili con la “teoria” eliocentrica di Ipazia. Insomma il salto dagli epicicli alle orbite ellittiche ante litteram appare un’operazione quanto meno forzata, non favolistica, orfani come siamo delle opere originali della grande filosofa. Nel film si snodano, infatti, due differenti vicende: una più scientifica che riguarda le scoperte di Ipazia in merito al sistema eliocentrico che porta la Terra a ruotare intorno al Sole; e una seconda di matrice più religiosa che mostra i sanguinosi e violenti scontri che i cristiani intraprendono prima contro i pagani e poi contro gli ebrei”. Magistrali le sequenze in cui Amenabar mostra questi scontri dall’alto portandoci a osservare gli uomini accecati dall’odio. I fanatici, facendosi forza del gruppo, diventano quasi come formiche in preda alla frenesia della distruzione della Biblioteca di Alessandria. È un film per tutti che imprime realismo alle vicende storiche. Siamo lontani anni-luce dalle varie critiche mosse alla Chiesa da pellicole fantascientifiche e meta-teologiche come “Il Codice Da Vinci”(Parigi) e “Angeli & Demoni”(Roma) di Ron Howard o in maniera fin troppo filo-islamica come ne “Le Crociate” di Ridley Scott. In Agorà si narra una storia poco nota agli stessi cristiani, dove un certo cristianesimo degli albori inizia a fare le sue prime vittime eccellenti, conquistando le menti e gli stomaci dei più deboli oppressi come lo schiavo Davus, per sconfiggere l’Impero romano, cioè altri cristiani. Sulla Parola di Dio, l’autorità ecclesiastica fonda il suo “zelo”, il suo nuovo “potere”. Non è una novità se i vescovi, i principi della Chiesa e i soli ministri autorizzati alla predicazione, facciano inginocchiare le potenti autorità romane. Certamente Cirillo temeva più il prefetto augustale Oreste che la filosofa Ipazia. La nostra civiltà occidentale si è preservata nei secoli grazie all’Ordine ed al Diritto di Roma. Non certamente grazie alle violenze dei parabolani. La Chiesa e l’Impero cosa dovevano fare di fronte a masse inferocite pronte a tutto? Emblematica è la figura dello schiavo Davus che invece di cercare la libertà nella chiara espressione (come invece fa Oreste) dei suoi sentimenti nei confronti di Ipazia, decide di cambiare padrone, diventando schiavo dei parabolani e della loro cieca violenza. Davus diviene la perfetta metafora dell’uomo moderno che preferisce scegliere la via più comoda per assecondare i propri desideri di potere. Memorabile è la scena notturna nella quale lo schiavo prega Dio per far sì che Ipazia non si conceda a nessun altro uomo. La figura dell’Ipazia storica ci è ignota. I laicisti ne hanno creata una tutta loro, cotta a puntino, anti-cristiana, anti-cattolica, anti-clericale al punto giusto per le giovani generazioni digiune di Storia della Chiesa. Ma questa non è la vera Ipazia. Bene ha fatto, invece, il regista che, umilmente, è riuscito a mettere del suo nella ricostruzione del personaggio ottimamente interpretato dalla Weisz, facendo di Ipazia un esempio di “roccaforte” in difesa della ragione, della filosofia, della matematica (la scienza moderna nascerà con gli esperimenti riproducibili di Galileo Galilei solo 1.200 anni più tardi). Eroina della pace e della tolleranza, Ipazia rifiuta la lotta e la rivoluzione cruenta affidate alla falsa fede religiosa di chi pensa che si possa subito far convertire tutti, a suon di pugnalate, tradimenti, ottusa irrazionalità e fanatismo ideologico. Le categorie moderne non si adattano a quelle antiche. Ipazia non poteva sopravvivere a una società maschilista, misogina e “talebana” che relega la donna al mutismo e all’impossibilità di esprimere qualsiasi opinione sulle cose che contano, magari predicando la menzogna di un’apparente libertà conquistata. Come fanno oggi certe neo-converse italiane in bella mostra televisiva. Agorà non è solo un film in costume (peplum) commerciale. Racchiude al suo interno profondi significati storici, culturali e sociali. Ma è anche un monito alle dinamiche del “potere per il potere” nelle democrazie occidentali oggi sempre più deboli nello scacchiere mondiale, perché convinte di poter delegare altre “agorà” mediatiche apparentemente libere, mentre avanza inesorabile la crisi della rappresentanza politica che determinerà la loro decadenza. Grazie alle sue capacità, Ipazia riesce a guadagnare l’ammirazione e il rispetto della gente per la posizione raggiunta, inconsueta all’epoca, nella gerarchia sociale. Nonostante le sue opere scientifiche siano andate perdute, è ricordata come una donna forte che ha dedicato la vita alla ricerca della Verità, alla passione per la scienza che è un dono di Dio. Da donna di cultura conquistò una posizione pari a quella degli uomini in un mondo di soli uomini ed ebbe la totale dedizione dei suoi discepoli che vedevano in lei un ideale di saggezza e di sapienza. Bisogna ancora indagare e far luce sulla reale natura dei rapporti tra Ipazia, il vescovo Cirillo, il vescovo Sinesio e la setta dei parabolani. Chi la condannò a morte? Occorre diffidare delle facili interpretazioni. La vera storia di Ipazia dev’essere ancora scritta. Il film è arrivato in Italia grazie alla mobilitazione del popolo della nuova agorà di Internet: la petizione ha avuto un ruolo determinante per la distribuzione della pellicola nel nostro Paese, dopo il grande consenso ottenuto in Spagna (vincitore di 7 premi Goya), alle presentazioni al Festival di Cannes 2009 e al Toronto Film Festival. La Chiesa riflette sulla sua Storia non sempre limpida. Ma Agorà non è certo un film contro la Chiesa. Semmai è una denuncia contro i fanatismi che inquinano il “campo” di Dio. Agorà squarcia finalmente il velo della storia sulla gramigna che abita il cuore dell’Uomo (www.agorathemovie.com/). Adriano Petta e Antonino Colavito, hanno scritto un romanzo storico da leggere con spirito critico,“Ipazia. Vita e sogni di una scienziata del IV secolo”(La Lepre, 2009, pp. 338; poderosa è la bibliografia), per celebrare una martire della libertà di pensiero, la cui uccisione fu definita dallo storico inglese Edward Gibbon “una macchia indelebile”. Fu un crimine contro l’umanità. Con questo delitto la cultura occidentale escluse definitivamente le donne dalla sfera del sapere-potere. La vita di Ipazia è una delle più antiche parabole su un conflitto secolare ancora attuale. Come rivelano gli Autori, l’importanza di questo personaggio è ancora sottovalutata: per secoli la scienza sperimentale moderna ha creduto di avere un solo padre, il cattolico Galileo Galilei, quando in realtà possiede anche una madre, nata 1200 anni prima di Galilei. Il ritratto che ci è stato tramandato è quello di una donna di intelligenza e bellezza straordinarie. Fu l’inventrice dell’astrolabio, del planisfero e dell’idroscopio, oltre che la principale esponente alessandrina della scuola neoplatonica. Aggredita per strada, fu scarnificata con conchiglie affilate, accecata, smembrata e bruciata. Sul personaggio di Ipazia hanno scritto: Voltaire, Diderot, Proust, Pèguy, Leopardi, Pascal, Calvino, Luzi e molti altri ancora. Su Internet esiste un Gruppo che chiede di dichiarare Festa nazionale il giorno della morte di Ipazia! All’inizio del terzo millennio cristiano l’Unesco, su richiesta di 190 Stati membri, ha creato un Progetto internazionale per favorire piani scientifici nati dalla collaborazione delle donne di tutte le nazionalità, perché attualmente nell’ambito della scienza solo il 5% delle donne ricopre cariche di responsabilità. L’Unesco ha chiamato questo progetto: IPAZIA. Agorà, quindi, non è una pura e semplice biografia. È piuttosto un poderoso affresco cinematografico di un’epoca e di una mentalità di cui poco si parla, s’insegna e si studia nei licei. Un ritratto intenso e profondo delle nostre origini che molti di noi preferivano non ricordare o, peggio, ignorare. Il peplum è sbarcato in Italia spinto dal venticello della polemica anti-Vaticano e, più genericamente, anticristiana. Un boomerang per i laicisti. Il momento storico, con i cicloni pedofilia-sodomia che imperversano non soltanto nella chiesa “ferita” ma anche nei centri del potere mondiale, pareva favorevole ai seguaci dell’illuminismo e del razionalismo debole, ammannito dai seguaci di un certo intellettualismo pubblicitario italiota. Ma la verità è venuta subito alla luce grazie allo stesso Amenàbar che, lo ripetiamo, ha messo subito in chiaro come la Santa Sede non abbia esercitato alcuna pressione per non far uscire la pellicola nella nostra “cattolica” Italia che diserta la messa della Domenica e che non insegna la preghiera del Santo Rosario neppure ai cresimandi. Il regista è arrivato a girare la “pelicula” per accidente, per caso e non per volontà di puntare il dito contro la Chiesa. Una cosa è certa e vera: in questo peplum è giusto che i falsi cristiani della storia che predicano male e razzolano peggio, facciano la loro pessima figura! Mentre Ipazia alimenta la sua sete di sapere sullo sfondo di lotte religiose tra pagani, ebrei e cristiani, i parabolani (guardie della rivoluzione) bruciano libri e biblioteche, torturano, violentano, lapidano e squartano chiunque non si converta al cristianesimo dopo aver fatto mangiare la pagnotta offerta in dono agli affamati. Il contrasto duole come un pugno allo stomaco, sapientemente edificato su una fotografia che esalta l’oscurità dei falsi profeti e la luminosità di Ipazia. Dovremmo forse negare questi frammenti di verità? Allora non siamo veri cristiani, cioè non siamo di Cristo. Dipinta la giovane erudita con quel poco che conosciamo della sua vera vita (pochissime sono le fonti disponibili) emerge dalla lontananza di sedici secoli una grande Storia che è destinata a suscitare una sana riflessione rigeneratrice anche negli ambienti più conservatori. Lo stesso accadrà con l’Inquisizione, dopo i tiepidi tentativi cinematografici di questi ultimi 25 anni che hanno solo gettato fango sulla verità. Anche perché questi particolari periodi della cristianità non sono mai stati veramente raccontati, studiati e insegnati. Le reazioni del pubblico per Agorà sono state positive. Saggiamente spesi i 50 milioni di euro per mettere in piedi a Malta, un’Alessandria zeppa di cartoni colorati new-age, di enormi candele quadrate e di tuniche ricamate. L’uso del digitale dall’alto fa pensare a Google Earth ma il fine giustifica i mezzi. Ipazia, antesignana della scienza sperimentale, è una creatura della quale si sa troppo poco, nonostante la sua amicizia con Sinesio, vescovo di Tolemaide e malgrado fosse figlia del matematico Teone. Quanto basta per romanzarne la vicenda. Agorà parla di una criminalizzazione senz’appello di Ipazia da parte dei paraboloni vicini a Cirillo, vescovo di Alessandria e presunto mandante del suo assassinio. Sarà vero? Perché l’autorità romana non è riuscita a salvare Ipazia? Le guardie della rivoluzione cristiana sono troppo simili ai nazisti degli Anni Trenta del XX Secolo che prima ammazzavano gli Ebrei e poi andavano a messa la Domenica. Nei titoli di coda, chi è digiuno di Liturgia delle Ore, si stupisce del fatto che Cirillo sia Padre della Chiesa (d’Oriente e d’Occidente) e Santo venerato il 27 Giugno per l’unità dei cristiani. Viene da chiedersi perché Alejandro Amenàbar si sia preoccupato delle intolleranze di 1.600 anni fa, quando oggi milioni di cristiani vengono perseguitati, ammazzati, crocifissi, bruciati, stuprati insieme ai propri figli. Eppure la Terra del XXI Secolo non è molto diversa da quella dei tempi di Ipazia. Anche se i telegiornali dell’Occidente glissano colpevolmente. Cercate la risposta in fretta (magari grazie al vostro iPad, iPod Touch, iPhone, iMac, MacBook della Apple) perché oggi ci sono ideologie politico-religiose che non scherzano affatto. Peggiori di quelle professate dai parabolani alessandrini. Guardiani della rivoluzione pronti a tutto. Anche ad ammazzare i registi “rei” di aver osato girare film in grado di urtare la loro suscettibilità. Per questo non abbiamo paura di essere cristiani. Cioè di un Cristo crocifisso e risorto per la Verità. Crocifisso nei suoi Santi anche non-cristiani uccisi nell’atto di difendere la Verità e la dignità di ogni Persona. Siccome in molti si erano adoperati per addebitare alla Chiesa il presunto boicottaggio di Agorà in Italia, poiché è toccato alla stessa casa di distribuzione chiarire la questione una volta per tutte:“Non abbiamo ricevuto nessuna pressione”, ci chiediamo di che pasta siano fatti certi intellettuali e giornalisti nostrani. Anche nel film Agorà siamo in piena transizione dall’antichità al Medioevo. Tutti erano sacrificabili sull’altare della sicurezza pubblica (pagani, ebrei e cristiani). In tutto l’Impero Romano d’Oriente (quello d’Occidente, prossimo alla capitolazione del 476 d.C., era stato assorbito dai Barbari) si assecondavano appetiti prosaici e spietate guerre di potere. Alessandria d’Egitto, lacerata al suo interno tra l’èlite pagana illuminata (Ipazia ne fa parte quale co-direttrice della nuova leggendaria Biblioteca e persona influente presso il prefetto romano Oreste), la decadente lobby ebraica e una comunità cristiana in ascesa, costituisce un faro esemplare per capire i conflitti dell’epoca. Dopo l’Editto di Teodosio (392 d.C.) il culto pagano viene abolito a favore della cristianizzazione dell’Impero. I nuovi prefetti imperiali delle province romane devono battezzarsi. Il conflitto messo in scena da Agorà riguarda quello tra potere temporale e spirituale, incarnato dalla rivalità tra il prefetto Oreste (interpretato da Oscar Isaac) e il vescovo Cirillo (Sammy Samir). È all’interno di questa diatriba che si consuma il martirio di Ipazia. “Abbiamo voluto marcare questo scontro-incontro di poteri – spiega Amenàbar – in due scene emblematiche: la prima riguarda la mancata genuflessione di Oreste di fronte a Cirillo che brandisce le Sacre Scritture; la seconda invece è l’accordo politico tra Oreste e Sinesio, vescovo di Cirene, per disinnescare le ambizioni di Cirillo. In questo intrigo di alleanze e sospetti, l’unica innocente è Ipazia. Ha pagato il fatto di essere maestra di Oreste, donna illuminata in un periodo di radicale misoginia e figura tollerante in un’epoca segnata da opposti fanatismi”. A uccidere Ipazia – nel film prima soffocata da Davus, poi lapidata nella scena finale edulcorata rispetto alla realtà storica (Socrate Scolastico, l’autore ecclesiastico a cui si devono le informazioni sul terribile episodio, racconta come la donna venne fatta letteralmente a brandelli con conchiglie appuntite e i suoi resti bruciati: leggerete le sue stesse parole tra breve) – è la setta dei monaci parabolani istituiti dal vescovo Teofilo per vigilare sulla moralità pubblica. Di monacale, però, i parabolani avevano poco o nulla. Come scrive Eunapio di Sardi:“li chiamavano monaci ma non erano neppure uomini perché conducevano vita da porci e apertamente compivano e assecondavano crimini innumerevoli e innominabili”. Veri e propri talebani ante litteram del cristianesimo fondamentalista e di qualunque altra religione o setta nella storia. Nell’ipotesi un po’ forzata del regista, i parabolani assecondano la “predica” di Cirillo. In realtà le responsabilità del vescovo Cirillo, ricordato nella liturgia siriaca e maronita come “una torre di verità e interprete del Verbo di Dio fatto carne”(www.santiebeati.it/dettaglio/27950) non sono affatto chiare. Alcuni storici del cristianesimo come Mercati e Pelzer escludono che Cirillo abbia emesso la condanna a morte di Ipazia. Benché quasi certamente Cirillo non abbia avuto alcuna responsabilità in questo efferato crimine, la vicenda è indicativa dell’atmosfera d’intolleranza e violenza che regnava in Alessandria. Amenàbar si concede una discutibile licenza artistica che tale rimane nella libertà dell’espressione cinematografica:“Cirillo fece cose anche più tremende, ma non tutte hanno trovato spazio nel film”. Agorà rende omaggio alla scienza astronomica, all’epoca nota come Astrologia, regina di tutte le scienze (nulla a che vedere con l’attuale!). “Sono sempre stato un appassionato di Astronomia e mi sono imbattuto su Ipazia quasi per caso. Era l’unica donna in una tradizione da Tolomeo a Galilei che resta esclusivamente maschile. Aveva reso i suoi studi un’esperienza spirituale, come se osservare le stelle significasse mettersi in contatto con Dio”. Agora è la prima incursione del cinema in una vicenda storica e politico-religiosa così scottante e poco conosciuta che solo grazie alle libertà delle nostre democrazie, è possibile indagare. Non in altri regimi che evidentemente non consentono la proiezione della pellicola: altro che Primavera dei Gelsomini! “Ho rivisto i film del passato prima di iniziare le riprese. Una ricognizione preziosa ha orientato il nostro lavoro sulle scenografie: quando non c’era il digitale l’ambientazione era realistica se le location erano credibili. Con la troupe abbiamo deciso di muoverci allo stesso modo ricostruendo il meno possibile e lavorando sul digitale solo in seconda battuta per qualche leggero ritocco”. La verosimiglianza ottenuta è stupefacente. Non è facile dibattere del IV-V secolo al cinema. Il XXI Secolo sembra ancora lontanissimo ma immediatamente capiamo, fin dalle prime scene, che quell’epoca remota in cui visse e insegnò Ipazia, assomiglia al tempo in cui viviamo. Quella Biblioteca è così simile alle nostre aule scolastiche e universitarie (un po’ meno agli atenei non liberi!) quando il pensiero, la ricerca e l’innovazione funzionano! Un’epoca di transizione anche la nostra, incerta ed a tratti confusa dopo l’11 settembre 2001 e l’attacco agli Stati Uniti d’America. Una civiltà quella occidentale esposta al rischio della violenza e dell’autodistruzione, alla tentazione dello scontro frontale irreversibile tra politica e religioni. Impossibile da iscrivere in un cerchio, come la figura geometrica che, nella finzione cinematografica, risulta l’emblema ossessivo di Ipazia, la grande pensatrice neoplatonica. Agorà e il suo messaggio fortemente “cristiano”, devono e possono suscitare un dibattito acceso e sincero ovunque. Nella cultura e nel cinema italiani, tra gli stessi registi cattolici. Il film si basa su un robusto lavoro di ricerca storica. La ricostruzione dell’Alessandria del IV secolo è precisissima ed ammirevole come riconosciuto dalla critica. L’impatto visivo risulta il pregio maggiore del film. Anche la sceneggiatura evita forzature. Basti considerare la cautela con cui il vescovo Cirillo viene presentato quale mandante morale e non quale diretto responsabile dell’uccisione di Ipazia. Ma la vera potenzialità didattica della pellicola è l’analogia più che la precisione. Dopo una prima parte tutto sommato equilibrata e coinvolgente nel descrivere il marasma di Alessandria dove credenze vecchie e nuove si intrecciano in una rete pressoché inestricabile di conflitti, con la scena-madre della distruzione della Biblioteca da parte dei cristiani il film cambia bruscamente di tono. Cirillo e i suoi seguaci, i monaci parabolani, si presentano a tratti come una sorta di Gestapo, una congrega oscurantista e misogina. Le atmosfere, infatti, si fanno sempre più cupe. La fede appare di volta in volta come una scelta opportunistica, come una fuga dalla realtà, mai come un tormento o un’estasi. La stessa Ipazia lo afferma con chiarezza quando, invitata dagli amici discepoli a battezzarsi, sostiene che non potrebbe mai smettere di revocare in dubbio ciò in cui crede. Il filosofo Socrate bevve la cicuta. Ipazia accettò il supplizio. Il suo illuminismo scientifico non volle scendere a patti con il cieco fideismo: è incredibile ma in Agorà sembrano letteralmente “bruciare” (insieme alle pergamene della Biblioteca alessandrina) quattro secoli di complessa elaborazione teologica che proprio nel IV secolo condusse a una continua riconsiderazione di una tradizione ancora recente. Ipazia poteva salvarsi, certamente e logicamente avrebbe potuto. Del resto è così che funziona l’analogia: prende quel che serve e respinge tutto il resto. Il risultato è che, al di là delle raffinatezze filologiche di cui Agora è costellato, l’impressione generale che lo spettatore ne ricava, è di una chiesa primitiva arrogante e spietata, lontana dai miracoli dei suoi Santi, che si fa scudo del nome di Dio per compiere stragi, perseguitare innocenti ed affermare il suo potere incontrastato su Alessandria. Troppo facile e scontata la “tesi”! In realtà l’intento di Amenábar è stato quello di mettere in guardia contro tutti i fondamentalismi. La cinematografia d’ora in poi guarderà in faccia a tutti, illuminando a giorno verità e bugie storiche. Con buona pace dei fondamentalisti. C’è un regista italiano capace di fare altrettanto, magari dedicando il prossimo film alle persecuzioni dei cristiani in paesi come il Pakistan e l’India? Agorà è un film per la fame di scoperte e di impegno delle donne contro ogni pregiudizio. Che condanna la furia delle armate religiose. Ipazia cercò di salvare dall’amatissima biblioteca di Alessandria il maggior numero di libri e pergamene possibili. Scrive Socrate Scolastico (380-440), teologo e storico, autore di una grande Storia ecclesiastica in sette volumi:“Contro di lei si armò la gelosia; quando infatti incominciò a incontrarsi spesso con Oreste [prefetto di Alessandria], si scatenò contro di lei, tra il popolo dei cristiani, una calunnia, secondo la quale sarebbe stata proprio lei a impedire una relazione cordiale tra Oreste e il vescovo. In seguito a questo, uomini eccitati, a capo dei quali si trovava un certo Pietro il lettore, ordirono un complotto contro di lei e sorpresero Ipazia mentre stava rientrando a casa sua: la gettarono fuori dalla sua lettiga, la trascinarono alla chiesa chiamata il Cesareum e qui le strapparono le vesti di dosso, sfregiarono la sua pelle e lacerarono le carni del suo corpo con delle conchiglie affilate finché non esalò l’ultimo respiro. Squartarono il suo corpo e lo ridussero in cenere. Questa circostanza non causò la minima riprovazione di Cirillo, e neanche di tutta la chiesa di Alessandria. Ed è certo che nulla è più lontano dallo spirito cristiano che permettere che avvengano tali massacri, violenze, ed azioni di quel genere”. Quali prove sussistono che il vescovo Cirillo di Alessandria abbia ordinato che tutte le opere di Ipazia venissero distrutte: i tredici volumi di commento all’Aritmetica di Diofanto, il Trattato su Euclide e Tolomeo, gli otto volumi delle Coniche di Apollonio, il Trattato sulle orbite dei pianeti, il Corpus astronomicum, i testi di meccanica e gli strumenti scientifici da Ipazia inventati? Di lei non rimane alcun scritto tranne il suo commento alla Syntaxis. La sua memoria fu cancellata, i suoi discepoli dispersi, la sua scuola distrutta. A parte Ierocle (di cui sono rimaste solo due modeste opere di filosofia neoplatonica) e il poeta Pallada che con i suoi versi cantò Ipazia, tutti i discepoli della scienziata scomparvero e di loro, del loro pensiero e delle loro opere nulla è rimasto. Secondo le fonti, alcuni riuscirono ad emigrare in India (tra cui Paulisa, autore dell’opera astronomica Paulisa siddhanta) trasmettendo a quelle popolazioni le loro conoscenze di trigonometria ed astronomia. Quale fu la colpa di Ipazia? Sempre secondo Socrate Scolastico:“Ipazia giunse a un tal grado di cultura che superò di gran lunga tutti i filosofi suoi contemporanei, ereditò la scuola platonica che era stata riportata in vita da Plotino, e spiegava tutte le discipline filosofiche a coloro che lo desideravano. Perciò coloro che desideravano pensare in modo filosofico correvano da lei da ogni parte”. Ipazia insegnava, divulgava e propagandava la filosofia neoplatonica, non era certo una strega eretica, non era una meretrice, era una donna seria e preziosa come un diamante rarissimo. A chi l’accusa nel film di essere atea e di non credere in alcun dio, Ipazia risponde:“Non è vero, anch’io ho un dio, è il libero pensiero filosofico”. Scrive Damascio (480–550) filosofo neoplatonico:“Ad Alessandria c’era una donna chiamata Ipazia, figlia del filosofo Teone, che ottenne tali successi nella letteratura e nella scienza da superare di gran lunga tutti i filosofi del suo tempo. Provenendo dalla scuola di Platone e di Plotino, lei spiegò i principi della filosofia ai suoi uditori, molti dei quali venivano da lontano per ascoltare le sue lezioni. Confidando sulla padronanza di sé e sulla facilità di modi che aveva acquisito in conseguenza della sua educazione, sovente appariva in pubblico e davanti ai magistrati. Né si sentì mai confusa nell’andare a una riunione di uomini. Tutti gli uomini, tenendo gran conto della sua dignità e della sua virtù, l’ammiravano moltissimo”. Il regista Amenábar è così riuscito a far rivivere l’universo perduto di Alessandria con un poderoso impianto visivo, grazie a dialoghi eccellenti, personaggi complessi ben costruiti, battaglie e scene di massa estremamente realistiche, senza ricorrere a effetti speciali. L’emozione arriva per via analogica. Amenábar non è Kubrick, non è James Cameron. Il suo grande valore di denuncia, con precisi riferimenti alla situazione attuale così difficile, per le guerre di religione che ancora devastano il nostro pianeta, trova in Agorà il suo Olimpo. Per questo, da cattolici, laici e credenti, pensiamo che Agorà sia un film da vedere, un film discutibile quanto si vuole, che la persona curiosa prenderà sicuramente come punto di riferimento per approfondire la conoscenza di Ipazia, una figura esemplare della cultura mondiale. Il gesto dei parabolani fu condannato anche dagli ambienti cristiani di Costantinopoli: una scena di un fatto storico che avremmo senz’altro apprezzato come la condanna unanime verso qualunque bigottismo settario. Dopo il massacro di Ipazia, il prefetto augustale Oreste inviò a Bisanzio un rapporto sui fatti accaduti, ma i curiali che partirono per Costantinopoli non erano i suoi, quelli che aveva scelto lui. La corte imperiale di Bisanzio inviò ad Alessandria il commissario Edesio. Inutilmente. Poi inviò al nuovo prefetto del Pretorio d’Oriente, Monaxius, due leggi (datate il 29 settembre e il 5 ottobre del 416) in cui si ordinava che il numero dei parabolani non dovesse superare le 500 unità e che non dovessero immischiarsi negli affari della vita pubblica. Le fonti ci dicono che il venerdì santo del 20 aprile 417 ci fu un forte terremoto ad Alessandria: l’opera dei parabolani fu preziosa nelle operazioni di soccorso alla popolazione. Nel 418 l’Augusta Pulcheria a Costantinopoli emanò una nuova legge che annullava le due precedenti tornando a concedere al vescovo di Alessandria la totale responsabilità dei parabolani, autorizzandolo altresì ad incrementarne il numero da 500 a 600 unità. La giovane scienziata Ipazia preferiva la passione astrale, non quella ideologica. L’eccentrica provocazione cinematografica del suo fazzoletto intriso di sangue mestruale, per far desistere gli allievi adoranti come Oreste dalla passione carnale, passerà alla storia del cinema. Ben più significativo è l’altro fazzoletto bianco che cade, nella scena iniziale, perché attratto dall’allora sconosciuta “forza di gravità”: fenomeno inspiegabile al pari della terra rotonda, da cui nessuno miracolosamente – si chiedono i discepoli di Ipazia – precipita nell’universo. Ipazia insegna che la Verità non è un dogma divino. Che nella multietnica Alessandria elleni, egizi, ebrei e cristiani possono convivere creativamente. Come oggi accade in qualsiasi Democrazia compiuta sulla Terra. Ma l’onda oscura dei parabolani di turno nella scena tragica di questo mondo, capeggiati da un feroce saltimbanco (Ammonio) che cammina sul fuoco nell’agorà di Alessandria per testimoniare la superiorità del suo Dio e in aperta sfida agli dei pagani, è la costante della storia dell’umanità. E Ipazia, come sempre, vinta la corte insistente dell’amico e allievo Oreste, diventato prefetto romano, resterà sola. Abbandonata da tutti. Sarebbe stata in grado ai suoi tempi e con le sue conoscenze, di determinare il movimento reale dei pianeti attorno al Sole, prima delle osservazioni e deduzioni di Copernico mille anni più tardi, per realizzare il modello eliocentrico? Non lo sapremo mai. Il mondo sarebbe certamente cambiato più in fretta. Forse, oggi grazie ad Ipazia, avremmo già raggiunto le stelle vicine come Alpha Centauri. Cioè saremmo avanti di 1600 anni anche nel volo spaziale. Ma non è questo il tema centrale di Agorà che tuttavia non tenta di convincerci del contrario. È sicuramente in errore chi pensa al tema discutibilissimo che “l’espansione del Cristianesimo fu un freno per lo sviluppo dell’Astronomia”. Quale risposta logica vi può essere nell’affermazione ideologica “che un Dio unico mal si accorda con il riconoscimento di nuovi modelli cosmici che non metterebbero l’uomo al centro dell’Universo”? Siamo tutti al centro dell’Universo. Il Big Bang è accaduto ovunque, ne abbiamo le prove, ben 13.7 miliardi di anni fa. Ipazia, chissà, forse lo avrebbe prima o poi scoperto. Niente affatto femminista, avrebbe sottoscritto altro ancora delle scoperte delle sue illustri colleghe. Ecco perché Agora è un inconsueto film storico, non una semplice rappresentazione simbolica. Che dire dei cristiani fanatici, di scarsa educazione che, guidati in modo perverso, sfidano persone oneste e rispettabili, ebrei capri espiatori, manipolando l’autorità romana? È terribile vedere cristiani ignoranti all’assalto della grande Biblioteca di Alessandria, bruciare i libri come i nazisti o i talebani, e sviluppare quello che stava per diventare un diffuso, istituzionale, velenoso antisemitismo che avrebbe condotto 1500 anni più tardi alle camere a gas europee. La lezione è chiara. Il mondo si salverà se saprà tutelarsi da ogni spaventoso attacco portato dal “potere” ad ogni Ipazia di questa Terra che, grazie all’amore per la verità e la tolleranza, saprà segnare la civiltà imprimendole una forte accelerazione. La scienza (sistematicamente confusa troppo spesso con la tecnica) oggi corre questo rischio: la caccia alle streghe non è finita! I parabolani di turno sono dietro l’angolo, hanno cambiato pelle, si sono mimetizzati, prima o poi torneranno e batteranno cassa. “Tutto ha avuto inizio quando per hobby ci siamo interessati alla Teoria della Relatività” – ricorda il regista. “Volevamo saperne di più su concetti come il tempo e lo spazio, così strettamente legati al cinema. Questa curiosità iniziale è diventata una finestra che, più tardi, si è aperta su molte altre cose. Abbiamo tentato di andare oltre quello che si sa di Ipazia. Si conosce molto della sua morte ma si sa poco del suo lavoro. Inserire una sottotrama astronomica attraverso il suo personaggio ci ha consentito di fare ipotesi sulla portata dei suoi studi e anche sulle vette che la civiltà antica avrebbe potuto raggiungere se il Medioevo e la caduta dell’Impero Romano d’Occidente non fossero avvenuti in questo modo violento, e se dunque il mondo non fosse rimasto paralizzato per 1.500 anni”. Ipazia incarna due condizioni molto interessanti: rappresenta chiaramente la mentalità greca, la ricerca della verità attraverso la riflessione, in un mondo in cui le religioni hanno un grande potere nelle vite delle persone. Ma era una donna in un mondo di uomini. Era una donna che voleva condurre la sua vita come avrebbe fatto un uomo, con la stessa libertà di svolgere ricerche e di dedicarsi alla filosofia, come aveva fatto suo padre. Da qui la decisione di non concedersi a nessun uomo, in modo da non essere privata della libertà di cui aveva bisogno. Ipazia nel film mostra una grande passione per la conoscenza, ma deve reagire con serenità neoplatonica per via della sua dedizione alla filosofia. Questa dote era necessaria per i filosofi e i saggi. Ipazia è così entrata nella Storia avvolta dalla leggenda, per via della sua vita personale. Ammirata per la sua intelligenza e rispettata per l’incredibile posizione che aveva ottenuto nella gerarchia sociale della città, viene rappresentata dalle fonti dell’epoca come una donna bellissima. La maggior parte delle fonti ci dicono che Ipazia è morta vergine. Sappiamo da alcune lettere dei suoi studenti che ispirava una devozione incredibile tra gli allievi, mantenendo sempre una grande dignità e nobiltà, senza mai oltrepassare i confini che esistono tra insegnante e allievo, in un’epoca in cui era decisamente inconsueto per una donna insegnare. Piccola curiosità. “Davus è un personaggio che abbiamo inventato – rivela Amenábar – ma è fondamentale per consentirci di mostrare come funzionava la città, l’ambiente di Ipazia, la società greco-romana e il mondo antico in generale, insomma come veniva percepita la schiavitù nel quarto secolo. Vediamo la cristianità originale attraverso i suoi occhi, come si è evoluta passando dall’essere una religione perseguitata a una dominante. Davus diventa un parabolano, membro cioè di una fazione religiosa molto rappresentativa del periodo, un gruppo di monaci che ha iniziato come ordine che aiutava i bisognosi ed ha finito per diventare l’appendice armata della Chiesa”. Ipazia ha vissuto una delle più intense storie d’amore di sempre, ma con il Cosmo. Si sentiva piccola di fronte all’immensità dell’Universo e il suo obiettivo era di svelarne il mistero. Eroina romantica nell’Europa del XVIII Secolo, se Ipazia avesse vinto i suoi oppositori, salvando i suoi scritti, oggi saremmo certamente migliori. L’Islam, presentato con bonaria pietà dai film hollywoodiani di questi ultimi anni, è pronto a raccogliere pacificamente la sfida culturale della Verità in nome della Civiltà sull’orbe terracqueo? Come ha scritto un famoso rabbino, “il timor di Dio senza gioia è solo depressione”. Il massacro di Ipazia nel marzo del 415 d.C. segnò la fine sulla Terra dell’ultima più importante comunità scientifica del mondo antico.

© Nicola Facciolini

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