Sarajevo, era il 5 aprile del 1992 quando i cecchini iniziarono a sparare su una folla di dimostranti che manifestava per la pace. Cominciava l’assedio della città, e una nuova guerra nel cuore dell’Europa. «Una guerra – ricordano le Acli a 20 anni di distanza – che avrebbe cambiato la cooperazione, il pacifismo e la società civile in Italia».
Racconta il presidente nazionale, Andrea Olivero: «Era appena finita la prima guerra del Golfo, che ci aveva portato la guerra in casa, attraverso la tv, ma sembrava un videogioco. Stavolta il conflitto era davvero alle nostre porte. Non bastava protestare e manifestare, bisognava fare qualcosa e la facemmo».
Le Acli si mobilitarono da subito, con le province, i propri circoli, i volontari. «Facevamo avanti e indietro. Portavamo pacchi e facevamo animazione nei campi profughi. Accoglievamo nelle case in Italia le prime famiglie bosniache. Era il pacifismo concreto, come lo chiamò Alex Langer, diverso dal pacifismo ideologico, “tifoso”, a volte dogmatico».
Nel primo periodo, con il conflitto in corso, l’impegno delle Acli si concentrò soprattutto sulla solidarietà – decine di gemellaggi per portare aiuti e vicinanza alle popolazioni – e sulla diplomazia popolare, insieme ad altre associazioni: la marcia non-violenta di interposizione verso Sarajevo, nel 1993. Una volta terminata la guerra, dal 1995 fino ad oggi, l’intervento è stato soprattutto di ricostruzione e animazione, rivolta a giovani e bambini, lavoro e formazione.
«La guerra in Bosnia e i 20 anni che sono seguiti hanno cambiato la vita e il modo di pensare di molti di noi». spiega Andrea Olivero «E’ cambiata l’idea di cooperazione. Perché dopo la cooperazione di guerra fatta di profughi e di azioni di diplomazia popolare, c’è stato il post-guerra fatto di accompagnamenti, di rientri e di ricostruzione. Ed è stato il momento in cui si sono fatti i conti con la necessità di affiancare delle professionalità alla presenza dei volontari»
«E’ cambiata l’idea di pacifismo. Il sogno di un mondo senza armi e senza eserciti (il pacifismo dogmatico) non reggeva più il confronto con la realtà sul campo. L’idea che i militari fossero il nemico si è frantumata. Sul campo con i militari ci si parlava. Se ne chiedeva l’aiuto. Si collaborava. Era il pacifismo concreto, pragmatico, che non rinunciava alla scelta nonviolenta, ma si rimboccava le maniche e si sporcava le mani».
«Certo – conclude Olivero – la parte utile della presenza militare non è stata quella dei bombardamenti, che ha prodotto e produce sempre vittime tra i civili. Gli interventi militari non sono serviti a Srebrenica, dove le forze Onu hanno lasciato compiere un massacro intollerabile, né sono serviti in Kosovo. Eppure quella armata è stata e resta tuttora troppo spesso la sola opzione presa in considerazione dai Governi e dalle Istituzioni. Ma questo è il fallimento della diplomazia, della politica e dell’Europa: questioni che a distanza di 20 anni, rimangono purtroppo ancora aperte».
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