Pubblichiamo la missiva, scritta dal Forum Cgil Politiche economiche, indirizzata al Parlamento Europeo, Commissione Europea, Consiglio d’Europa, Presidente della Banca Centrale Europea, Governo e Palramento della Repubblica Italiana, rappresentanti italiani presso le Istituzioni dell’Unione europea, rappresentanti delle forze politiche e sociali e per opportuna conoscenza al Presidente della Repubblica sulla crisi dell’Europa, per sconfiggere la recessione, cambiare strada finchè c’è ancora tempo.
“Nel quinto anno della crisi globale più grave da quella del 1929, una drammatica prospettiva di recessione incombe sull’Europa mettendone a rischio non solo l’euro ma anche il modello sociale e l’ideale della “piena e buona occupazione”, pur sancito in tutte le strategie europee, a partire dall’agenda di Lisbona. È proprio nel Vecchio Continente infatti che si stanno ostinatamente portando avanti politiche economiche fortemente depressive che minacciano un aumento della disoccupazione, specialmente giovanile e femminile. Non a caso il Fmi afferma che, anche a causa di ciò, il mondo corre il rischio di una nuova “grande depressione” stile anni ’30.
Eppure, si è scelta la linea dell’austerità, del rigore di bilancio – a cominciare dal Patto di stabilità e crescita, passando per il Patto euro plus, per arrivare all’attuale “Fiscal compact” – con l’idea di contrarre il perimetro statale continuando a sperare che i privati aumentino investimenti e consumi, sulla base della fiducia indotta dalle immissioni di liquidità nel circuito bancario, a sua volta “sollecitato” ad acquistare titoli di stato europei. Si è, dunque, deliberatamente optato per la non-correzione delle distorsioni strutturali di un modello di sviluppo economico basato sui consumi individuali, sull’ipertrofia della finanza, sul sovrautilizzo delle risorse naturali e sull’indebitamento, in contraddizione con il modello sociale europeo. Si è nuovamente scelta una politica monetarista e liberista. Si è pensato di contrarre i deficit pubblici – e con essi spesa e investimenti pubblici – per ridurre il ricorso all’indebitamento, nel tentativo di arginare gli attacchi speculativi sui debiti sovrani, sperando così di salvare l’euro e i precari equilibri economici tra gli stati membri. Ma non sta funzionando, perché non può funzionare.
Non basta scommettere sulle aspettative dei mercati finanziari, degli investitori privati, delle banche, dei consumatori. Non è sufficiente puntare sulla “credibilità” dei governi. In Europa, ne sono cambiati ben cinque in 18 mesi (Irlanda, Portogallo, Spagna, Grecia e Italia), addirittura con due governi tecnici sostenuti da larghe maggioranze. La crisi dei governi nazionali è solo una delle tre crisi che si sovrappongono: restano da affrontare la crisi delle economie nazionali e la “crisi dell’economia sovranazionale. Solo così, peraltro, si possono risolvere le debolezze strutturali delle democrazie nazionali piegate dagli interessi economico-finanziari costituiti. L’attuale quadro europeo rappresenta il frutto di una serie impressionante di errori: il mancato salvataggio iniziale della Grecia, che ha portato al dramma odierno di quel paese, a cui è seguito il contagio degli altri debiti sovrani, con l’aggravante delle politiche deflattive imposte indiscriminatamente a tutti i paesi dell’unione monetaria.
Le principali fonti statistiche istituzionali prefigurano per il 2012 un’Europa divisa fra paesi in stagnazione e paesi in recessione, senza alcuna ripresa dell’occupazione. Tutto questo si sommerà alla prosecuzione delle tensioni sugli interessi dei titoli di lungo periodo della maggioranza degli stati che inevitabilmente proseguirà. La disoccupazione ha assunto carattere strutturale. Il commercio internazionale registra un’imponente flessione e aumentano le misure protezionistiche. I paesi emergenti rallentano vistosamente la crescita. Aumentano i poveri e le disuguaglianze sociali. Crollano le produzioni, i consumi, i risparmi e gli investimenti. Eppure, è evidente che tutte le linee di politica economica e di finanza pubblica adottate sinora non sono altro che una risposta alle sole conseguenze della crisi globale scoppiata nel 2008, ma non alle cause alla radice della stessa, in questo modo acuendone e persino moltiplicandone gli effetti. Il double dip e il fendente speculativo sui debiti sovrani europei rappresentano un continuum della crisi scoppiata nel 2008 dovuto anche alla sottovalutazione scientifica della natura strutturale della recessione globale. È ormai noto che la crisi finanziaria è scaturita dal debito privato e che l’attuale stress dei bilanci pubblici è solo conseguenza e non causa della stessa crisi, anche se ciò sta ora creando un rischio di default per alcuni paesi. La crisi finanziaria ha avuto inizio nella seconda metà del 2007 e la sequenza è stata: scoppio della bolla immobiliare, crisi finanziaria, credit crunch, recessione, aumento dei disavanzi e dei debiti (per stabilizzatori automatici, manovre di sostegno all’economia reale e soprattutto salvataggi delle banche), attacco ai debiti sovrani, risposte sbagliate delle politiche economiche a partire dal 2009. Le cause della crisi – identificate anche dal Fmi, dalla Commissione europea, dall’Ilo e da molte altre istituzioni internazionali – riscontrabili nell’aumento delle disuguaglianze, nel formarsi di squilibri strutturali nei rapporti commerciali tra i diversi paesi e nella degenerazione della finanza.
Questa è una crisi di modello e occorre una riforma del modello per ritrovare la ripresa. Bisogna assumere uno sguardo più vasto, una prospettiva di lungo periodo. Nemmeno i paesi europei in avanzo commerciale, nei prossimi anni, potranno contare su una “locomotiva” americana o cinese, tanto meno sulla capacità di assorbimento degli altri paesi europei. Anzi, proprio la divergenza competitiva dei paesi dell’area euro impedisce la risoluzione della crisi. Inutile spostare la svalutazione competitiva dalla moneta ai costi della produzione e, più precisamente, al costo del lavoro. Inutile ridurre le pensioni, i beni collettivi e lo stato sociale. Questa è una crisi di domanda. La lezione che viene dalla crisi è chiara.
Il nodo che oggi si pone in Europa sta nel decidere se il riequilibrio inevitabile avverrà attraverso la “depressione” (con una ricaduta regressiva e democraticamente pericolosa) oppure con lungimiranti scelte di cooperazione, rilanciando l’originaria “spinta” europeista, evitando che i paesi in disavanzo non intervengano sui propri squilibri e, allo stesso tempo, che i paesi che hanno approfittato dell’euro (come la Germania) accumulino surplus invece di svolgere la funzione di locomotiva a cui sono tenuti in un contesto di moneta unica. La partita non è ancora chiusa ma la risorsa tempo è drammaticamente scarsa. Occorre un salto di qualità nel promuovere e organizzare una proposta alternativa.
In questo quadro, le iniziative dei governi nazionali, comprese quelle del governo dei tecnici in Italia, non sono in grado di scongiurare il rischio di default finanziario di alcuni paesi, rischio aggravato dall’effetto depressivo delle politiche europee e delle conseguenti politiche degli stessi governi. Abbiamo bisogno di nuova crescita economica ma questa non può che essere una crescita “nuova”, anche in direzione di un’economia della conoscenza e di un’economia sostenibile in termini ambientali, distributivi e sociali. Oggi più che mai “cosa produrre” è importante almeno quanto “come produrre”. Ci vuole un nuovo modello in cui lo Stato e le istituzioni sovranazionali orientino i risparmi, gli investimenti e lo sviluppo. È necessario dunque un programma di riforme appoggiato sui lineamenti di una nuova politica economica, ispirata da una nuova idea di sostenibilità di lungo periodo, economica, sociale, ambientale e intergenerazionale, fondata, in primo luogo, su investimenti e consumi collettivi.
L’equità è la frontiera su cui orientare le scelte politiche nazionali e internazionali. Ridurre le disuguaglianze vuol dire crescere e crescere bene. Ridurle fra popoli, fra nazioni e all’interno degli stati. Non a caso i paesi europei con minori diseguaglianze – e quindi con gli indici di concentrazione del reddito e della ricchezza più bassi – sono anche quelli che stanno soffrendo meno la crisi e che si sono sviluppati meglio, con più Pil pro-capite e benessere diffuso (per limitarci all’Europa: Danimarca, Francia, Germania, Finlandia, Olanda, Svezia, Norvegia). Per questo, all’interno di un progetto di armonizzazione fiscale europea, ci vuole un riequilibrio dei singoli sistemi fiscali nazionali per aumentare la tassazione sulle grandi concentrazioni di reddito e di rendita, tassare le grandi ricchezze parassitarie e liberare le risorse private tenute imprigionate, aumentare la spesa e gli investimenti pubblici.
In sintesi, bisogna ripartire dal lavoro. Bisogna realizzare piani di spesa pubblica diretta per il lavoro e per gli investimenti – a partire da quelli verdi, infrastrutturali, ad alta intensità tecnologica e di conoscenza – finanziati con una tassazione ad hoc e anche in disavanzo, se necessario, tenendo insieme domanda e offerta. In altre parole: “socializzare gli investimenti e l’occupazione” per riqualificare l’offerta e aumentarne la produttività, sostenendo la domanda e, al tempo stesso, contenendo l’inflazione e il rapporto debito/Pil nel medio-lungo periodo. La capacità dello stato di elaborare strategie di investimento per realizzare questi obbiettivi può essere una leva anche per la mobilitazione del risparmio privato. L’imprescindibile disciplina di bilancio, in ragione del consolidamento strutturale nel lungo periodo, va realizzata in modo lungimirante ma coerente con la scelta della via alta della competitività, della ricerca della piena occupazione e della qualità delle produzioni, con l’aiuto e lo stimolo dell’intervento pubblico, coordinato a livello europeo.
È proprio l’inadeguata architettura dell’euro che offre l’opportunità alla speculazione di agire. Il disegno istituzionale dell’euro priva i singoli paesi della possibilità di emettere moneta e di svalutare. Ma non garantisce il debito pubblico. Qualunque paese può essere aggredito, con successo, in queste condizioni. Chi specula, infatti, non dovrà temere né la svalutazione, né l’acquisto di titoli da parte della Banca centrale. L’attuale configurazione della Bce mette gli stati dell’euro in soggezione dei mercati. Condizione necessaria alla realizzazione di politiche alternative diventa il rafforzamento della governance democratica europea, attraverso innanzitutto l’europeizzazione del debito dei paesi dell’Unione monetaria e la modifica dei trattati europei affinché la Bce possa emettere moneta a garanzia dei debiti pubblici e diventare a tutti gli effetti “prestatore di ultima istanza”. Numerose le proposte in tal senso; come quella presentata dai “cinque saggi” tedeschi che pensano ad un fondo che smaltisca nel lunghissimo periodo la parte di debiti pubblici europei che eccede il 60 per cento. Basterebbe prendere le proposte in considerazione e non derubricarle ideologicamente.
L’Europa non è stabile e non cresce. Il patto di stabilità e crescita è certamente fallito, non perché non sia stato ben applicato, semplicemente perché non poteva funzionare. Il patto di stabilità andrebbe non rafforzato, ma cambiato. Invece del solo indebitamento pubblico, i parametri vincolanti di riferimento dovrebbero comprendere il debito totale – somma del debito pubblico e privato –, il debito sull’estero e il saldo della bilancia dei pagamenti di ciascun paese. È necessario inoltre includere tra i parametri un obbiettivo di crescita e un obbiettivo occupazionale perché l’Europa deve tornare a porsi la finalità della piena occupazione. Bisognerebbe, appunto, partire dalla crescita e non dalla stabilità, per regolare su di essa la politica macroeconomica, definendo poi il tasso di inflazione e il livello dei deficit pubblici accettabili in una determinata fase, articolando il tutto tra i vari paesi dell’Unione anche con l’obbiettivo di ridurne le divergenze di competitività. Occorre recuperare una politica industriale, europea e dei singoli Stati, in grado di sostenere e riorganizzare i fattori per una “nuova crescita”, anche imponendo un modello redistributivo funzionale alla sua implementazione ed alla sua qualità. D’altra parte, la crisi può essere scongiurata solo se il peso del riequilibrio commerciale e finanziario graverà oltre che sulle spalle dei paesi debitori anche su quelle dei paesi creditori, attraverso un’espansione della domanda da parte di questi ultimi. In questa prospettiva è necessaria una politica dei redditi europea fondata sulla leva fiscale, sul welfare e, soprattutto, su uno “standard retributivo europeo” che garantisca, a livello di area e con le differenze coerenti con l’obbiettivo della convergenza dei livelli di competitività, una crescita delle retribuzioni reali almeno uguale alla crescita della produttività. Tutto ciò significa avere una strategia di crescita a livello europeo e far compiere sia pure gradualmente un salto all’unità politica.
Queste sono le prerogative per l’avvio di una vera unificazione fiscale, distinguendo il “debito buono” dal “debito cattivo” come condizione per politiche di sviluppo di dimensione europea, stimolando la definanziarizzazione delle economie avanzate e il controllo dei movimenti di capitale (cominciando con la separazione delle banche commerciali e da quelle di investimento e con l’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie internazionali che può servire a limitare la libertà di movimento speculativo dei capitali) in funzione delle prospettive dell’economia reale, riaprendo così una prospettiva di futuro per le nuove generazioni. Le istituzioni europee vanno, per questo, democratizzate rafforzando il Parlamento europeo e introducendo il voto a maggioranza qualificata ed il peso dei diversi stati secondo la loro popolazione. Il presente appello vuole proporre un ultimo “avviso ai naviganti”.
Pur consapevoli delle difficoltà e delle spinte diverse che portano le istituzioni europee e i governi nazionali ad adottare politiche di corto respiro strategico e riformatore, crediamo che la visione dei conservatori europei non possa costituire una soluzione alla crisi. Le politiche europee attuali insistono su un approccio sbagliato.
A tutti coloro che – in buona fede – continuano a credere nei presupposti scientifici in base ai quali si ritiene che attraverso le politiche in atto si possa migliorare la situazione economica e finanziaria globale, europea e nazionale (compresa quella italiana), suggeriamo di “dubitare” delle loro posizioni.
A tutti coloro, invece, più consapevoli dell’impatto economico e sociale che la politica delle disuguaglianze e dell’austerità incentrata sul mantra “meno Stato, più mercato” sta generando sull’umanità, chiediamo di assumere un atto di denuncia e di responsabilità per correggere una traiettoria altrimenti irrimediabilmente segnata. Occorrono il coraggio e la visione per imporre una nuova politica economica. A tutti coloro che dispongono di questo coraggio e di questa visione, chiediamo di usarli per cambiare la storia”.
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